L’ultima pacchiana – di Stefano Vaiarelli

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Donna Concetta è la voce del vico. Fin dalle prime ore del mattino la sento parlare con la figlia. Le case nei vichi hanno le porte aperte e non conoscono la privacy. Grida in dialetto, un dialetto stretto come l’istmo su cui è nata, una lingua di terra schiacciata a nord dalla Sila e a sud dalle Serre che portano sull’Aspromonte. A est e a ovest le coste, così ravvicinate che da alcune sommità si possono vedere i due mari. La striscia di terra più stretta della penisola italiana. Una strozzatatura al collo, forse per questo non parlano, urlano.

Donna Concetta è la voce del passato. Veste, sempre, nel tradizionale abito calabrese, nella versione da lutto, “nel nero di sempre”. È vestita da pacchiana, come venivano chiamate le contadine una volta. I pezzi sono nove: a suttana, u pannu, u juppune, u dubbriettu, i manichi, u mandile, u mantesinu, u ricciu e u hilindenti. Un vestito che porta il peso della tradizione, la racconta. Un vestito è un racconto, con una trama e un intreccio, legati a doppio filo. Testo e tessuto hanno la stessa origine etimologica. Lei non vuole cambiare la sua storia e se la tiene addosso, tutti i giorni.

Donna Concetta è la voce di tutti gli avvenimenti. Sembra sia lì da sempre, immutata, sospesa tra passato e futuro, come la sua Terra, misteriosa e ancestrale. Approdo e punto di partenza per un viaggio nella storia. C’è stato un tempo in cui tutto qui era un paradiso e ora viviamo un tempo in cui si pensa che qui non ci sarà futuro.

Donna Concetta ha visto l’arrivo di forestieri e la partenza di familiari che non hanno mai più fatto ritorno. Riconosce il vero sapore dei pomodori e il volto del criminale. Conosce le fitte distese di ulivi e gli scheletri di cemento armato. Ha sentito le voci allegre di bambini spensierati che giocavano per strada e il silenzio assordante di giovani piegati sui cellulari.

Donna Concetta sta seduta sull’uscio di casa, ad aspettare che qualcosa accada. In quel vico, luogo del suo essere, lei vive il suo presente, le appartiene. Lei è la mia certezza, io sono la mia incertezza. Quel vico, per me, è luogo di ritorno. Mi fa pensare al passato e al futuro. Da lì devo ripartire per l’altrove, per luoghi ignoti.

Donna Concetta, per me, è lì da sempre, dalla notte dei tempi. Ha visto l’euforia degli Enotri al loro arrivo nel golfo di Squillace, quando il sud Italia era l’America degli antichi greci. La gratitudine per l’accoglienza di popoli di etnia diversa. Lo stupore di esploratori arrivati dal nord Europa alla fine del XIX secolo. Incontri e scambi che arricchiscono. Il dolore per la partenza di amici, amori, fratelli, emigrati prima nelle Americhe, poi in Germania e infine nell’alta Italia, alla ricerca di miglior fortuna. Viaggi della “speranza”, perché non sapevano dove sarebbero finiti, cosa avrebbero fatto, chi avrebbero incontrati. Senza aspettative, un po’ angosciati dall’ignoto, un po’ affascinati dall’avventura.

Donna Concetta non sa cos’è l’avventura, la immagina con una faccia oscura. Nel vico è riparata anche dal sole, preferisce non rischiare di prendere sòle. Non si allontana dal paese, ché se poi c’è qualcuno che non è cortese, chi prenderà le sue difese? È più sicura qui, dove anche al buio si muove con facilità, di là no, di là non ci va.

Donna Concetta è il mio punto di arrivo e di partenza. In cima ai tetti che spiovono sui vichi, fisso l’orizzonte. Sgombro da timori, l’animo è ben predisposto per andare altrove. Incerto su tutto, vago con la mente nei luoghi più remoti. Pronto a perdermi e a ritrovarmi, quel che verrà verrà per me anche se non so cosa sarà. I piedi ben radicati a terra, le bracce aperte ad accogliere l’universo. Mi sento un piccolo frammento di pietra su un sentiero. Come per l’avvenire, impossibile prevedere quanto lungo sarà il cammino. Non servono i calcoli, solo un cuore grande.

Donna Concetta non sa di essere l’ultima pacchiana del paese. Io non so se al mio ritorno sentirò la sua voce nel vico. Forse avrà trovato il suo aldilà e io avrò perduto un punto di riferimento. Non c’è più la bussola, ma l’ago punge sospeso al filo che si snoda.

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