Francesco Saba Sardi – Ultraphanes

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Le divinità, monoteistiche o panteistiche, sono tutte invenzioni umane. Di cui si ha traccia circa dodicimila anni fa. E prima? Era un interrogativo che assillava già i greci. I quali avevano elaborato varie teogonie, e la più nota tra quelle a noi pervenute è attribuibile a Esiodo, rapsodo del VII secolo a.C., posteriore all’Iliade e all’Odissea. La domanda – chi, cosa c’era prima? – è la stessa che ricorre oggi tra i fedeli del Big Bang: c’era un altro universo prima? E come strutturato?

I greci avevano la risorsa di un mito di origine asiatica ripreso dal sistema mitologico orfico, e fatto proprio da Esiodo. Secondo la sua Teogonia, ma anche secondo altre versioni di cui restano solo tracce, Urano fu l’universo nel suo stato primitivo. Suo figlio Cronos (Tempo) cominciò a dargli ordine, opera proseguita dai sui nipoti Zeus, Positone e Ades. Secondo Esiodo, il primo dio ad apparire fu Eros, motore delle nascite e dunque della proliferazione e del perdurare delle collettività.

Secondo la tradizione orfica, invece, il primo «dio momentaneo» (una incerta presenza, un’imprecisa manifestazione, luce essa stessa e insieme fonte di illuminazione) fu Phanes, entità che appare e fa apparire. Essenziale la differenza con Eros, concepito appunto come un dio. Qualcosa di intraducibile nel linguaggio delle religioni rivelate. Le quali hanno tentato di integrarselo e liquidarlo, contrapponendovi la loro presunta verità assoluta.

Leggo a tale proposito in una enciclopedia qualsiasi che Fanete (zoppicante italianizzazione del greco) sarebbe stato «un mostro ermafrodita, nato dall’uovo cosmico, la cui parte superiore diventa cielo, l’inferiore terra, che si ritira nel cielo all’apparire del dominio di Zeus». Meno elementare e imprecisa la concezione greca. Per la quale Phanes non aveva una funzione specifica e neppure una fisionomia, appariva improvvisamente, come una luce, rendendo visibili le cose che erano avvolte nell’oscurità primordiale. Una variante ne è proposta dalle originarie concezioni orfiche, cioè i testi attribuiti a Orfeo, secondo le quali Cronos avrebbe generato l’Etere e il Caos, abisso senza limiti, all’interno del quale sorse un essere misterioso figlio dell’Etere, appunto Phanes, ovvero Protogeo. In una seconda fase, Phanes, congiungendosi con la notte, dava origine alle entità cosmiche e a numerose divinità, e soprattutto a Zeus e ai suoi figli. In una terza fase, Zeus divora Phanes, il mondo e tutti gli dèi, divenendo lui stesso Phanes in una nuova forma. In una quarta fase, Zeus-Phanes consegna lo scettro a Dioniso, il figlio avuto da sua figlia Persefone. Dioniso bambino viene ucciso dai Titani, Zeus lo fa rinascere e fulmina i suoi uccisori. L’umanità attuale (quella euroasiatica del VII secolo) aveva visto la luce nel contesto di questi conflitti.

Phanes è dunque l’Apparso, la Rivelazione: la Parola originaria proprio perché non ha origine. La Parola-mito che si rivela senza l’intermediazione della ratio e del logos. La Parola-mito, senz’altro assimilabile alla poesis (cioè alla produzione di quella che diciamo opera d’arte), cioè Zeus-Phanes, logos che contiene la Parola originaria trasformandola in linguaggio sistematico. Assimilabile pure, la Parola-mito, all’erotismo, che non è sesso-genitalità, ma rivelazione fine a se stessa, irradiante e illuminante e, se «inghiottita» dal moralismo, confinata nell’inesistente perversione.

In queste concezioni, Zeus ingloba l’Apparso diventando il portatore, l’istitutore di grammatica e sintassi parallelamente all’affermarsi del modulo stanziale, cioè del villaggio (germe della città), dell’agricoltura, dell’allevamento, insomma della società (sostituitasi ai gruppi itineranti, viventi di caccia e raccolta, e non gerarchizzati, di cui sussistono residui nei cosiddetti primitivi odierni). E istitutore, questo Zeus contenente il Phanes di cui si è ormai spenta la luce rivelatrice, anche dell’assudittamento della donna, confinata nel ruolo di produttrice di figli, custode dei defunti, signora ctonia, iniziatrice del sacerdozio. In altre parole, la letteralizzazione consistita nell’affermare che le cose sono andate – vanno, e andranno – proprio così: in obbedienza al tempo rettilineo. Donde l’invenzione della guerra (non più lo scontro cruente, clanico, non più la caccia alle teste e simili, ma l’organizzazione gerarchica armata).

L’inghiottimento del Phanes è simbolico. Il letteralismo è la sottomissione dell’Apparso, della parola alla triade Discorso-Letteratura-Normalina, dove con Normalina designo la sopraffacente droga diffusa a piene mani dalle strutture che diciamo civili, la Polis, la Scrittà (intendendo con questa l’indissolubile legame tra la struttura urbana e i grafismi), le scuole, le università, le caserme, i manicomi, i giornali, la produzione dei libri, le chiese, le sette eccetera. Insomma, la riduzione all’Uno. E l’evento periglioso, il Big Bang in varie forme e tonalità, è accaduto realmente. Il logos è giudice supremo. La sua affermazione, il suo trionfo resta simbolico, ma è un dogma, una favola che deve essere presa per vera: un atto di fede su cui si regge la nostra concezione del mondo.

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