Francesco Saba Sardi – Robinson – Prolegomeni della macchina

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Francesco Saba Sardi – Robinson – Prolegomeni della macchina– Conferenza, 1983

“Robinson dalle sbarre e dalle chiavarde eterne dell’Oceano”, Robinson ha un Doppelgänger. L’isola è resa più silenziosa e deserta da numerose presenze animali, il vecchio cane, le gatte mansuete, le miti capre, il pappagallo stridulo. Voci bestiali, non umane, non parole. Ma un martello, un martello robinsonne, rompe umanamente la quiete. L’attrezzatura, lo strumentario, è il doppio dell’eremita. L’isola è un cantiere, un fortilizio, un campo coltivato, una foresta sapientemente sfruttata. Robinson non vive di caccia, pesca, raccolta. Non è un predatore – o lo è mediamente, negando con indignazione di esserlo-: si pretende ordinatore e succreatore. Robinson orat et laborat, non si immerge nel tempo-sogno, e questo lo separa inesorabilmente da Venerdì e dai cannibali. Robinson è, nella lingua dei samoani, un papalaghi, colui che buca il cielo, la cui nave balza dall’orizzonte e apre un bianco foro nella volta azzurra. Papalaghi solo per il momento arenato su una spiaggia provvisoriamente incognita. Fuggire dall’isola, tornare nel luogo donde si irradia la trasformazione del mondo, sottrarsi alla voluttà del luogo senza luogo, al torpido non cartografato, per rifar propria la dimensione in cui, “ogni enormità fiorisce come un fiore”: è questo che vuole, con tutte le sue forze, Robinson, l’antieremita che pure ha imparato a vivere nella Tebaide secondo l’antica tradizione stilistica. Robinson Crosue, il libro più letto, stampato, diffuso, nel mondo moderno, insegna che la tebaide è un carcere e che l’industria ne schiude i cancelli.

Per Robinson, la redenzione non è in alcun modo collegata con l’isolamento dal mondo; al contrario, essa si attua là dove si pone la prospettiva della succreazione del mondo. È il nocciolo dell’etica protestante cara ai sociologi e a Max Weber in particolare. I quali tuttavia, non si sono mai chiesti da dove viene l’industria. E qualora se la fossero posta, non si sarebbero con ogni probabilità, avveduti che è una domanda senza riposta. L’industria infatti non viene da nessun luogo. È insituabile. Infatti Max Weber parla di Entzauberung der Welt, di disincanto del mondo, come contrapposizione della  razionalizzazione scientifica all’illusione religiosa, supponendo una “tensione insanabile” tra “ la sfera dei valori della scienza e quella della salvezza religiosa”. Ma Weber non fa che descrivere l’evento dalla parte dell’accaduto, non collocandosi mai dalla parte dell’accadente; descrivere ciò che si manifesta al di qua dello spartiacque, la visione del quale gli viene preclusa dalle nebbie della pianura. Lungi dal segnare la fine dell’antropomorfismo, l’irruzione dell’industria instaura infatti un nuovo antropomorfismo.

Non descrivo né definisco l’industria. Ne dico semplicemente il senso, la nuova certezza di avere individuato il primum, la matrice. L’industria è coeva della scienza, fa anzi tutt’uno con essa. Non si da nessuna industria litica, posto anche che possano dirsi officine quelle in cui i Cro-Magnon scheggiavano e lisciavano amigdale e raschiatoi. Non si dà nessuna industria  nubiana, non è fabbricazione di maschere cerimoniali, non è mai esistita un’industria greco romana, il mondo antico non possedeva una tecnologia. Non c’è, non è concepibile, non è ammissibile, un’industria precristiana. L’industria si categorizza in quanto si operi la rottura dell’antica alleanza, sostituita dapprima da un “nuovo patto” con la divinità, e poi dalla “scommessa” della tecnoscienza. La tecnica greca, che non è un corpus uniforme, non è entrata a far parte del retaggio della cultura moderna, a differenza della letteratura, dell’arte, della filosofia elleniche, e per una ragione assai semplice: non era tecno-logia. Ha un bell’affannarsi Needham a indagare sul perché la Cina non ha sviluppato una scienza con la sua coorte di invenzione –innovazione, di ricerca e applicazione tecnologica, e dunque sistematica, di categorie economiche e forze produttive, insieme coerente che occupa e invade senza residui tutto il tempo spazio che usiamo definire “moderno”. Lo storico, che è un metafisico, applica i suoi concetti all’antichità; la tecnica greca, persiana, incaica, neolitica, diviene il fondale su cui si staglia il primattore, entrata in scena preparata da millenni di goffi tentativi, come avanspettacolo clownesco che prelude alla concretezza, alla serietà, alla soluzione dell’enigma. Una continuità, tale il presupposto metafisico. Allevati dalla razionalità fantascientifica, allattati dalle sue mammelle, calcolo e progetto, siano convinti che l’industria sia sempre stata tra noi, in nuce o in toto. Il passato ci si configura prospettico: macchine via via più piccole e inefficaci, industria via via rozza ed elementare, a mano a mano che ci si riaccosta al punto che, contraddicendo la geometria euclidea, “c’è stato”, ha avuto una “dimensione”, una concreta consistenza in quanto si è trattato di un momento preciso, inconfondibile, dell’evoluzione (un salto giù dall’albero del frugivoro, la crescita dei camini del carnivoro), e dunque è concretamente spazio-temporale ancorché non ancora individuato (storicizzato): un punto fermo, non relativizzabile né relativizzato, pena la perdita dell’essenziale premessa.

E industria fin quasi a ridursi alla non-industria, alla non – macchina, ma pur sempre, dacché si è verificata la presunta ominizzazione, germi e parvenze di macchine e industria. Macchine persino il propulsore, persino l’amigdala; e macchina e dunque industria, opifici, organizzazione produttiva, per trasformare i mehnir di Carnac e i massi della Sacsahuaman, gli obelischi di Luxor, le statue dell’isola di Pasqua. Macchine mobili e macchine statiche: carri dunque, e montagne minuziosamente intagliate per coltivarvi  uno scarso riso, una stenta vite. Macchine magiche  e macchiane templi, sontuose e avare, a vapore e a combustione interna, volanti, mandrini e presse, computers, secondo una visione antientropica o meglio di eccezione (grazie all’organo macchina che risiede nel cranio) rispetto all’entropia. Una visione progressista, tale per di più la macchina industria è vicina, nei primi piani, e più grande dev’essere; più è coeva, e più utile risulta. È una visione sorretta dallo scherno per le imprecisioni, le assurdità degli antichi aggeggiatori ancora all’oscuro del calcolo differenziale e della teoria dei sistemi. La macchina, dunque, sarebbe sempre esistita, se non altro come sogno, aspirazione, tesoro da conquistare, Graal al quale attingere. O, se l’industria era appena in fasce, non per questo non era astante, nella povera umanità, l’aspirazione a essa. L’ottica in questione ha a sua volta a fondamento la decretata immutabilità di quella che si vuole designare come mente, alla quale viene fatto divieto di percepire un reale che non sia interpretato e interpretabile. Ovvero, per essa si dà una gerarchia al sommo della quale si colloca l’interpretazione, la spiegazione che, sempre esistita, è stata obnubilata in passato, quando l’uomo era ancora selvaggio, dalla visione mitica alla quale corrispondeva l’incapacità di dominare il mondo circostante. È la concezione che costituisce la spina dorsale del pensiero occidentale, la sua cosmogonia, il suo mitico racconto delle origini: la lotta tra Luce e Tenebra, lotta che a lungo andare, per fatal-biologico sviluppo, si sarebbe tradotta nel “disincantamento” del mondo, vale a dire nella sua codificazione. Ma il mondo così catalogato resta pur sempre minacciato dalla Tenebra, e il trionfo su questa sarà definitivo soltanto allorché saranno sondati tutti gli abissi mediante gli strumenti del Sapere.

Ora, questo che scrivo è un ventriloquo, un testo, ed ecco pertanto che in esso il Discorso, ineludibile norma della traduzione di ciò che accade, è accaduto, accadrà nel gergo dell’intermediazione, stampella in assenza della quale siamo divenuti o ci supponiamo inetti, ciechi, sordi, impotenti, il Discorso, dunque, può apparire cancellabile. Mi è lecito proporre il superamento della separatezza, rimpiangere l’unità perduta, deprecare la perdita del Paradiso. E d’altro canto, non posso ignorare che da quando Satana ha preso a cantare per conto suo nel coro angelico, la frattura è in-componibile. Satana non potrebbe cantare il suo contro-canto, il suo contro-potere, se già non si desse scissione, se il coro angelico non fosse esclusione e limite. Il mito-cultura del mondo moderno non offre scampo: o con Dio o con Satana, il che significa: o l’integrazione o il rifiuto fino agli (odierni) limiti dell’estasi-follia (o magari del buddismo, dello stoicismo, o di Sade) e dell’arte, avvertendo pur sempre che si tratta di “specializzazioni”. Fino alla catastrofe. E avvertendo anche che la cancellazione di una cultura-mito è sempre, non già un atto volontario, una somma di singole iniziative, bensì un evento “karmico”, corale, solistico, e collettivamente catastrofico, iscritto negli astri, nelle comete, nei nomi di Dio, in guerre capaci di cancellare un mondo, in pestilenze, in passaggi alla pastorizia, all’agricoltura, alla produzione meccanica, preannunciato dai profeti, proclamato come fatale. La lotta tra Luce e Tenebra presuppone una confusa aspirazione iniziale: qualcosa si agitava nella penombra, agognando allo splendore del giorno chiaro. L’uomo è dunque “nato”, c’è stata un’alba della civiltà, e oggi finalmente la civiltà, grazie agli angeli soccorrevoli che hanno nome Critica, Interpretazione, Razionalizzazione, non corre più il rischio della scomparsa. Si sarebbe dunque verificato un processo inesorabile di ominazione; e il Discorso, chiuso nel proprio labirinto, è costretto a chiedersi il perché di questa lotta, delle sue alterne vicende, e lo individua per lo più in eventi biologici oppure “economici” che comunque si rifanno a realtà fisiche.

Il pensiero storico-filosofico-scientifico, fedele alla reductio ad unum, proietta dunque l’odierna metastasi della tecnica nel passato, fedele interprete del mito–cultura dell’occidente, il rifiuto dell’essere-con sostituito dalla posizione “dirimpetto” prima e poi dell’essere sopra. Al pari di ogni mito-cultura, quello occidentale si rifà a un antenato, ma lo stravolge, ne giustifica la presenza non già con la sua collocazione in illus tempus, bensì con la realizzazione dei suoi dettami nel domani. L’antenato è appunto la Luce che, ancora infante, mirava al proprio affrancamento e dunque alla redenzione del mondo. E la Luce “sapeva”: era, infatti, razionale. Essa si è esplicata nella macchina, principale strumento di dominio sulla Tenebra. Elevando una rigorosa barriera di tecnologie, la Luce si è sentita sicura: ha reso impossibile (lo spera, se lo prospetta) il ritorno alla barbarie. Ma il metodo scientifico muove da un presupposto che sta al di fuori di esso: la sua giustificazione non va cercata nel metodo stesso, bensì in un atteggiamento che lo precede.

Allo stesso modo, lo strumento “primitivo” non viene in essere in conseguenza di una riflessione tecnologica, così come il gruppo “primitivo” ignora l’economia come categoria. Affermare il contrario, e farsi assertori della religio (lex, ligamen, pastoia) della progressio ad tale per cui scienza-industria è qualcosa cui l’umanità avrebbe sempre aspirato. Ma il mondo preletterato ignora la tecnica come categoria. Lo strumento è una “rivelazione”. È un ausiliario al pari di mille altri “aiutanti” (spiriti, erbe, segni…). La tecnica è una nuova concezione, forse un destino, certo una parola non storicizzabile. La tecnologia è un atteggiamento che parte già dall’oggetto realizzato, che muove dall’aldiqua, ignorando il brulichio che sta oltre il sogno, nella parola fonte delle cose. E che lo strumento “primitivo” sia frutto di rivelazione e non l’oricchicco dell’albero della tecnologia, è comprovato proprio dal Discorso che tende di continuo trappole a se stesso: che sia il suo modo di rinnovarsi? La stessa antropologia dice che persino quello che è considerato il padre della tecnica, il fuoco, non è affatto una scoperta che si verifica a un certo grado dell’evoluzione e ne testimonia questo brano tratto dal libro di Van der Post, Lost People of Kalahari, New York, 1958: «La danza dell’Orice lasciò il posto, quando scese l’oscurità, alla più importante danza dei boscimani, quella del fuoco… Raccontarono, con il ritmo, del primo boscimane che si addentra nell’oscurità, prima che ci fossero il pensiero e la materia, in cerca di una sostanza da cui ottenere il fuoco. Invano ne cercarono traccia nella sabbia, quasi che il fuoco fosse uno sfuggente animale; e per ore e ore continuarono a danzare in cerchio senza trovarla. Invocarono il sole, la luna e le stelle perché dessero loro il fuoco; poi li vedemmo guidare i compagni ciechi che, in qualche momento della ricerca, si erano accostati troppo alla fiamma ustionante. Poiché si trattava di una danza sacra, ecco, proseguendo nella ricerca, ognuno dei partecipanti acquisire il potere di guarire e di scacciare gli spiriti che tormentano… Danzarono con tanta foga, che il cerchio attorno al falò divenne un solco, una trincea in cui sprofondavano fino alle ginocchia… Poi, d’un tratto, aprirono il cerchio mettendosi a danzare a piedi nudi tra le fiamme; ma neppure allora la ricerca si concluse: il desiderio di fuoco divenne talmente intenso, che due delle donne più anziane a stento impedirono che uomini ossessionati si precipitassero a testa bassa tra le lingue ardenti, come falene, per eccessivo desiderio di luce».

Dunque, da dove non viene l’industria? Non viene, poiché non  esiste luogo della mito-cultura, Vana è la ricerca della culla degli indoariani o degli egizi, dell’italiano o del francese. Nessuna necessità, di nessun genere concreto, fa da ponte tra latino e volgare. Il padre non è padre, la madre non è madre, la carne non è carne. Essa è irraggiungibile. Il sistema parentale, che tanto assilla l’antropologia, è la speranza di vedere balenare, in qualche anfratto dell’albero genealogico e genetico, la carne–antenato da toccare con mano Colui che finalmente è. L’industria, dunque. Ma essa è il Nuovo Mito, il Nuovo Eone. Il rifiuto del mito su cui l’industria-scienza fonda la propria credibilità, è parte integrante del Nuovo Mito. L’origine dell’industria è infatti attribuita al tangibile, al fuori-di-noi. E senza volerlo, così facendo si torna a introdurre il destino, che è insituabile. L’industria non può essere senza il cristianesimo, perché soltanto questo proclama l’avvenuta Redenzione. E dunque il mondo si spalanca intatto alla conquista, alla sua riduzione. L’America non esiste prima che Colombo inauguri la conquista. E Redenzione significa che il mito cessa di essere monopolio di un potere, per tornare nel proprio alveo, parola dicibile da tutti. Il potere, ovvero monopolio del mito; e modulo-favola, ovvero ideologia. Il modulo-favola dice che, al termine di lunghe traversie, e con l’aiuto di benefiche potenze sovrane, si raggiunge un risultato, un premio. La favola non è il mito; o è il mito con uno spostamento di accento. Il mito sì che è avulatativo, nel senso di Weber: costata, è la rivelazione. Le potenze se ne sono andate dalla terra diurna; gli antenati-carne hanno abbandonato i pronipoti, bisogna ascendere in cielo o calare sottoterra per scoprire le tracce, e soltanto la ripetizione del viaggio mitico, la nekya, la crepuscolare od onirica ricerca delle tracce, può permettere di abbeverarsi alle fonti, non per avere guida o insegnamenti pratici, ma per porsi di fronte alla nuda maestà della Parola. Il sovrano, il tiranno, si proclama incarnazione dell’antenato scomparso, tornato per suo tramite a redimere il mondo dalla miseria concreta; il sovrano-tiranno è il nutritore. Egli pertanto inaugura il nuovo eone, il nuovo millennio. Nella sua versione, il sacrum non è più l’informe Cronos, ma il gerarchico Olimpo. Tuttavia, il sovrano non è ancora l’industria. Il coacervo di tecniche scollegate non è la tecnoscienza-macchina che è la favola realizzata, la riduzione del mitico al comunicabile, al Discorso. Ma dietro la tecnofavola industriale si cela il mito nuovo: subito negato, poiché la speranza di riaccendere tutti alle fonti della rivelazione è stata delusa e tradita. Un nuovo potere si è sostituito all’antico; una nuova parola intesse il mondo.

Il Redentore dunque ha concretezza: lo affermano le Nuove Scritture.

La macchina-industria è la traduzione del mito nella concretezza della favola: macchina città e infine macchina-macchina, la traduzione del potere nell’automatismo imperativo, cogente, più forte di ogni singolo, impersonale. La scienza è l’allieva della teologia. Tutti possono essere nell’industria, goderne i benefici, tutti possono essere uguali: tutti sono figli di dio, tutti redimibili. Certo, il potere che si è impossessato del nuovo eone inganna come sempre, e lo si sa: la sua promessa non è mai mantenuta. Ma non fa parte anche questa ambiguità, imprevedibilità, della sacralità? Non sono pieni i miti-racconto, di potenze burlone, dei Bricconi, Reineke Fuchse? E d’altra parte, la speranza della rivelazione-redenzione resiste a ogni inganno. Essa è cieca, aspira disperatamente a sentire la presenza mitica come tale. Si sa (lo sanno i mistici, lo sa il potere) che essa non è né Bene né Male, né Luce, né Ombra, e tuttavia lo strumento ce lo permette (o che si è interposto, con la forza e la persuasione, tra essa e l’uomo) è benedetto e indistruttibile, traduzione attuale della benedizione. Non si discute la necessità dello sviluppo, id est industrializzazione, del Terzo Mondo. Il suo avvento è per definizione salvifico, a essa ci si può abbandonare fiduciosi. La tecnoscienza-macchina-industria si configura dunque come favola realizzata. E la favola costantemente si rinnova per il fatto stesso di non garantire mai la rivelazione: la promette soltanto, donde la necessità di continue redenzioni. La rivoluzione marxista è figlia dell’industria, non perché questa abbia generato il proletariato, ma perché l’industria è la continua tensione soterica che procede sempre in avanti, lungo linee di fuga prospettiche, alla ricerca del punto in cui i binari finalmente si congiungono. E tale è la sua pregnanza, che ribaltandosi su se stessa diviene il modello, il sistema referenziale, lo schema universale di comprensione: uomo-macchina, dunque. Ma se ciò avviene, è perché il nuovo mito, inesorabilmente decaduto a favola, è divenuto la chiave del reale, al punto da permettere perfino previsioni, limitate ma sicure, non più affidate alla casualità e al capriccio dello stregone e dall’augure: ed è per forza così, dal momento che non è formulabile problema che non abbia soluzione, né si dà progetto senza che già ne sussista la realizzabilità. Donde la presa enorme, incoercibile, che l’industria e il suo caudatario, il consumismo, hanno sulle masse dei cosiddetti paesi in via di sviluppo. L’industria è infatti la promessa di redenzione universale, non più e non solo il bianchese, come il cristianesimo, né in arabesco, come l’islamismo. Universale perché accessibile a chiunque: biblioteche, libri, riviste, scuole, internet. Il Cristo contesta il potere economico (i mercanti) e politico (Dio è superiore e indifferente ai sovrani), e rimette in circolazione il mito. Bloccato dagli avversari di Galileo, il mito ritorna disponibile dopo il Rinascimento.

Ma chi ha mai detto che un nuovo mito debba essere foriero di bene? Anzi, ogni rimitizzazione è rovinosa, comporta Egire, Crociate, rivoluzioni industriali e bolsceviche, guerre mondiali, disastri ecologici, moltiplicazione delle nascite cui non fa riscontro la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Al suo apparire, l’industrializzazione ha evocata la paura delle masse, dei poveri privi di peso storico, che d’un tratto acquistano voce, e perentoria, ben al di là delle rivolte contadine, ben più clamorosa delle proteste di Cola di Rienzo. Oggi, il neomito-industria evoca altri fantasmi. A duecento anni dall’invenzione della macchina di Watt, di fronte all’industria gli schieramenti sono due: Ottimisti e pessimisti. Per gli uni, il capitalismo (non essendoci modo di produrre che non sia capitalistico) è, come dice Braudel, «una vecchia avventura che adatta di continuo i mezzi della sua dominazione»; o, come dice Kondratiev, siamo, sì, nella fase calante di un “ciclo secolare”, ma dopo la cometa apportatrice di peste tornerà il sole: la morale della favola suona infatti che vivremo felici e contenti dopo lunghe traversie. Alla categoria degli ottimisti si ascrivono i tecnologi innamorati dell’informatica e delle solite magnifiche sorti progressive: ottimista anche Prigogine, per il quale le due culture si sposeranno e vivranno felici e contente. Pessimisti coloro che richiamano l’attenzione sull’alienazione, i kala yuga, gli anni neri che stanno dietro l’angolo.

Ma quando mai l’uomo si è riconosciuto nella realtà? Qualsiasi antenato mitico dopo la creazione se ne va, lasciando i figli senza luce (e bisogna inventare il fuoco) e senza senso (e bisogna darselo cercando le tracce dell’antenato). E l’alienazione seconda dell’industria non fa che celare l’alienazione prima, immedicabile; e in effetti è impossibile dire perché sia venuto in essere il mondo della gerarchia, perché si sia elaborata la favola-potere, così come è impossibile dire il perché di una cultura-mito. E quella industriale, la cultura della tecnica, ha la stessa cogenza (e del resto lo stesso contenuto “nientico”) della lingua che parliamo, dei gesti che compiamo.

Industria: speranza di colmare il divario, di realizzare il millennio riempiendo noi stessi e il mondo di oggetti, cose e persone fino a chiudere con essi, per mero accumulo, la bocca dello Sheol.

L’industria è l’artificio, l’escamotage, la grande maschera che diverrà volto e cesserà di essere bautta il giorno in cui la macchina cesserà di essere “nemica dei lavoratori” per diventare loro “alleata”. La prospettiva soterica non occorre affatto che si realizzi per essere credibile. Ma poiché è terrena, questa speranza è anche fragile, e dunque intollerante. L’industria è andata di pari passo con il penitenziario, il manicomio, l’antisemitismo, il reclusorio di forme altre, nomadiche o itineranti che fossero poiché essa teme tutto ciò che in un modo o nell’altro le ricordano le cose non assimilabili, non mitologizzabili, le cose che ristagnano nell’ombra. Ma da quando in qua le società si sono configurate sulla stregua dei desideri assennati? Ed esistono poi desideri assennati?