Grand Tour. Arte,Cultura.Il viaggio in Italia – di Gabriella Landini

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Copertina di Francesco Muscente

Il Grand Tour era un viaggio itinerante per l’Europa molto in voga nel Settecento. Un’immersione nella cultura e nell’arte di altri paesi, in particolae europei, che durava anche anni, a seconda del viaggiatore e delle sue disponibilità economiche. Era certamente un vagabondaggio estremamente colto e destinato all’aristocrazia, e quindi un privilegio di pochi. Del Grand Tour il turismo odierno ha ereditato l’attrattiva per i viaggi d’oltremare, le mete ritenute esotiche, comprese le visite ai santuari della bellezza, quel “bello”, sia paesaggistico che architettonico con immancabili visite ai musei e alle gallerie d’arte. Nella tendenza del turismo contemporaneo è andato perduto invece lo spirito di profondo e attento interesse per l’acquisizione delle culture e delle lingue altre, il gusto per le atmosfere ispirative che queste procuravano, e che andava di pari passo allo straordinario arricchimento della propria lingua per raffinata sensibilità nella traduzione. Conseguentemente si è dissolto lo spirito più autentico dell’internazionalizzazione di ciascuna singolarità culturale, che richiede specificità e differenza del mos, che si manifesta nelle costumanze, nelle narrazioni, nei miti, nella lingua, nella parola e che non è relegabile, come avviene ora, semplicemente nel folclore, o peggio nella tristizia del pregiudizio. Dell’originarietà del mythos che muove incessantemente la lingua, e simultaneamente la cultura e l’arte, nella traversata della memoria, nel sogno, nella dimenticanza, poco resta nelle pretese storicistiche, che come sempre d’imperio fissano la memoria al ricordo, al reliquiario, per dirla con W.Benjamin, e lo fossilizzano alla rimembranza della tradizione monumentale resa letteralistica, in nome di un passato che legittima l’identico e del futuro che ne giustifica la riedizione. Un proliferare di leggendari sulla decadenza e sull’obsoleto culturale, sempre da sostituire con il medesimo aggiornato, e così procedendo, negando la tradizione e il suo tradimento. In particolare della traduzione: dall’altra lingua intendere nella propria. Non tutto è traducibile eppure si traduce. In questo la curiosità, la seduzione, l’alterità che ogni arte e cultura comporta. Nessuna cultura può decadere perché sempre in movimento, senza un tempo che ne decida la scadenza atta alla stesura del catalogo delle opere da riporre nello scaffale dei classici, dei moderni, degli avveniristi.

L’Italia era una delle destinazioni privilegiate del Grand Tour, per mitezza del clima, incantevoli paesaggi e altamente degna di nota per gli estimatori della cultura e dell’arte. Una meta formidabile per varietà e ricchezza di siti da visitare e per intenderne la varietà multiforme, per accostarsi, apprendere, ricercare ciò che viene ritenuto il bello, e che in tempi recenti ha fatto la fortuna della qualità dei prodotti Made in Italy da esportazione. Ma si può ritenere la cultura e l’arte scindibili dalla lingua, o meglio, dalle lingue, considerando anche i “dialetti”, nelle quali si manifestano e producono? Si può ritenere che culture e arti possano scomparire per ragioni endogene, senza che un pregiudizio metaculturale, o meglio che un’ideologia politica egemonica specifica si impossessi di una particolare cultura per decretarne la vita o la morte? Il vincitore e il vinto. La supremazia e il primato di una cultura sull’altra. Ovvero, l’enfasi della colonizzazione. Il nodo è assai complesso e non facilmente districabile, perché non di rado i poteri di volta in volta hanno bisogno di avvalersi di mitologie per permettere che l’identificazione collettiva sovrapponga e omologhi tecnologia e cultura. O meglio, confondere gli strumenti di controllo per atti di liberalità dove la cultura funziona da cassa di risonanza. E da questo non ne è esclusa nemmeno l’arte che per antonomasia è tale se libera da scopi e finalità, cioè quando si attiene al gioco e all’originarietà inventiva, arbitrariamente simbolica e indefinita del narrare. E nemmeno la cultura politica è la stessa cosa della politica della cultura, in quanto la seconda si impone sulla cultura determinandone conflittualità interne più che integrazione e coesistenza, cosa che accade indifferentemente con realtà e gruppi di culture e lingue differenti. Culture, arti maggiori e minori, maggioranze e minoranze. Il paradigma resta lo stesso che si tratti di un villaggio, di un paese, di una nazione o di continenti, fino al pianeta. Oggi infatti si parla di globalizzazione. Ma l’idea non è nuova, prima era mondializzazione, siamo passati dal mondo al globo, forse, con tecnologie più efficaci, ma che non attenuano discordie millenarie.

Di per sé ogni cultura mantiene un carattere specifico a seconda dei gruppi umani più o meno estesi. E il movimento incessante e inventivo della lingua ne decreta una proliferazione libera e incontrollabile. La cultura e l’arte vivono di invenzioni costanti: di parole, di forme, di segni, così come è permanente la loro sedimentazione nella memoria, scritta e orale che sia. La sua tessitura sta nel tramandare, nel tra- dire, o forse, più esattamente, l’in-tra-mandare, qualsiasi aborigeno lo racconta senza neppure avere nozione alcuna della temporalità. Il narrare tesse l’andamento del vivere, il suo imprescindibile ritmo. Per l’aborigeno il mythos coincideva col vivere (ora non più, divenuto reietto) e gli antenati ne erano la memoria a cui attingere. Nel pianeta ci sono culture che noi definiamo allo stato “primitivo” o “selvaggio” che dir si voglia, e che arrogantemente osserviamo come membri di un giardino zoologico, e quando va bene li interroghiamo antropologicamente come nostri arcaichi ascendenti, “noi prima di essere divenuti homini sapintissimi et illustrissimi”, ma un Inuit vive e viveva originariamente in una cultura radicalmente differente dalle altre e non ha mai provato interesse alcuno per la “civiltà” con cui comunque è venuto a contatto. Ritenere che le culture irriducibili al furor logicus progressista appartengano a un estatico “stato di natura”, avulso dall’incivilimento, dall’adattamento, diversamente invece da altri che man mano si sarebbero evoluti, è forviante ed tutt’altro che un concetto virtuoso e apportatore di elettività paradisiache, perché impone un’unica intransigente visione evoluzionistica . Indipendentemente che possa ritenere con molto onore, mia antenata e sorella uno scimpanzè o altre specie ritenute primigenie con un cuore e un fegato simile al mio (il che se per me risulta risibile, lo è un po’ meno per il gorilla nella gabbia), ma un siffatto convincimento è pericoloso quando diviene strumento efferato di razzismo e qualora sia ritenuto elemento valutativo gerarchico per gli umani, per gli animali e anche per l’ambiente. Ciascuna cultura è originaria, quanto lo sono le favelle delle genti e lo sono in quanto specifiche, particolari, differenti, ragione questa per le quali si internazionalizzano, diversamente la civilization è un processo accentrante di conversione più o meno forzata a un modello unicentrico che si dispone in sottogruppi di culture di servaggio destinate man mano a scomparire insieme a coloro che le parlano. In tal caso l’internazionalizzazione cade nell’oblio, trionfa il monoglottismo riduttivo, il sapere uniforme, perché scompare lo scambio e la traduzione. Più sono le culture che si incontrano, più ricchezza c’è, perché infinite sono le occasioni di interscambio, di invenzione, se si vuole di neologizzazione, più si utilizza la semplificazione, più si è poveri. E questo vale anche per l’economia unitamente all’umanità.

Primitivo, selvaggio, sono definizioni assurde di per sé, ma paradigmatiche e determinanti se rivolte al progetto di fare confluire tutte le culture nella civilizzazione, o meglio nella civitas dominante di volta in volta, l’urbanità quale modello unico a cui ricondurre ciò che si manifesta come differente e che tale si mantiene. L’etimo di cultura è molto interessante perché indica sia coltivare, che cogliere come pure camminare. Il movimento indistruttibile delle lingue e della memoria, che è per le genti ricchezza incommensurabile e inesauribile.

La cultura e l’arte si fanno vivendo e parlando, non sono mai di moda e nemmeno decadute, entrambe le categorie sono loro estranee, tranne in quei casi in cui avvengono sopraffazioni e genocidi. La civilizzazione però pretende di decretare la morte di alcune culture a favore di altre, e anche dell’arte e delle arti a seconda dei casi, in speciale modo per quel che riguarda le sempre più o meno reiterate inclinazioni totalitarie, come se questa fosse un’impresa possibile. O meglio, è un’aspirazione e una promessa sempre sottesa all’ideologia del progresso e delle sue tecniche di dominio, nel tentativo di raggiungere e realizzare il migliore dei mondi possibili, attraverso l’Apocalisse (rivelazione ultima), che la guerra dovrebbe decretare negli eletti alla vittoria definitiva. Non occorre che le promesse si avverino, basta la contemplazione dell’ipotetica meraviglia dell’eventualità. L’intento è destinato sempre a fallire (se fosse stato possibile sarebbe già avvenuto), e purtroppo a caro prezzo. Basterebbe leggere altrimenti il mito di Babele. L’unilingua, la lingua comune non esiste, poiché nulla è comune, neppure la lingua supposta propria, l’altro e l’afasia sono intoglibili, gli umani non si capiscono, equivocano, malintendono e dunque parlano. Ed è straordinario e fondamentale che lo facciano perché ciascuno contribuisce individualmente e collettivamente alla narrazione. Narrando affermano il sorprendente, l’incanto di vivere e la differenza. La torre di Babele non regge, non si tratta di uno stato di hybris punita dal dio, di un atto prometeico tanto audace quanto temerario e singolo da incuriosire la divinità fino a sfiorarla, la torre non potrebbe essere nemmeno edificata perché il mitico prevale sul razionale, la terra sta già in cielo e non c’è da raggiungerlo con altri mezzi, tanto che nel racconto della Pentecoste il mitico viene ristabilito nella sua potenza e sapienza originaria. Sogno, dimenticanza, arte, stanno all’apice, al varco estremo aperto della cultura che inventa e attinge dalle scissure della memoria incodificata. Gli umani parlano nell’altra lingua e intendono nella propria. La torre essendo una scempiaggine non sta in piedi, e… al signore del nostro riso non resta che ridere.

La cultura prevale sulla civilization, tanto che quando avvengono atti aggressivi di prevaricazione civilizzatrice di qualsiasi ideologia si ammanti, la risposta, tristemente, occorre dirlo, di reazione, è la chiusura, il nazionalismo, che è la rappresentazione rovesciata e nichilisticamente svuotante dell’idea stessa di nazione, nonché la negazione dell’internazionalizzazione.

Il Grand Tour è viaggio, immersione nell’alterità della lingua, della cultura e dell’arte, dell’invenzione e del gioco, del sogno e della dimenticanza che si dipana lungo la traccia della memoria. Memoria immemoriale che presta il testo a quel che in esso si concede a un vuoto rimembrante e traditore. L’antichissimo, il moderno, il desueto, il contemporaneo, perdono le loro connotazioni temporali, vengono consegnate dall’oblio al sogno senza il nesso storico causale che ne designa la soglia d’archivio. A nessuna arte è dato di morire, perché non cessa l’atto di parola che ne coglie per debordamento della memoria, quel che nel testo non è mai stato scritto, il suo iato pretestuale. Una dislettura, come direbbe Bloom. Inattuabile l’archiviazione della memoria, l’arte coglie in quel che sembra esserci quel che non c’è ancora. Cattura il silenzio, rilancia l’inattuale nella pausa delle forme, e scorge il nuovo, nella fenditura, nella crepa, nel rudere, desacralizzando. Le sue esche, i suoi pretesti sono imprevedibili e ignoti, si danno deliranti nell’intratestuale. L’arte, strappando le storie alla cronologia, ritrova la narrazione, il suo andamento, e restituisce nell’inedito la traccia dell’insignificanza della parola. Il suo essere inutilizzabile, il suo non essere cosa oggettivabile: follia e sberleffo della metafisica, elogio del lusso. E anche quando si sbilancia in orpelli ed ornamenti, l’arte resta dedita ai fantasmi che albergano nell’immaginazione rivelandosi tuttavia con la massima precisione a chi sappia scorgerli, vederli, tendere loro l’orecchio. Il Grand Tour è essenzialmente un’immersione nell’arte seducente e lieve, nella grazia della beanza di quanto ci viene consegnato alla nascita da forze e risorse incommensurabili, che immancabilmente si presentano all’appuntamento puntuali. Appaiono.