Dolcezze – di Francesco Saba Sardi

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In tempi antichissimi le donne vivevano per conto loro in una terra, gli uomini in un’altra. Un giorno un cacciatore si mise per via. A lungo camminò, giunse alla terra delle donne. Le donne lo videro. Gli piombarono addosso e lo percossero. Il cacciatore tornò dai suoi e raccontò l’avventura. “Era gente diversa da noi” disse. “Qui (indicandosi il petto) avevano due pezzi di carne. E capelli lunghi, lunghi. Era bella gente”. “Oh”, dissero gli altri cacciatori. Vogliamo vedere quella bella gente. Andiamo da loro”. Rispose il primo cacciatore: “Impossibile. Ci assalirebbero e ci farebbero del male. Sono assai più forti noi. Però un modo c’è. Procuratemi del buon miele.” I cacciatori andarono nella boscaglia e tornarono con molti favi. Il primo cacciatore andò dalle donne. Queste lo circondarono per percuoterlo. “Non fatemi del male!” disse il cacciatore. “Ho qualcosa di dolce, molto dolce,  lo voglio dare alla vostra capotribù”.

Il cacciatore andò dalla capotribù. Il cacciatore le disse: “Ecco qua, assaggia, è il lordume dell’eba del mio capotribù”. La capotribù delle donne si portò alla bocca il favo. Disse: “È dolce”. Lo mangiò. Disse: “Eccellente. Sicché, questo è il lordume dell’eba del tuo capotribù. Ma l’eba cos’è? Non posso avere un eba?”. Rispose il cacciatore: “Certo che sì. Ho con me anche un po’ dell’eba dei miei dako (defunti)”. E il cacciatore tirò fuori dalla sacca anche un pezzo di canna da zucchero. La capotribù lo masticò. Disse: “È buono. Molto buono. Dammene ancora”. Rispose il cacciatore: “Non ne ho più. Ognuno di miei dako aveva un solo eba. Così come ogni persona da noi ha un unico eba, e non di più”.

Volle sapere la capotribù: “E quest’eba  lo si può mangiare?”. Spiegò il cacciatore: “Certo, se venite tutte con me potrete averne finché volete. Solo che lo si mangia in un altro modo”. La capotribù volle sapere come e il cacciatore le disse: “Incrocia le gambe sopra di me. E adesso, tocca qui e infilati l’eba in quell’altra tua bocca”. Il cacciatore giacque con la capotribù. E la capotribù disse: “Com’è dolce! Com’è dolce!”. Poi convocò le altre donne e disse: “Ho assaggiato l’eba. È più dolce di ogni altra cosa. Orsù, andiamo dagli uomini. Ciascuno di loro ha un eba. Basta imparare a mangiarlo dall’altra parte”. Andarono tutte nel paese degli uomini, e fu così che la divisione tra i sessi cessò.

Come tutte le favole, anche questa dei cacciatori centro-africani contiene una morale, cioè mos, costumanza. La quale suona: ciò che è dolce unisce, accomuna, intenerisce, è conviviale, festoso. Non è soltanto un bisogno alimentare. È piacere, è un simbolo. Secondo una favola delle Samoa, dalla canna da zucchero nacquero il primo uomo e la prima donna. Honey, miele, in inglese significa “amore”. Dolce fu la bacca mangiata da Nana che ne restò gravida e diede ala luce il dio frigio Attis. Dolce è la torta nuziale. Dolce il peccato, a cominciare da quello della gola. Il nome di Como, il dio greco della mensa, deriva da un’antichissima radice egea che vuol dire “dolcezza”, e forse ne deriva comoedia, la teatralità ridente.

Ciò che è dolce è sempre un di più, un lusso spesso costoso. Per procurarsi il loro tesoro, il miele, i Raji, popolo nomade del Nepal meridionale, seguono la migrazione della api nella stagione dei fiori. Accendono fuochi senza fiamma ai piedi degli altissimi alberi per allontanare gli insetti dagli alveari. Tocca agli uomini più abili salire lassù, a piedi e mani nude, protetti solo dagli abiti e dal fumo, per sfidare miriadi di pungiglioni e staccare gli alveari con un coltello. Gli altri a terra spremono il miele dai favi, usano il polline come tonico per anziani e puerpere o come pomata per le ferite. Stanziatisi, gli uomini del Neolitico hanno domesticato le api e coltivato la canna da zucchero. I loro antenati paleolitici masticavano quella selvatica o altre erbe. Uomini con un dolce fiore di sambuco in bocca. I post-neolitici, sempre pronti alla gara e alla guerra, continuano a disputare su genesi e invenzioni. A chi spetta l’invenzione dello zucchero che è la dolcezza domesticata, fabbricata artificialmente? Sakaron, la canna da zucchero secondo i greci, comparve sulle rive del Mediterraneo portata dai persiani nel sesto secolo. Gli egizi la succhiavano già mille anni prima, e l’egiziano moderno ne mastica a ogni ora del giorno.

Gli arabi sostengono di esser stati loro a insegnare al’occidente il modo di ricavarne il “sale dolce”, il kurat al milh, mediante spremitura della canna: la scura melassa un po’ amarognola avrebbero imparato in seguito a trasformarla in zucchero e confettarne fiori e frutti. Cosa che gli altri cristiani impararono a fare solo nel decimo secolo, questa volta tramite Venezia che intratteneva volentieri commerci con gli “infedeli”. Da prima il “licore vinigiano” fu più che altro farmaco, e a lungo lo zucchero restò monopolio dei farmacisti con la benedizione degli ecclesiastici. Peccaminoso lusso: entrava infatti nella composizione degli unguenti con cui si ungevano le streghe per volare al Sabba.

Poi fu colonizzato il Brasile e, sterminati Tupi e Guaraní, gli schiavi negri portati dall’Africa per sostituirli furono messi a coltivare la canha e a triturarla per estrarne, negli engenhos, lo zucchero che Parigi e Londra invidiavano a Lisbona. Impadronirsi dei Caraibi significò assicurarsi il monopolio commerciale della dolcezza artificiale e a caro prezzo. Donde guerre e cruenze terrestri e marittime. I soffiatori di zucchero, richiesti dalle corti di tutta Europa, venivano reclutati tra i vetrai di Murano. Un lusso che provocava enfisemi polmonari. E un lusso che divene moda. Lo zucchero entrò in tutti i ricettari.

A Ferrara, Messinburgo, speziale, gran cerimoniere, ricettiere e alchimista, lo spargeva a piene mani sule carni. Fino all’Ottocento si usò unire il dolce al salato, e ancora oggi il lesso da noi lo si mangia —estremo residuo— con la mostarda. Poi, eclissi dell’usanza ma non certo dello zucchero, quello di canna sostituito ormai in larga misura dal succo di barbabietole. Le quali danno un prodotto bianco che più bianco non si può, grazie a trucchetti chimici, e che entra dappertutto. Si universalizza —e si degrada. È una presenza onnina: nelle confetture ma anche nelle confezioni in scatola di ogni tipo. Si allea con i grassi, imperversa nelle arterie sotto forma di trigliceridi alleati al funesto colesterolo.

È ancora solo dolcezza, lo zucchero? C’è chi ormai ne dubita. E se fosse diventata una maledizione? I crociati morti in Terra Santa tornavano spesso a casa caramellati dentro olle di melassa, preferita all’olio che era “santo” e pertanto riservato ai più nobili. Usanze scomparse in una con le streghe. Le quali tuttavia, se tornassero, per “ungersi” e volare potrebbero avvalersi della seguente ricetta: fiore di canapa indiana e fiore di papavero, un pugno; radice di elleboro polverizzata e grani di girasole pestati, un pizzico; sugna (ma anche olio d’oliva extra-vergine), grammi 100; hascihsh, grammi 5; zucchero, un mestolo raso. Ungersi dietro alle orecchie, il collo, lungo le carotidi, la zona del plesso solare, ovviamente e ben bene i genitali, le piante dei piedi, dietro il ginocchio e l’incavo del braccio. Tutti prodotti, come si vede, ovunque in vendita più o meno legale.

E buon volo, o almeno, buone torte, con cui sorprendere se stessi e gli amici in nome della globalizzazione di grassi, monosaccaridi (glucosio e fruttosio) e disaccaridi (lattosio e saccarosio, cioè zucchero per antonomasia).