Trasformazione e cambiamento – di Gabriella Landini

All rights reserved©Gabriella Landini
Copertina di Lisa Rampilli

Trasformazione, cambiamento, mutamento sono i termini in cui  celebriamo il rivolgimento di una qualche condizione, sia essa individuale o collettiva, a favore di una  concezione  “nuova”. La novità sarebbe l’effetto di una trasformazione. La parola cambiamento  indicherebbe una mutazione di forma: tramutare, permutare, alterare, piegare, barattare. Trasformare, invece, indica andare al di là di una forma. In entrambi i casi l’oggetto, res,  della novità  è preso nella nostra cultura da un sistema di credenze riguardanti la rappresentazione del tempo. Cambiamento, evoluzione, progresso, obbediscono al principio di causa – effetto che si dispiegano nello spazio-tempo lineare, circolare, finalisticamente salvifico e apocalittico. l’Apocalisse, come la riapertura per tutti dei cancelli del paradeisos, il giardino conchiuso dell’Eden garantito da mura di fuoco e diamante contro le quali invano si scaglierebbero le forze del conservatorismo, del ritorno all’indietro. Teorie e credenze affermano e riaffermano linearmente la fine del tempo o la fine di tutti i tempi, e la sua circolarità di morte e rinascita nella ripetizione degli eventi.  Le novità, quindi, sono strettamente legate più all’aggiornamento delle tecniche del vivere che a una vera trasformazione delle concezioni intorno alla vita. Chiamiamo progresso ciò che riguarda la tecnologia, le scienze, e via discorrendo, ma le nostre convinzioni, i nostri pregiudizi, le nostre superstizioni restano immutate da diecimila anni e anche più. Infatti, quello che accade da millenni non sembra mostrare alcuna effettiva trasformazione dell’umanità e neppure della civiltà.  Andare oltre l’organizzazione delle credenze di ogni genere è impresa ancora da fare. Ciò che muta nel tempo risulta un parziale aggiustamento rispetto a ciò che definiamo la conoscenza acquisita, il passato, la tradizione. L’idea stessa di progresso, di evoluzione presuppone la riproposizione del passato nel futuro, la continuità, e dunque anziché la novità si pone il rinnovamento. Perché vi sia novità non basta un abito nuovo per abbellire il preesistente condizionamento sottomesso all’idea evolutiva del: sono stato, sono e così sarò. Affinché vi sia trasformazione occorre che il principio razionale giudicante di contraddizione, non contraddizione, del terzo escluso, di misurazione e comparazione sia palesato in tutto il suo funzionamento. Il concetto di reductio ad unum, (diviso in due) è la visione dell’universo come prodotto o effetto di un intervento causale metafisico, e dunque, e pertanto rivolgimento come prodotto di un’unica volontà mono o policratica. E dunque trasformazioni frutto di reiterati tentativi di modificare l’assetto delle autorità e concezioni filosofiche esistenti e di sostituirle con altre simili allo scopo di effettuare programmatici cambiamenti nei rapporti politici, sociali, giuridici, economici, civili, personali. Mai le ragioni della trasformazione avvengono per osservazione di ciò che è e avviene. Uccidere è un atto esecrabile, eppure si continua a uccidere. La trasformazione e la rivolta resta sospesa nel mondo dei poteri, con conseguenze che si calano nel pensiero delle genti. Il potere continua a essere ritenuto una fatalità immutabile, una credenza capillarmente diffusa a ciascun individuo e riprodotto nelle relazioni interpersonali.

©Francesco Saba Sardi, disegno

©Francesco Saba Sardi, disegno

Il dualismo oppositivo di bene e male, buono e cattivo ci inseriscono in una concezione circolare in cui il bene nascerebbe dal male e viceversa, senza  apertura, senza differenza, e il bene e il male sono sempre convertibili l’uno nell’altro. Ogni guerra è il bene che trionfa sul male, oppure anche il male a scopo di bene. La paura coltiva il coraggio fino all’eroismo. Violenza, non-violenza. Se c’è violenza la soluzione non è la non- violenza, ma bensì, l’analisi, la presa in esame, il prendere atto della violenza in quanto tale. Intendere cosa sia e come si dispieghi ideologicamente la violenza è più determinante per la sua cessazione e per la trasformazione delle relazioni che non puntare al rimedio ideale della non violenza. Ma prendere atto degli eventi implica la non rassegnazione, l’indagine, l’interrogazione aperta, la differenza e non l’abitudine e l’indifferenza.  Qualsiasi cosa scaturita dal proprio opposto lo contiene senza estinguerlo (il non c’è più) e senza che altro intervenga.

La razionalità, la grammaticalità pertengono sempre e comunque al mitologema che presume di rivelare la sostanza della conoscenza, di fare della parola un oggetto manipolabile, fedele a un tentativo di continuo ripetuto e anzi, più che mai oggi, con il ricorso a quello che potremmo chiamare evoluziobiologismo. La causa sui  si trova sempre come giustificazione e garanzia anti- intellettuale. Inderogabile l’ascolto di quanto avviene mentre accade, senza fare intervenire le convinzioni e le asserzioni e le teorie già applicate e valide per il passato, che altro non sono che propaganda trita e ritrita prima dell’avvento delle catastrofi, anch’esse date per scontate e ineluttabili, già avvenute e dunque, perché no? non riprodurle assecondando il principio di morte che fa dell’umano  il massimo assertore e detrattore dell’humanitas. Trasformazione e cambiamento quindi non possono essere manifestazioni del riformismo. Ciò che non esiste più non può più essere riproposto. Se viene riformato è perché sussiste ancora e perdura, e per potere continuare inventa la rottura temporale, la caduta, la colpa, il conflitto, quella dialettica che sfocia prima nella prepotenza, poi nel disastro. E questo è uno degli aspetti più sconcertanti a cui i civilizzati hanno fatto l’abitudine: per perdurare i sistemi di dominio giungono alla distruzione, all’azzeramento per cancellare la memoria e lasciarne qualche resto archeologico, e quindi ristabilire un’ altra stratificazione di convinzioni aggiornate, ma nei fondamenti identiche alle precedenti, modificando solo qui e là qualche mattone, qualche architrave. Questo è la prerogativa della rappresentazione del cambiamento che in nome del possesso e della padronanza salva alcuni e qualcosa e cancella e annienta l’esistente e l’ambiente. L’eccellenza dell’umanità sarebbe la sua disumanità? La rappresentazione del cambiamento è esattamente la riproposizione dello status quo, l’araba fenice di modelli di potere che si ripresentano in novella guisa nella rassicurante forma della continuità del conosciuto, a scapito dello sconosciuto, dell’effettiva novità, che in quanto ignota resterebbe inoggettivabile. Se i cambiamenti e le trasformazioni intervenuti a livello tecnologico fossero autentiche trasformazioni, l’umanità avrebbe radicalmente modificato la sua cultura e la convivenza civile, ma così non è.  La volontà (volontas) di cambiamento è una fuga dalla trasformazione, una intenzionale resistenza al mutamento.  Evita di assecondare il ritmo, rifugge da ciò che è in atto, più precisamente l’analisi, il ragionamento, l’intelligenza, la responsabilità a favore delle proprie credenze (non posso credere che capiti questo o quello), di un sapere noto, di una formula data, della delega a modelli rassicuranti perché conosciuti anche se distruttivi nei loro effetti. Affinché vi sia trasformazione è indispensabile che l’analisi, l’esplorazione, sia priva di causa, priva di motivazioni, di idee di salvezza, di ricompensa, sia nell’aldiquà che nell’aldilà, che non si situi nelle finalizzazioni, solo in quel caso non interviene la rappresentazione del cambiamento. È indispensabile che i modelli metafisici che regolano la vita siano deposti a favore della vita come assoluto. Se la vita è un assoluto senza mediazioni possibili, allora la mia analisi non farà compromessi con il passato, in tale caso ci sarà apertura affinché vi sia l’inedito. Il cambiamento e la trasformazione non possono avvenire per necessità, per coercizione tranne essere un ordine nuovo che si sostituisce a uno precedente restaurando ciò che è ritenuto immutabile nelle sue prerogative fondamentali, con prevedibili aggiornamenti teorici ad hoc: è così e sempre sarà, come predestinazione umana, anche se ritenuta palesemente ingiusta. In questa fase interviene tuttavia un’altra considerazione, ed è quella dell’impellenza, della necessità della trasformazione.  I mutamenti avvengono in un ritmo, la reazione ai mutamenti è ciò che noi chiamiamo “bisogno di cambiare”, e contemporaneamente si profila anche un altro concetto, quello di restaurazione. Non diversamente accade nelle rivoluzioni siano esse astronomiche o civili. Come mai il cambiamento e la trasformazione implicano nella rappresentazione la disintegrazione del sistema attuale per dimostrare l’immutabilità della stessità autoreferenziale delle forme del potere e sue estrinsecazioni che si evolvono e progrediscono trasformate, rinnovate, rigenerate, riformate, evolutive, progredite, verso l’apocalisse, quella rivelazione temporale che è sempre presente per riaffermazione del dato e consolidato in vita fra premio e pena?

La trasformazione e il cambiamento, oltre la loro rappresentazione come possono intervenire? Quando la trasformazione è in atto e può essere assecondata come un’onda del mare e non illusoriamente governata? Come non assecondare la sistematica distruzione del mondo  convinti di trovarsi dalla parte dei distruttori che si salveranno dalla temperie? Trasformare, cambiare non semplici frammenti o parziali convinzioni, è possibile?

Lo è, anche nella semplice consapevolezza individuale, anzi, forse, la responsabilità e la consapevolezza individuale sono il primo atto di questo mutamento, perché aspettare che qualcosa avvenga e demandare che altri ci pensino altro non è che delega e irresponsabilità. Ciascuno di noi è chiamato alla responsabilità che ha nei confronti di se stesso e di conseguenza degli altri. La mia umanità non è né più né meno di quanto non possa esserlo quello di qualsiasi mio consimile o essere che mi circondi.  Ma questa indagine occorre prenda le mosse da ciò che avviene nel presente in atto, occorre che mi accorga di quanto avviene, e per farlo non posso inserire ciò che osservo o  indago nelle mie convinzioni precedenti, o più chiaramente ciò che avviene adesso chiarirà anche quanto avvenuto precedentemente, ma se ritengo il passato chiave interpretativa del presente, riprodurrò quanto avvenuto ritenendolo ovvio, scontato, con tutta la sofferenza che comporta per ciascuno. E per giungere a questo non ci sono vie consolidate, già percorse, ciascuno è responsabile e in grado di attingere alla sua fonte mitica, quella che non spiega gli eventi collocandoli nell’idea di temporalità data, ma li lascia in altro dal tempo. Se sospendo le mie credenze qui e adesso che cosa accade? Se non mi riferisco alle mie nozioni e conoscenze che mi lasciano indifferente a tutto ciò che mi accade intorno pensando che mi troverò tra i salvati, che cosa intendo? Certamente nulla.  Ma se porgo attenzione sicuramente ascolto e vedo. E in quell’ascoltare e vedere la memoria non sarà cancellata e l’inaudito troverà uno sbocco.  Unicamente in tale modo la decisione del “non esiste più” e del “mai più come prima” avranno la loro portata di novità rispetto all’essenziale che riguarda l’umanità.