Breaking bad anch’io – di Olga Orlandi

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©Olga Orlandi, senza titolo, 2014

©Olga Orlandi, senza titolo, 2014

BREAKING BAD ANCH’IO

PRELIEVO POSTAMAT SPORTELLO AUTOMATICO ALTRI ISTITUTI METROPOLITAN BA MANILA PHL
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Lungsod ng Maynila… capitale delle Filippine. Fa un po’ vedere dove stanno le Filippine.
Santa Claus incorona le renne con finimenti di campanelli e un asiatico olivastro, prestando attenzione di non essere osservato, prosciuga il mio conto a diecimila chilometri da qui. Buon Natale!
Denuncia, modulistica, raccomandate con ricevuta di ritorno. Mi accordo i nervi col diapason, belli tesi, e poi li pizzico: mi saltano i nervi.

I filippini saranno haker notevoli, ma gli americani sono imbattibili nelle serie TV. Questa che guardo adesso ha un protagonista, un professorino di chimica, anonimo, timorato e remissivo che scopre d’essere malato terminale di cancro e, non avendo denaro abbastanza per le cure, e non avendo più tempo per pensare al futuro dei sui figli (uno handicappato, l’altra nascitura), e, sopratutto, non avendo più molto da perdere, si reinventa cuoco di narcotici. In poche puntate perde ogni ritegno morale e perde anche di vista le buone intenzioni: cucina quintali di metanfetamina purissima, mente, uccide.

Così, tifo per Obama e la riforma del welfare in pubblico mentre, in privato e nel mio intimo, benedico l’impietoso sistema sanitario USA che ispira sublimi ingiustizie per capolavori della fiction.

BREAKING BAD ANCH’IO.

Infatti, nella forma sono puntuale e solerte: non manco mai all’appuntamento con le riunioni del circolo d’auto aiuto, ma solo dopo essermi travestita da disgraziata penitente: scelgo abiti tarmati, prima di entrare passeggio al freddo perché s’arrossi il naso, mi accomodo in punta di sedia e mi ricordo sempre di torturarmi le mani mentre parlo con voce arrochita.

-sono Olga
-ciao Olga
-sono Olga e non uso i soldi da due mesi

Eppure, sotto le ali del cappottone sdrucito, il muscolo del mio cuore pompa sangue rettile, una stantuffata d’odio al minuto: FLUF. FLUF. FLUF.
Detesto i miei compagni dimessi che si mentono a vicenda fingendo di accettare d’essere straccioni, detesto l’accorato mediatore, che soffriva l’indigenza come noi, ma ce l’ha fatta ad esser povero ma bello e lo racconta abusando della prima persona singolare; e detesto la mensa dei poveri , la carità, le piccole cose… le cose che non sono tutto il resto, quello per cui c’è Mastercard.
Il mio stomaco gelido ospita un anima cristallizzata, blu come la MET e, tenendo a distanza i le cose genuine, schifo le merendine confezionate e il piagnisteo.
I sentimenti cattivi mi fortificano e così sopravvivo nemmeno troppo male: la dispensa era tanto stipata da prima del furto che è diventata inesauribile, l’intrattenimento si “clicca qui”, e ci sono chilometri di viali alberati per correrci sopra con le scarpe da ginnastica più comode. Quelle più vecchie.
Della nicotina sbriciolata si aggruma sempre sul fondo del pacchetto di tabacco, un filtrino, ravanando nello zaino, salta fuori, una cartina si chiede in giro. Quanto all’accendino, si sa, si perde e si ritrova all’infinito.
La bicicletta regge: sferraglia, ondeggia intorno al suo asse, ma la gravità la inchioda comunque a terra.
Il ristorante hongkonghese accetta i buoni pasto e in menu ci sono certe melanzane fritte, impastellate nella fecola di patate, che la saliva dilaga sotto la lingua come una risorgiva. Una dose di solanina da sballo fa mezzo tiket: nemmeno l’erba in Jamaica è più a buon mercato.
Per concludere ho incatenato la solerzia a una palla di cannone e l’ho inabissata sul fondo nero della coscienza.

Non avendo sostanze da sommare o sottrarre non faccio conti; una risma di bollettini s’ammucchia sulla scrivania. Tasse, fatture, canoni e debiti si godono la luce calda della lampada quando l’accendo per disegnare, e, quando rifaccio il buio, tornano nell’oblio de gli insoluti. Similmente, sono mezza svanita anch’io: non transito sui circuiti elettronici, non mi identifico, non rispondo alle domande di sicurezza, dimentico le password, non vi è più traccia del mio passaggio su le strade a pedaggio, sui tabulati telefonici. Le raccolte punti sono scadute, il credito residuo è una ramaglia virtuale. Sono esclusa da i sondaggi pubblicitari, dalle promozioni, dai concorsi a premi. Non ho niente da assicurare. Non faccio numero nei sondaggi, nei censimenti, nelle statistiche.
Mentre quei pochi cha ancora hanno una donna e qualcosa, orripilati dall’ansia sociale, si aggiogano come buoi e trascinano la carretta, contano gli strappi di carta igienica per rinnovare il credito del cellulare, spediscono cartoline esotiche dalla buca sotto casa, si ingozzano di pasta fredda dopo le diciotto, fino alle venti.
Comincio a pensare che essere invisibili può avere i suoi vantaggi: medito su alternative illegali, sommerso, mercato nero; posso prestare il mio nome e il mio servizio al lato oscuro della forza.

Non sono spaventosa alla vista come il mostro di Frankenstein: se non mi farò sorprendere con le mani affondate nelle loro tasche, gli uomini non mi detesteranno. Sarò discreta ma cordiale. Sarò una buona amica; farò beneficenza senza farmi pubblicità eppure lo sapranno tutti, e bisbiglieranno alle feste: “è una brava persona”. Sarò felice.

Invece ho ricevuto una lettera, un risarcimento. Dunque è umano il mio destino, sarò impaurita, omertosa; sarò goffa e sguaiata. Righerò dritto. M’alzerò assonnata e sarò scorbutica, stringerò la borsetta sotto l’ascella perché si avvisano i signori viaggiatori che ci sono borseggiatori sui treni e nelle stazioni. Allo zoppo che mendica farò segno di no e poi no: non ho niente.