Disordine AliMentale – di Olga Orlandi

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Nell’infanzia, mentre ti ciucci il pollice e ci pensi su, ricicli la memoria dei genitori e l’aumenti con la fantasia. Durante l’adolescenza t’innamori e devi innamorare, quindi eviti come i nervetti della carne ogni riferimento domestico e ti ispiri a gli artisti. Poi comincia a pruderti il palmo della mano, più o meno a un terzo della linea chiromantica, e l’ipotalamo è abbastanza ingombro da cominciare a conoscere la nostalgia.

Così s’inaugura una spoletta tra passato e presente a lasciar giù capre e recuperare cavoli.

©Olga Orlandi, tecnica mista su carta
©Olga Orlandi, tecnica mista su carta

Mentre faccio colazione inzuppando la zucca nel te, ci penso: come sono arrivata a rimestare questo fondo tinto d’ocra? Comincio a desiderare di scrivere un diario. Perché, mi capitasse come a Maria Pia, non ci sarebbe nessun figlio sensibile a rendere poetici i deliri del mio cervello danneggiato. D’altronde mi chiedo a che pro. Faccio spallucce ciancicando un pezzetto di buccia verde, poi, però, controllo l’orologio e avverto l’urgenza che si faccia l’una e trenta, per sedermi di fronte al dottor Fumen e rigurgitare ricordi come fosse l’ultimo fiato che mi resta per digerire la mia storia.

Allo stesso modo che nel metodo Abramovich, la mia poltroncina e quella del dottore sono una di fronte all’altra, senza barriere tra le sue gambe accavallate e la mia verbosità. Tuttavia, non appena principia il transfert, a mezz’aria tra lui e me, comincia a fluttuare una lastra; quattro gambe telescopiche si allungano fino a terra, e si materializza un tavolo. E va apparecchiandosi alla rinfusa, come quello del “buon non compleanno”. Una terzetto si appropinquia suonando le marmitte col cucchiaio: sono mamma e papà e mia sorella. A implorare con la saliva, lì sotto, c’è il cane Pampa. Di là s’avverte lo strofinare di ciabatte del nonno. Perdo di vista Fumen.

Mamma, impettita come una ginnasta, infila una mano dietro la schiena e tira fuori la grattugia di vetro; dal lampadario, svita una mela. Io mi schifo: non voglio la pappetta di frutta! Serro le labbra, scuoto la testa, mi imbizzarrisco con le spalle per schivare il cucchiaino in picchiata. Avverto una presa al collo, mi frugo sotto il mento e ci trovo l’elastico del bavaglio: sento un treno di bile risalire dallo stomaco, allagarmi le guance e cedo all’esorcismo vitaminico. Sono inzaccherata di vomito, bardata come un neonato, costretta tra due braccioli imbottiti. Da qualche parte, c’è il silenziosissimo dottor Fumen che prende appunti.

Il mento fremebondo che preannuncia tante “a” e tante “acca” affogate nelle lacrime, ma si paralizza per la sorpresa: cascano due quinte dal soffitto e mio papà, barbuto come Mangiafuoco, solleva un braccio: una marionetta precipita dal soffitto e lo inguanta! Lo stupore spintona via lo sconforto: cede lo snodo della mascella, s’apre un varco tra gli archi dentali e qualcuno ci infila una pallina di prosciutto cotto. Non mi dispiace: è morbida e sfiziosa. La mastico sollevando le sopracciglia golose e rimbambinisco. Uno sparacchiamento di struffoli e il teatrino chiude il sipario.

Rivedo Fumen, placido e composto sistemarsi gli occhiali sul naso; il battimani mi si smorza tra i palmi. Lui e la sua montatura in carbonio ultraleggera m’interrogano con lo sguardo. Vuole che gli dica bene –“mi dica bene”- che altro c’è di disordinato nella mia alimentazione infantile. Mi ricompongo, mi spazzolo le coste dei pantaloni dal briciolame, do’ un colpetto con la punta di una scarpa al vasetto vuoto di un Danito rimasto sul pavimento e faccio una rapida ginnastica facciale per rimettere in sesto i lineamenti deformati dal piangere e dal ridere.

Rimugino e cammino al contrario, percorro l’isolato di casa all’indietro, mi rimpicciolisco, tutti gli abiti che indosso mi vanno sempre più larghi, scendo di schiena le scale che portano al refettorio sotterraneo, e mi accomodo alla seggiolina con i gomiti puntati su la tovaglia a quadretti, uno piegato, per puntellare uno zigomo arcistufo, l’altro steso; in fondo al braccio inerte, tra le dita molli, una forchetta. Mi concentro su una rondella di zucchina molliccia, vergognosa d’essere l’ultima a finire anche questa volta, e provo a parlare. Il vocativo “dottore” con cui voglio cominciare diventa un solfeggio infinito: “do-o-o-o-o-o”. Ammutolisco. Ci riprovo. Mi ascolto orripilata sillabare una partitura schizofrenica. Non mi capacito. Fumen, intelligentissimo, mi soccorre: “dunque, lei, era lenta nel mangiare”.

Per questo articolo in slwmotion! Sono talmente dentro il trauma infantile che tutto è al rallentatore. Mi addoloro: come faccio a raccontare se non mi si scioglie la lingua?

Mi sforzo più che posso: stringo il pugno attorno alla forchetta, spalanco la bocca, nella foga mi sbecco un dente. Mastico, mastico, mastico, a velocità futurista. Sono una macchina trituratrice, spingo giù per il gargarozzo il bolo-bolide, lo sento precipitare per l’esofago, sfondare la rete dell’apparato digerente, infine esulto cacciando fuori la lingua: HO FINITO, HO FINITO, HO FINITO!

Rimbalzo sulla poltroncina, un’orda festante di maestre, parenti, compagni di scuola si solleva all’unisono, esulta, si sgola con me! Lo studio mi girandola nelle pupille dilatate. Come una roulette, lentamente, decelera. Si ferma. Sorrido inebetita, mi isso su lo schienale, dondolo leggermente.

Come in mensa, anche oggi, è comunque tardi. Fumen fa un cenno minuscolo e terribile: sbircia l’orologio.

Cerco un’ultima volta di spiegarmi, ma già mi stringe la mano, garbatamente mi spinge fuori. Annuso il giallo Milano e m’ipnotizza la mescola del cielo: le luci casalinghe già accese nella notte precoce dell’inverno lo indorano come un brodino di dado.  Mi pare, strizzando gli occhi, di vederci navigare dentro tante stelline.