WireFull – Il visibile, l’invisibile, il visionario – di Gabriella Landini

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Copertina di Stefano Teglia

In un’epoca il cui discorso imperante fa della visibilità, del consenso, delle visualizzazioni, della spettacolarità, (un tempo era ritenuta una teatralità riservata per privilegio alla sola élite di potere) una volontà di potenza accessibile per connessione wireless a tutti i cittadini, la telematicrazia si materializza ben oltre le più rosee profezie di Orwell come elemento quotidiano, reso domestico, attraverso i media e l’informatizzazione globale. Questa nuova crazia si palesa attraverso una sorta di ostentazione democraticamente pop, a portata di tutti con un clik. Il cittadino globale, fidente ed entusiasta, visualizza, si autovisualizza, sfoggia e si autospettacolarizza, offrendosi volontariamente ad ogni sorta di controllo dei propri comportamenti: gusti, pensieri, corrispondenze epistolari, ricevendo in cambio di tanta generosa adesione alla sorveglianza, nessuna indicazione di come e quando la raccolta dei dati potrebbe essere impiegata, anche a discapito dell’internauta, e senza ricevere nessuna notizia che possa definirsi tale. Le news in tempo reale, come vengono definite, equivalgono a una censura ben orchestrata attraverso un chiassoso pandemonio. L’antica, e ormai superata, testimonianza di coloro che viaggiavano, partecipavano a eventi, si immergevano in altre culture, in altri contesti promuovendo ricerche e dovendo trarre da queste elaborate teorie, è ormai questione obsoleta, superata da una quantità esorbitante di informazioni, spesso superficiali e non sempre verificabili nella loro autenticità. La ridda di spot, post a random, negano ogni elaborazione dei dati raccolti eliminando l’inchiesta civile, l’analisi, la ricerca, a scapito proprio di ciò che viene con clamore maggiormente enfatizzato: l’informazione.

L’idea che il vedere e la visione siano forme in cui si manifesta la verità per dare adito alla credenza, esiste da quando esistono poteri e forme di controllo su gruppi e popolazioni. Ogni epoca sortisce e ordisce la sua forma di aggiornamento curriculare di dominio, reinventandosi continuamente e modificando i costumi, e non da meno, riducendo i costi della vigilanza. Oggi l’informatizzazione ha assurto il ruolo di una divinità che si manifesterebbe nell’etere virtuale attraverso schermi di grandezza micro e macro. Non che la virtualità non esistesse anche prima, ma se la virtualità insita nella parola, precedentemente manteneva l’aura dell’improbabile, dell’infinito, l’ideologia salvifica tecnologica è un ulteriore inasprimento dell’aspetto razionale a scapito del fantastico e del fabulatorio. Michelangelo per rendere immaginifico Il Giudizio Universale doveva comunque mettere in gioco il suo corpo, le sue mani, il gesto sublime e l’alterità, gli occorreva cioè, entrare nell’ambito del Visionario, gli occorreva tenere conto delle funzioni della parola: lo specchio, lo sguardo e la voce, dell’insorgere inaspettato dell’altro. Doveva congetturare delle immagini, fantasticare, alterare, allucinare, per trovare il tratto che poteva rendere ultraterreno, mai visto, non convenzionale, e neppure realistico, il suo segno pittorico. Ma il vedere, il grande occhio onnipresente e doverosamente occulto, che tutto scruta e scorge, trova da secoli i suoi momenti aurei di maggiore o minore vigore e forza di affermazione e affabulazione. Da dio a Polifemo alla videocamera, la riduzione dell’estro è notevole. Anche un ritratto o una presunta copia dal vero, incappa nella cantonata di fare della copia un originale perché dipinto attraverso l’occhio dell’altro. Nessuna immagine può esimersi dal fantastico, cioè dallo sguardo acustico di chi la esegue, dalla luce, dalla voce, più chiaramente non riesce a scansare il malinteso. La traduzione interviene sempre. Ciò che importa, dal punto di vista del dominio è la padronanza della parola, ovvero l’intenzione e la pretesa letteralistica, di rendere un significante riducibile a un significato definito e condiviso.

Nelle opere del XII e del XIII secolo, per influenza del Gotico, la valenza visiva diviene determinante, il processo di visualizzazione doveva rendere realisticamente percepibile l’idea dell’Incarnazione della divinità poggiando su una fisica e una metafisica della vista, della “prospettiva”, elaborata durante il XIII secolo a partire da fonti greche e arabe: il desiderio popolare di vedere l’ostia elevata al momento della consacrazione e l’esemplarità della vita pubblica dei santi, sono due aspetti di un’esigenza dell’epoca di vedere-per-credere. Vedere diviene prova, realtà oggettivabile. Il potere non può fare a meno della sua spettacolare esibizione ostensoria, e nel corso dei secoli ne modifica gli stili, si aggiorna, si reinventa, risorge come l’araba fenice, più precisamente non può fare a meno dello specchio speculare, quello dove crede di vedere se stesso attraverso il consenso e l’ammirazione degli altri in modo pro-introiettivo, in cui lo spettatore è interamente preso nella rappresentazione, senza che altro intervenga. Anzi, l’indifferenziato, è parte integrante della proiezione dominante nel ridurre, l’irriducibile alieno, al comune tutt’Uno.

La spettacolarità dei social network è il riflesso dello specchio in cui ciascuno cerca di costruire con virtuale-realismo la propria identità. Dire realismo-virtuale sarebbe un ossimoro ridanciano, tranne analizzarne le conseguenze nella configurazione di un rivolgimento epocale nei costumi e nella comunicazione. Coloro che hanno inventato l’informatica sono stati e lo sono tutt’ora certamente dei Visionari, hanno cioè messo in gioco le loro energie di immaginazione, sperimentazione e fantasia in modo straordinario, e con strabilianti risultati. Le applicazioni concrete di quell’invenzione sono invece da considerare, attraverso la loro strumentalizzazione e finalizzazione da parte di coloro che le gestiscono, meno edificanti. Considerando gli aspetti della roulette finanziaria in.virtuo.sale, il risultato è da considerare persino terrifico. Il reale-virtuale è una grande macchina interpretativa, dove ciascuno si fa attore –più che autore, o co-autore– di un canone preesistente, rivolto a contenuti che sono riedizioni di modelli passati e trapassati. Ancora una volta la celebre dicotomia tra forma e contenuto persiste, codificando in modo conformistico quello che era, invece, agli albori, il sogno di un cambiamento rivoluzionario. Visionari lo sono ancora coloro che dall’informatica procedono per andare oltre, più chiaramente coloro che mantengono la visio a livello della strutturazione formale che è in sé nuovo contenuto. Quello a cui assistiamo attualmente è una reazione, come altre volte è accaduto, a ciò che di differente l’informatica ha introdotto nel nostro stile di vita. La vita in rete diviene così spazio speculare dell’immagine che si vuole conforme a un sapere già dato, scatola chiusa in cui l’ideologia del visibile-esibito-fatto, istituisce la credenza che la visione mediatica sia effettivamente un vedere, un esserci, un esistere e che il vedere sia esaustivo di un sapere, di un avere, di una verità: fiction o no che sia. Il conformismo scaturisce dalla convinzione di appartenere comunque a una comunità e che lo spazio comune di condivisione sia la rete Internet.
L’ideologia dello spazio virtuale, nega la virtualità della parola, che è sempre esistita e lo sapevano anche i nostri antenati, perché la spazializza e la delimita nell’ambito net, che diviene rappresentazione di un centro attribuito e confinato alla macchina. Così attaccati alla macchina, come a un respiratore artificiale, siamo monitorati incessantemente, e come tutti coloro che dipendono da un monitor, siamo classificati in modo standard, reperibili in modo standard, trattati in modo standard. L’individualismo diventa una convinzione diffusa, non meno del presunto comunitarismo della rete. L’idea comunitaria diviene da un lato esaltazione individualistica, con l’illusione di appartenere a una comunità globale, dall’altro, toglie l’idea dell’individuo come singolo dotato di libero arbitrio responsabile, e tutto ciò in assenza di una autentica libertà, nell’isolamento a cui uno schermo conduce e senza nessuna pure vaga idea di cosa significhi il collettivo o la collettività. Paradossalmente, lo scambio telematico “in tempo reale”, salta il contingente, salta l’incontro, che si esaurisce in sé virtualizzandolo. È interessante notare come una proliferante quantità di collegamenti, accessi, connessioni produca raramente l’evento.

Il risultato è che la visio, la phantasia, che sono termini per designare la stessa condizione sia in latino che in greco, ovvero l’invisibile ( semplicemente il mai visto, l’ancora da vedere, l’immaginazione) possa rendersi visibile, trasparente, privo di oscurità imperscrutabile, disegnabile in un canone sistemico, tracciato in codici risulta illusorio, mentre l’aspetto visionario del vedere riesce comunque a esprimersi e a dispiegarsi nella forme della meraviglia in maniera incessante e sorprendente per chi nel silenzio ascolti le immagini. Ma anche, come dice la mia amica Ines, che afferma di andare a “vedere la radio”,accade diversamente che la parola, il canto, l’oralità, la scrittura, comunque siano e producano immagini. Visionari lo erano anche gli anatomisti, così come emerge dal disegno anatomico e dall’arte dell’udire il corpo. L’invisibile, che è l’alterità dell’immagine, non può fare nessuna concessione all’ineffabile, alle stereotipie e nemmeno i sistemi binari, quindi l’immagine che è sempre acustica, non può non trovarsi a confronto con il corpo e la parola. La visionarietà in un mondo telematico sembra appartenere quasi esclusivamente alla video–arte, che del vedere-per-credere ha colto, ironicamente, l’incredibile per eccellenza. Ma anche in questo caso, non è una regola.

Vedere-visio-visione- visionarietà, significa vedere l’invisibile, il miracolo, il meraviglioso, ma non come scoperta di un alcunché di preesistente, non come rivelazione di qualche elemento metafisico già a disposizione, o percezione eccezionale concessa solo ad alcuni, ma indica il vedere oltre il limite in cui la ragione-raziocinante elabora e celebra se stessa in contenuti prescritti. Più precisamente la visione non scopre gli oggetti del proprio pensare, non decreta che la parola sia oggetto tra altri oggetti, che sia cosa e che la vita, quindi, sia oggetto soggetta ad altri soggetti, e che tutto ciò che il raziocinante nomina sia afferrabile perché visibile. La parola cosalizzata diviene certamente visibile, controllabile, priva di equivoci e malintesi, diviene letteralizzata e ricondotta all’unicità dei significati, seppure corredata da dizionari dei sinonimi e dei contrari. Nella parola, la lettera, non può né cosalizzarsi né corrispondere alla cosa, né ridurre il significante al significato, senza istaurare il conflitto e la tirannide.
Nella parola è stato inserito il conflitto, la sua contraddizione, per essere legalmente detta, anziché lasciata libera e arbitraria nell’atto del dire, esposta al malinteso. La lettera è uno spalancamento disegnico, in parte incomunicabile, intraducibile e sempre traducibile in altro, e non rappresenta l’univoco del reale e del realismo, tanto caro ai totalitarismi di ogni sorta, ovvero la verità alla lettera del significante. La lettera nel significante è immagine esposta a mille venti, un tracciato di figurine nel cielo degli scarabocchi. L’albero non è l’albero, a dispetto della nominazione, la visione se ne fa beffe, e anche i santi nelle loro visioni (che appartengono ancora alle rivelazioni di quanto atteso di vedere, le divinità o altro), dichiarano sempre di non potere tradurre in un’immagine precisa quanto visto e udito. Altrimenti denominato quell’aldilà che passa nella traduzione nell’aldiquà ancora in altro. Rimane sempre qualcosa d’irriducibile. Un malinteso apre a un altro malinteso
La visione in quanto essa ha di indecidibile sfata la previsione, perché non è una facoltà, semmai una casualità, un abbandono all’ignoto, una sottolineatura del punto vuoto, un’astrazione. Impossibile la previsione se non come riproduzione del passato. Di solito la previsione catastrofica è una postvisione transtemporalizzata dell’Apocalisse che si reitera nei millenni. La previsione è il mantenimento e la promessa dello status quo e anche ante, considerando il persistere delle belligeranze.
La previsione attiene al sapere, la visione alla sapienza.
La visione sfocia nella profezia, quando l’immagine onirica trabocca nella veglia in racconto che concretizza opere.

©Gjachi Orff, Scanner life

©Gjachi Orff, Scanner life