Wilderness – di Silvana Galassi

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Goethe scriveva nel Faust:

“…non ci è dato di sapere, al mondo…nulla di nulla…Dove afferrarti, o Natura infinita?”

Lo smarrimento, lo stupore, la meraviglia che ispirò queste parole appartengono alla cultura romantica europea del XIX secolo e si ripresentarono nella corrente artistica e letteraria nordamericana definita wilderness, un termine che nella nostra lingua corrisponde alla condizione di selvaticità.

La wilderness come corrente filosofica è considerata una continuazione o una versione nordamericana del romanticismo europeo in quanto entrambe esprimevano una reazione al razionalismo e nascevano come esigenza dell’individuo di ricercare l’armonia con il mondo naturale. Dei due padri fondatori, Thoreau ed Emerson, il primo, che sperimentò sulla sua pelle questa teoria andando a vivere per due anni sulle rive del lago Walden nei boschi del Massachussetts in una capanna costruita da sé, raccontò questa esperienza nel libro Walden, pubblicato nel 1854.

La wilderness viene ritenuta l’ingrediente di base della cultura nordamericana che volle intraprendere un percorso autonomo dopo il distacco dalle radici filosofiche e artistiche della cultura europea. Sarebbe stata, dunque, la presenza di luoghi maestosi e incontaminati e di popoli indomabili a creare nel pensiero americano l’idea di alterità che incute stupore e timore. Gli ideologi della wilderness influenzarono anche il pensiero scientifico dando vita al conservazionismo che portò alla realizzazione di grandi parchi e riserve come Yellowstone (1872), Yosemite (1890) e il Sequoia National Park (1890). Col passare del tempo, tuttavia,  nella letteratura e nella cinematografia statunitense andò affievolendosi l’idea di armonia con la Natura dei padri fondatori ed emerse sempre più fortemente l’aspetto minaccioso della wilderness. Un riscontro si può trovare in film come Un tranquillo week-end di paura (1972) e Into the wild (2007).

Per motivi sia geografici che storici il rapporto degli europei con la Natura selvaggia è stato meno intenso e anche le azioni di tutela e di istituzione di parchi e riserve furono più tardive e limitate.

In Europa, più che altrove, l’idea di civilizzazione e di dominio della Natura è prevalsa nei secoli passati come retaggio della cristianizzazione e come conseguenza della sovrappopolazione.

Ma diversi strappi con l’ideologia dominante sono avvenuti anche qui. Negli anni ’70, ad esempio, Arne Næss, il norvegese che diede vita a una corrente eco-filosofica (ecosofia) chiamata “ecologia profonda” affermava che

“Il benessere e la prosperità della vita umana e non umana sulla Terra hanno valore per se stesse indipendentemente dall’utilità che il mondo non umano può avere per l’uomo”.

Dall’altra sponda dell’oceano, quando negli anni ’90 si era ormai affievolito il “desiderio del selvatico”, come conseguenza del dilagare della globalizzazione e della modernizzazione, una teoria scientifica fu proposta a sostegno della necessità biologica dell’uomo di vivere a contatto con la Natura. Paul Howe Shepard  sostenne che il bisogno di Natura è scritto nel nostro codice genetico che cambia molto più lentamente rispetto all’evoluzione culturale. La nostra incapacità di adattamento ai cambiamenti che noi stessi produciamo crea  scompensi che possono essere risolti solo rientrando in armonia col mondo naturale.

La wilderness o wildness, come preferì chiamarla Shepard, non nascerebbe quindi solo dai luoghi ma sarebbe nascosta dentro di noi, sempre pronta a rispondere al richiamo della foresta.

Affrontata da diversi punti di vista: etico, ecologico o antropologico, la questione della wilderness si riassume nell’intuizione di Thoreau:

“Dalla natura selvaggia dipende la sopravvivenza del mondo”.