Angelo Lorenzetti/Julio Velasco – di Barbara Fontanesi

Tutti i diritti riservati©Barbara Fontanesi
Tutti i diritti riservati©Angelo Lorenzetti

Angelo Lorenzetti

Angelo Lorenzetti

Barabara Fontanesi,: La tua  esperienza con Julio Velasco  è memoria storica dello sport…

Angelo Lorenzetti: Reynold Messner, in un passaggio del suo libro “Spostare le Montagne”, ha scritto:
“… un’esperienza al limite, cioè estrema, non può rimanere aneddoto, deve scuotere!”
Parto da questa citazione per provare a raccontarvi un po’ di lui e un po’ di me.
Julio Velasco, allenatore di pallavolo ha vinto tutto: Scudetti nel Campionato Italiano, Mondiali, World League, Europei… E continua a stupire: da due anni è allenatore della Nazionale Iraniana Maschile e tanto per cambiare ha vinto anche lì: i Campionati Asiatici ed ha ottenuto una storica qualificazione alla World League.
Ciò che rende Velasco “estremo” e conseguentemente non “aneddoto”, non sono solo le tantissime vittorie ottenute in un lungo periodo di tempo, già questo di per sé una vetta oltre gli 8000. Ma è soprattutto lo stile ed i principi metodologici che ha trasmesso a tutto il movimento. Ha scosso la pallavolo Italiana e Mondiale. E di conseguenza ha scosso anche me, giovane allenatore curioso ed attento ad imparare il mestiere.
Velasco è arrivato dall’Argentina nel 1983 a Jesi e per due stagioni ha allenato proprio la squadra della città marchigiana. Ha fatto una stage di una settimana a Fano dove io allenavo e lì ci siamo conosciuti.
Nel 1991 proprio Velasco, già diventato allenatore della Nazionale Italiana Maschile, mi ha telefonato e mi ha chiesto se me la sentivo di lasciare il posto in Banca per seguirlo nello Staff delle Nazionali Giovanili.
Non mi ha mai spiegato perché ha scelto proprio a me, ma in fondo meglio così…
Racchiudere in poche righe gli insegnamenti che Velasco mi ha trasmesso è un’operazione per nulla semplice.
Ci proverò con una storiella ed un breve momento di vita vissuto insieme a Julio.
La storiella fa più o meno così: “al calar di una notte nebbiosa, su una nave da guerra, un marinaio di vedetta segnala al proprio capitano una luce ferma a tribordo.
Il capitano: “Marinaio segnala a quella nave di correggere la rotta, altrimenti ci scontreremo”.
Di rimando arriva questa segnalazione: “E’ consigliabile siate voi a cambiare rotta”. Il capitano furente rinnova l’ordine specificando che loro erano una nave da guerra.
A questo secondo invito, rispose una luce lampeggiante: “Io sono un faro”.
Julio Velasco mi ha insegnato proprio questo: il problema spesso non è il problema in sé stesso, ma come lo si percepisce, lo si legge e di conseguenza lo si affronta.
Tante volte dopo essermi confrontato con lui ed averlo ascoltato in merito ad un problema, mi sono detto: “Ma perché non ci ho pensato prima? Era così semplice…”.
Il primo passaggio della risoluzione sta in una capacità di analisi priva di quegli stereotipi o di quelle abitudini che troppo spesso ci condizionano.
Velasco sa fare ciò molto bene. Questo è sì un talento che lui ha, ma è anche una dote che si può allenare e migliorare. Io ci provo tutti i giorni!
Il momento di vita risale a qualche anno fa durante i Campionati Europei Juniores in Israele. Velasco aveva assistito ad un mio allenamento con i ragazzi.
Al termine abbiamo chiacchierato e mi ha chiesto di alcune mie scelte. Lui mi ha fatto alcune annotazioni tecniche anche severe segnalandomi alcune correzioni che avrei potuto apportare. E, dandomi un buffetto, mi ha detto: “ Angelo, è bello l’entusiasmo che metti nell’allenare. Non perderlo mai, indipendentemente dal livello che raggiungerai. L’allenamento rimarrà sempre il momento più motivante della nostra attività”.
Con queste poche parole, a cui ripenso spesso, sono convinto che Julio abbia voluto trasferirmi alcuni concetti che mi porto gelosamente dietro e provo a “far miei” tutti i giorni.
La motivazione quotidiana nel dare maggiore valore alla parte non pubblica del mio lavoro, alla parte di ricerca e studio, a tutto ciò che è nascosto nella prestazione della mia squadra.
C’è differenza tra “fare l’allenatore” e “essere allenatore”. E’ un confine sottile, che risiede nell’intensità dell’amore verso la propria attività.
Una passione che è stimolo: “lei” è lì con me nei momenti di esaltazione per riportarmi con i piedi a terra e quando perdo o mi sento smarrito per rialzarmi e ricominciare.
Io sto in palestra perché sono un allenatore, non perché faccio l’allenatore!
Credo proprio che quel giorno Velasco abbia voluto farmi comprendere l’amore per la pallavolo piuttosto che l’attaccamento al mestiere dell’allenatore.
Lo stile di Julio nell’”essere allenatore” mi è da esempio e mi aiuta tutt’ora a capire che allenare non è una parte della mia vita, ma è la mia vita.