Silvana Galassi – La Piccola Era Glaciale

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Pieter Bruegel il Vecchio: "Paesaggio invernale con trappola per uccelli". (1565)

 

I cambiamenti climatici, i terremoti e le eruzioni vulcaniche, che hanno plasmato il volto di Gaia nelle diverse ere geologiche, hanno sicuramente avuto un peso rilevante sulla storia dell’umanità intralciandone e deviandone il percorso. Tuttavia, leggendo gli antichi manoscritti, le città sepolte dalla lava, il crollo dei templi, le grandi carestie sembrano solo incidenti di percorso sul lungo cammino dell’umanità.

Il diluvio universale, la scomparsa di Atlantide, eventi raccolti dalla tradizione orale e trasformati in mito, l’origine extraterrestre dei primi colonizzatori della Terra, che curiosamente ricorre in culture che apparentemente si sono sviluppate in modo indipendente, finiscono per perdere il loro connotato storico per assumere quello religioso.

Ma ora geologi, paleontologi e antropologi dispongono di strumenti tecnici che consentono loro di collocare con una discreta precisione temporale i grandi eventi geo-climatici e di avanzare nuove ipotesi sulle cause del crollo di antiche civiltà e sulle migrazioni di massa che diedero luogo a colonizzazioni di nuovi territori. Estinzioni di popolazioni, meticciati di popoli e culture, persino i miti e le credenze religiose vengono rispolverati nel tentativo di dare loro una spiegazione scientifica.

Un aspetto interessante dei risultati di queste ricerche è la scoperta del fatto che nei secoli passati l’uomo è stato molto spesso più vittima che artefice della sua Storia e che i grandi esploratori e conquistatori furono probabilmente motivati a compiere le gesta che li resero famosi più dalla fame di cibo che da quella di gloria.

Jared Diamond nel suo libro “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere” documenta molti casi in cui i cambiamenti ambientali hanno determinato il crollo di antiche civiltà e lo fa con gli strumenti della scienza moderna che consentono di leggere nel fusto degli alberi e nei pollini fossili quale fosse la distribuzione delle foreste nelle epoche passate e quali piante venissero coltivate dall’uomo in un determinato territorio.

Di tutti gli esempi riportati da Diamond quello che trovo più interessante, riguarda la Groenlandia, terra ora inospitale, abitata dagli Inuit, una popolazione di eschimesi dalle radici pellerossa che vive quasi esclusivamente di pesca e caccia.

Gli Inuit abitavano quell’isola di ghiaccio da molto tempo prima che Erik il Rosso, guerriero e capo vichingo, che doveva sfuggire a due condanne per omicidio comminate in sequenza prima in Norvegia e poi in Islanda, vi approdasse nel decimo secolo con 14 navi che trasportavano altri coloni di ambo i sessi e svariati capi di animali di allevamento.

La saga nordica di Erik il Rosso narra di un viaggio molto avventuroso durante il quale 11 delle 25 navi partite dall’Islanda naufragarono o tornarono alla base. Il primo insediamento vichingo dove costruì la propria fattoria il capo dei coloni era situato nella parte meridionale della Groenlandia dove il clima più mite e la presenza di pascoli consentiva di avviare coltivazioni e di allevare animali. I maligni sospettano che Erik il Rosso avesse deciso di chiamare Groenlandia (Terra verde), quell’isola coperta per lo più dai ghiacci per invogliare altri coloni a migrare dalla madre patria in cerca di terre coltivabili e di risorse naturali mai sfruttate prima. In effetti, nonostante le difficoltà del viaggio, altri vichinghi si aggiunsero al nucleo iniziale. I coloni rimasero autonomi per più di due secoli raggiungendo una discreta prosperità. Nel 1261 accettarono di sottomettersi al re di Norvegia, divenendo una colonia del regno. E’ documentato dai censimenti del tempo un  abbandono abbastanza improvviso di queste terre nel XIV secolo.

Per molto tempo si è pensato che, come per l’isola di Pasqua e altre antiche civiltà bruscamente cancellate dalla storia, l’eccessivo sfruttamento dell’ambiente, di cui si resero responsabili i norvegesi in Groenlandia fu il motivo principale dell’abbandono di questi territori; l’erosione del suolo e l’asportazione della copertura erbosa, causati rispettivamente dalla necessità di costruzione, di allevamento e di coltivazione potrebbero aver determinato i mutamenti che resero quelle coste definitivamente inospitali..

Ma dati climatici pubblicati di recente fanno propendere per un’altra ipotesi.

Miller e coll. (2012) sostengono che la Piccola Era Glaciale (PEG), ufficialmente collocata tra il 1650 e il 1850, fu preceduta da altri episodi intensi e di breve durata, il primo dei quali sarebbe avvenuto  nel 1275 per poi intensificarsi dal 1430 al 1455.

Quel drammatico raffreddamento che più tardi avrebbe ghiacciato i fiumi europei e il porto di New York, deve aver decimato i vichinghi della Groenlandia o averli costretti a lasciare l’isola sulla quale fu celebrato l’ultimo matrimonio nel 1408, come documentano i registri conservati negli archivi del regno di Danimarca e Norvegia.

Isolati tra i ghiacci e impossibilitati a coltivare i campi per un anno intero, i poveri vichinghi dovettero nutrirsi degli ultimi capi rimasti per poi rimanere senza risorse alimentari.

Resta da capire come mai gli Inuit riuscirono a sopravvivere e ad arrivare con i propri discendenti fino ai giorni nostri.

Gli Inuit, a differenza dei Vichinghi, si erano da tempo adattati alle condizioni inospitali di quell’ecosistema. Costruivano case di ghiaccio usando la legna solo per scaldarsi; le loro imbarcazioni erano minuscoli kayak, da “calzare” sul proprio corpo; le lampade venivano alimentate col grasso di foca. Questo popolo era ed è tuttora abituato al lavoro di squadra. Come scrive Diamond, “Gli Inuit erano cacciatori flessibili ed evoluti, dotati di un gran numero di strategie diverse. Oltre a cacciare i caribù, i trichechi e gli uccelli terrestri, in modi non dissimili da quelli dei norvegesi, gli Inuit si distinguevano dai vichinghi perché usavano i loro veloci kayak per arpionare le foche e per catturare gli uccelli marini in volo sull’oceano e perché si servivano dell’umiak per uccidere le balene in alto mare”.

Inuit e norvegesi quasi non si incontrarono nel corso dei cinque secoli di convivenza in Groenlandia e non intrattennero rapporti commerciali. In definitiva, il rifiuto da parte dei vichinghi di assimilare la cultura di chi li aveva preceduti si rivelò un errore fatale.

C’è un altro aspetto finora trascurato che potrebbe aver favorito i primi abitanti dei ghiacci rispetto ai nuovi colonizzatori. Si tratta dei loro tratti somatici e fisiologici, selezionati nel lungo tempo di permanenza di questa popolazione in un’isola che ancora non si chiamava Groenlandia: sono dotati di un torace ampio e hanno stature piuttosto basse con arti accorciati. La faccia è appiattita, il naso alto e stretto e presentano una quantità di grasso superiore alla media. Tutti elementi questi, che limitano le dispersioni di calore. La forma del naso tende a proteggere dal freddo la base del cervello. Il colore della pelle degli Inuit è più scuro di quello degli altri Eschimesi poiché la loro dieta è ricca di vitamina D, grazie alla quale la calcificazione avviene rapidamente anche in condizione di luce scarsa, quale si verifica stagionalmente ai poli.

Questa storia offre, a mio avviso, tante chiavi di lettura che dovrebbero farci riflettere sulle conseguenze dell’attitudine dell’uomo dell’Antropocene, l’era geologica avviata con l’avvento della tecnologia, a modificare drasticamente il territorio in cui vive.

Considerando la questione dal punto di vista storico, mi domando se la Piccola Era Glaciale possa avere influenzato altri importanti avvenimenti che si verificarono in Europa in quell’epoca.

Sicuramente fu determinante nel condizionare la disponibilità di cibo; lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari (2010) afferma che: “All’incirca a iniziare dal 1270, la crescita economica europea segna una grave battuta di arresto.”

Questa data coincide con il primo grave episodio di raffreddamento climatico segnalato nel lavoro di Miller e coll. (2012). Successivamente si osservò una notevole ripresa della crescita della popolazione europea ma nella seconda metà del XVI secolo, in corrispondenza degli altri episodi di abbassamento della temperatura, le carestie divennero sempre più frequenti. A quell’epoca la base alimentare dei nostri antenati europei era il pane e la sua disponibilità era legata al raccolto del grano. Per affrancarsi da questa dipendenza in concomitanza con le carestie si sperimentarono le coltivazioni di riso e grano saraceno, già in uso nei paesi arabi.

Forse fu proprio la crisi alimentare a spingere Colombo e altri navigatori ad esplorare altre terre ancor più che la sete di oro. E se la speranza dell’oro fu alquanto delusa, due tesori custoditi dalle Americhe si rivelarono ben più preziosi: il mais e la patata che in pochi decenni colonizzarono le mense dei contadini europei.

Se la storia della Piccola Era Glaciale è documentata dal “Paesaggio invernale” di Bruegel il Vecchio (1565) e da altri quadri che ritraggono persone che pattinano sui fiumi gelati dell’Europa centrale, “I mangiatori di patate” di Van Gogh (1885) racconta la vita dei contadini olandesi del XIX secolo per i quali questo tubero è l’unico componente del pasto.

La sensibilità dell’artista è in grado di cogliere l’atmosfera del tempo operando, spesso a sua insaputa, una sintesi magistrale dei tanti aspetti che fanno parte della storia, restituendoci l’emozione di chi l’ha realmente vissuta.

A chi, invece, è in cerca di spiegazioni per giustificare il corso della Storia resta l’arduo compito di districare fenomeni complessi in cui non solo la volontà degli uomini ma anche il caso, la necessità e la volubilità delle stelle giocano un ruolo determinante.

Miller et al. 2012. “Abrupt onset of the Little Ice Age triggered by volcanism and sustained by sea-ice/ocean feedbacks” Geophysical Research Letters 39, January 31: abstract and link on AGU website (accessed 31 January 2011)

Massimo Montanari “La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione europea” Editori Laterza, 2010.