Parigi. La rive gauche/ La Cultura- di Gabriella Landini

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LA CULTURA

 

Un termine che pretende di definire e significare, rischiando il riduzionismo dell’egemonia della Kultur, pagando penio alle pretese della politica, può, con enorme tributo al significante Cultura, giungere, per eccesso d’arte, all’insignificanza?

La parola Cultura può trovare altra accezione che non sia quella della sua tradizione storica intrisa di spoliazioni, asservimenti, intolleranze, tagli, canonizzazioni, scomparsa di lingue, estinzione di costumanze e di intere etnie? Può, ciò che noi chiamiamo Cultura, accogliere in modo radicale, senza infingimenti,  la differenza, l’Altro? La risposta è: «Forse, no,» se si tratta di un “Può”, perché questo “può” rimane una faccenda di Potere, però, per Noi, per Voi, per Loro, “Occorre che Sia”, ed è questa l’urgenza dell’ascolto.

Cenni biografici della parola Cultura

La parola “cultura” è usata in almeno due differenti accezioni. Designa infatti: a)L’insieme delle cognizioni intellettuali di cui è dotata una persona, cioè la dottrina, il grado di istruzione. b) In etnoantropologia, l’insieme delle manifestazioni tradizionali della vita materiale, sociale e spirituale di un gruppo.

A proposito del primo caso, si usa distinguere tra erudizione e cultura, intendendo con la seconda una più profonda rielaborazione delle nozioni acquisite nei vari rami del sapere, ciò che darebbe luogo alla formazione della personalità morale dell’uomo e all’educazione del gusto. È chiaro che il termine stesso di “cultura” indica una gerarchia di valori. Si parla, infatti, di cultura artistica, di cultura scientifica; di cultura elementare, media, universitaria; di cultura inferiore, superiore. Si suppone che l’accumulo di nozioni (erudizione) unita alla loro rielaborazione, possa dare origine a una “personalità completa”; e si suppone anche che la rielaborazione possa e debba essere insegnata, che sia cioè prescrittiva che avvenga secondo schemi codificati. Ora, le nozioni riguardano, per forza di cose, il già avvenuto: sono dati, sono il passato, la tradizione. Sicché l’erudizione si identifica con la conoscenza delle opere e azioni storiche. Una serie di istituzioni (scuola, mass media, organizzazioni culturali, politiche, sindacali…) si occupa di indicare, quali opere ed eventi storici siano degni di conoscenza, e quali invece insignificanti. Le stesse istituzioni forniscono gli schemi di rielaborazione, vale a dire di trasformazione del nozionismo in cultura; e lo fanno in primo luogo indicando quali opere si devono produrre, quali canoni estetici sono accettabili, come è obbligatorio comunicare per ottenere lode e successo; questa istanza istituzionale ha nome critica.

Le istituzioni culturali esplicano dunque una duplice funzione: forniscono da un lato i dati e le notizie, e dall’altro i metri di misura per valutare la rielaborazione  dei dati stessi.  Nulla è demandato al caso, al sorprendente, anzi, cultura “originale” è definita quella che, sulla scorta di un codice si permette variazioni. Una certa imprevedibilità è considerata, per esempio, per intervento dell’arte. Ma esce dagli schemi della cultura l’incodificabilità del suo stesso movimento, tuttavia, la cultura cerca di inserire nelle teorie critiche l’arte, tentando di iscriverla nell’ambito del raziocinante, come tenta di fare ad esempio la razionalità con la follia.

Anche nell’altra accezione di cultura, quella etnoantropologica, interviene un metro di misura che stabilisce una gerarchia di valori. Si parla infatti di culture inferiori,  medie, superiori, di culture primitive, di protoculture, di grandi culture, di alte culture; e ancora, di cultura australiana, eschimese, eccetera. Lo studio della cultura (si noti: studio della cultura, ciò che presuppone in oggettivazione, l’inserimento di una visione oggettivizzante) abbraccia dunque l’ergologia o tecnica e l’economia (che nell’insieme si suppone formino la cosiddetta cultura materiale), la magia, la religione, la mitologia, l’arte (cultura spirituale), l’organizzazione sociale (cultura sociale). Le società vengono sottoposte a una duplice analisi da parte dell’etnoantropologo: una descrittiva (identificazione degli elementi d’una cultura, ad esempio, per quanto riguarda l’ergologia, armi, indumenti, abitazioni), e una comparativa, intesa all’identificazione di elementi comuni, al raggruppamento delle singole culture in classi più ampie, allo studio della loro genesi e reciproche interferenze, e infine a ricavare deduzioni universali relative a una più approfondita conoscenza dell’uomo.

È chiaro, per conseguenza di quanto scritto, che la cultura esiste come oggetto descrivibile, dettabile, imposto, giudicabile. Infatti, il concetto di cultura è eminentemente moderno. Concetto moderno, perché l’idea di cultura è irreperibile nel modo, in cui oggi viene intesa, prima dell’Illuminismo. Il termine “cultura” (Kultur in tedesco, culture in francese, civilizacion in inglese) compare per la prima volta nel 1766. Nell’antichità classica, qualcosa di solo parzialmente simile è costituito dal concetto greco di paideia (“educazione”), che però non risulta essere mai stato oggetto di indagine o elaborazione teorica: era più che altro un ideale concreto, un complesso di “virtù”, dove la “vita contemplativa” era vista come il momento supremo (in Aristotele, superiore persino alla praxis politica); e la “vita attiva” non si contrapponeva alla prima, bensì alla passività. Durante il Medioevo, al concetto di vita contemplativa si sostituì quello di beatitudo (ad esempio in Tommaso d’Aquino, Summa), inteso come equivalente cristianizzato dell’(eudaimonia) greca, cioè del “vivere bene”, del vivere secondo virtù, controllando le proprie passioni e il proprio corpo. Quanto alla passività, essa in pratica veniva identificata con le passiones, l’obbedienza cioè a imperativi esterni o interni (inedia, tristezza, impotenza, schiavitù…), vale a dire quelle condizioni che ostacolano la ricerca della verità. Si noti che questa aveva, nell’antichità classica e durante il Medioevo, connotazioni razionali. Ma il distacco dalle passioni, indicato come virtù suprema, era in effetti la memoria, sebbene razionalizzata, del distacco e dell’estasi dei sapienti non ancora filosofi, del “phanes” reso possibile dalla sofia e non certo dalla filo-sofia propria dell’epoca non più “selvaggia” in cui si “amava” semplicemente la sapienza, che vale a dire: si provava nostalgia per essa e per il mondo “selvaggio”, ma non si osava più abbandonare il mondo della ratio, che avrebbe significato la fine della vita civile, urbana, gerarchizzata, di cui si vedevano più i vantaggi (per i gruppi dominanti che gli svantaggi  per sudditi e schiavi, i quali d’altro canto non avevano voce in capitolo né modo di esprimere la loro protesta). Ormai sostituita in larga misura dal sapere, dalla logico-discorsività, la sofia era dunque ridotta a antica memoria e segreta aspirazione (mantenuta viva dai “misteri” come quello elusino).

In epoca moderna, post-rinasciemntale e ancora di più a partire dall’Illuminismo, la contrapposizione tra attività e passività così intese (la prima, come “libera attività conscia”, per dirla con Marx, Manoscritti economico-filosofici, la seconda come cedimento alle passioni, in particolare alla “cupidigia” e all’”ambizione”, per dirla con Spinoza, Etica), è stata sommersa e obnubilata da una concezione dell’attività come qualcosa che si esplica mediante un impiego di energia e che ha effetti visibili. In altre parole, non si distingue tra attività e attivismo. Il lavoro, per alienato che sia, è considerato “attivo”; e il metro di misura della sua validità è il risultato dell’attività, cioè quel qualcosa di separato, scisso, isolato, che il soggetto produce, l’oggetto inerte, morto, accumulabile, scambiabile, che si presta alla compravendita al punto da poter essere sostituito da simboli (denaro). Per Marx, il capitalismo è il sistema che impedisce l’autoattività umana, il “carattere specifico dell’uomo”; al capitale, cioè l’accumulo, al passato, al morto, si deve pertanto sostituire, per evadere dal giogo capitalistico, il lavoro (creatività e piena umanità Grundrisse).

In epoca illuministica, si è così definitivamente affermato il principio che non c’è scienza e conoscenza che abbia validità se non serve, sia pure nel modo più remoto, elevato, indiretto. E il metro di misura è appunto costituito dall’utilità attuale o potenziale. È questa a conferire valore, alle cose come ai pensieri. L’Illuminismo ha tirato le estreme conseguenze di un processo, in atto già da qualche secolo, che consisteva nell’affermazione del produttivismo. Il benessere economico, il possesso di oggetti, la disponibilità, il dominio del mondo e della natura erano divenuti gli ideali che avevano preso il posto delle antiche virtù. E, mentre ancora Spinoza considerava “insania” la ricerca di denaro, possesso, fama, o di potere in altre forme, la società sia capitalista, che anticapitalista, socialista, etc., ritiene degno del massimo rispetto chi fa proprie queste aspirazioni. Ne consegue anche che all’ideale dell’uomo “dotto” si sostituisce l’ideale dell’uomo “colto”, che dal sapere e all’esperienza del passato ha ricavato quanto più è atto ad arricchirne la personalità e a renderla capace di agire sulla realtà presente, ciò che è reso possibile dalla continuità storica e dal continuo progresso. Insomma, laddove l’antichità pregiava la fuga dal mondo (vita contemplativa come residuo e ricordo della sapienza, della rivelazione), l’epoca moderna pregia la mondanità, e dunque l’utilizzazione, l’accumulo di oggetti e nozioni.

All’epoca moderna, postilluministica, va il merito di aver risolto, a favore di uno dei due termini in contrasto, il divario esistente, nelle società “antiche” (preilluministiche) tra potere e ideali. Infatti, il potere, incarnato dai sovrani, sussisteva accanto alle virtù; il sovrano non veniva giudicato alla stregua di queste, ma ad esse si sottraeva. Per il sovrano non valevano metri di misura come cupidigia e possesso; anzi, ciò che nei comuni mortali era giudicato indegno dell’uomo, nel sovrano era visto come elemento positivo. La brama di conquista garantiva il benessere dello stato, nell’ambito del quale il singolo poteva dedicarsi al perseguimento della virtù.

L’epoca moderna ha cancellato la distinzione: il metro di misura unico, universale, è divenuto la produttività (attivismo, conquista del mondo, conoscenza scientifica, tecnologia, non ne sono che sintomi). La filosofia antica riguardava il mondo dei “liberi”, ai quali insegnava la strada della virtù (non più però della rivelazione) senza curarsi affatto della realtà sociale, cioè dell’esistenza di sovrani (legati al destino e alla divinità, e quindi non “liberi” bensì sovrumani) e di schiavi o semiliberi “passivi” per definizione e irrimediabilmente. Abbattendo queste barriere, il pensiero moderno ha decretato la condanna della sovranità (nessun potere è più accettato come tale e perché tale, ma deve dimostrare la propria utilità ed efficienza, deve giustificarsi), ha istituito pubblica opinione (la forma moderna del consenso, che riguardava il singolo sovrano ma che non coinvolgeva la sovranità) e ha elaborato un metro di misura nuovo e originale, quello del progressivismo contrapposto al tradizionalismo (reazione). La storia, che prima riguardava soltanto i gesta regum, si è rivolta all’intero corpo sociale. Se prima la storia si proponeva di illustrare le imprese (guerre, crudeltà, bassezze e virtù) dei sovrani, e restava indifferente al resto della società, dal XVIII secolo essa è diventata storia della cultura, intesa a svelare il progressivo rischiaramento che l’uomo opera nei propri confronti e in quelli del mondo circostante, grazie al fatto che la ragione via via s’affranca dai pregiudizi tradizionali, ponendosi come guida della vita sociale. In altre parole, la storiografia ha assunto come proprio oggetto gli aspetti della vita economica, gli ideali scientifici, religiosi e sociali dei gruppi, e i modi e gli stili in cui essi attuano gli ideali in questione, vale a dire quei valori razionali (nel senso di individuabili e definibili, descrivibili) che compongono la “cultura”.

Il concetto di cultura come affrancamento dai pregiudizi tradizionali, e quindi come accumulo che costituisce la condizione del progresso, elaborato da pensatori Bayle, Montesquieu, Gibbon e Voltaire, equivale a una visione della cultura come perenne evolversi, come divenire. Se gli strali dei fondatori della filosofia moderna intesa come “filosofia della cultura”, e che l’idealismo (vedi Croce) avrebbe identificato con “storia della cultura”, si appuntavano alla tradizione, in effetti erano diretti all’andare oltre, alla contemplazione che implica un ideale di immobilità, di rinuncia, di ricerca del Nirvana, il tentativo di sottrarsi alla ruota degli esseri. La cultura non prende (e non può prendere) in considerazione il momento estatico, l’inconsapevole è tutta quanta coinvolta nell’”azione”, ritiene che essere artefici del cambiamento del mondo equivalga a conoscerlo. “Attivismo” e “vitalismo”, cessano quando ha termine la voluntas di intervento, trasformazione, riforma, sfruttamento, insomma di rivoluzione, controrivoluzione, restaurazione.  

Per cultura intendiamo i rapporti interumani e infraumani come comunicazione. La socializzazione dell’arte e della cultura, l’uso pedagogico e politico dell’arte e della cultura riguarda specificamente il discorso occidentale. Con Gentile, Croce e Gramsci, la socializzazione dell’arte e della cultura e la loro politicizzazione diventano prescrittive. E dunque l’arte e la cultura vengono inserite nel discorso politico, devono essere accettate e accettabili,  codificate e codificabili, decidibili e decise, significabili e significate.

 Sfugge a questa concezione, il silenzio, l’intervallo, l’erompere dell’arte come residuo mitico e memoria astorica della parola, tarlo che perennemente rode ed erode la comunicazione finalizzata. La cultura così intesa non accoglie l’involontario, quel che funziona, avviene e si produce nell’invenzione in cui ciascuno si trova in quanto parlante senza intenzione, senza “potere e volere” alcunché. La cultura è impossibile impararla, non è naturale, né acquisita, proviene piuttosto dalla dimenticanza, del suo farsi nell’andamento inconsapevole della parola, e quindi non forma il luogo comune, il conformismo retorico delle generazioni. Invenzione e formazione avvengono oltre la soglia dell’imperio canonico, lungo il sogno.

 La cultura, in altre parole, lungi dall’essere sempre esistita, lungi dal costituire l’insieme delle attività e manifestazioni di un gruppo, è per sua stessa tradizione elemento storico. Esiste in quanto l’entità definita “gruppo” oppure “etnia”, etc., sia fatto “oggetto” di studio, di identificazione, sia cioè culturalizzata e circoscritta. È in nome della cultura che si emanano provvedimenti, come è avvenuto di recente per la tutela e salvaguardia delle popolazioni indigene, “concedendo” loro il diritto di praticare e vivere le loro tradizioni e costumi, nell’intento che siano rispettate nei loro diritti religiosi e spirituali e nelle loro proprietà intellettuali. Iniziative di questo genere, anche se apprezzabili per fermare stragi incessanti in ogni parte del pianeta, sono evidenti indici d’intolleranza dilagante.

Ammettere l’inaudito, l’ignoto, vuol dire porre in scacco la cultura così come noi la concepiamo, cultura che esiste in quanto esaustiva del sapere, del conoscere, che dica tutto, e inserisca ogni cosa nel procedimento logico-discorsivo totalitario. Implica intendere la cultura come non soggetta a definizione, dato che finis indicherebbe la fine, la sua delimitazione, la sua chiusura. Chiusura che riduce il conformismo della cultura a sistema, letteralizzandolo. Visto e considerato che rifiuta di prendere in considerazione il nulla (semmai, ne parla, in tal modo negando a priori l’insondabilità), la cultura si trova infatti nella necessità di spiegare a se stessa il dispiegarsi della sua stessa ragione d’esistere (o dello spirito a se stesso, secondo gli idealisti). Perché questo avviene? Quali sono gli impulsi e le necessità che muovono l’uomo? Risponde l’idealismo: perché lo spirito cresce su se stesso. Risponde il determinismo nelle sue varie sfumature: perché necessità concrete, materiali, obbligano la ragione umana a maturare, a progredire. Dunque, motivi biologici (evoluzione, ambiente) per i deterministi biologisti; motivi economici (“modo di produrre”) secondo il determinismo marxista.

Il termine cultura, in altra accezione rispetto a quella corrente, non è definibile come nazionale, popolare, o nazional popolare ad appannaggio di ministeri di ogni sorta. La cultura compie il suo percorso onirico lungo l’errore di calcolo, lungo l’invenzione, diviene formazione per l’erompere dell’arte che permette alla memoria d’essere attuale e di non venire considerata mero ricordo da mettere nel libro sussidiario, nel catalogo di ciò che è egemone e di ciò che è estinto. È questo il percorso che la Cultura occorre compia affinché la differenza, l’Altro siano accolti, affinché nessun elemento del vivere sia ritenuto perdibile, annientabile.

E, questo, risulta urgente più che mai in un momento in cui la crisi che coinvolge l’Europa sta distruggendo in modo dissennato interi patrimoni culturali ­–industriali e non– del “fare”(non c’è fare senza intelletto, non c’è intelletto senza il fare), rinnegando il talento, la qualità, lo specifico di ciascuna lingua, nazione, paese, di ciascuna città, dei cittadini, di ciascuno di noi.