Post-it Sophia- La gazza ladra e il Croupier- di Enrica Alpi

Tutti i diritti riservati©Enrica Alpi

“Rien ne va plus, les jeux sont faits!” Si accettano scommesse!” “Altre fiches?”, annunciò con chiaro e virtuoso timbro il cattedratico Croupier – laddove con una mano accarezzava la ruota da gioco pronta per un altro lancio – con aria sorniona rivolgeva lo sguardo agli avventori e con modi rassicuranti si faceva consegnare con la moneta ritenuta baciata dalla Dea Bendata.

Accanto ai personaggi noti – (i “soliti”, ribadiva compitamente Croupier) – intorno al tavolo da gioco, ogni sera arrivavano sconosciuti frequentatori che, seppur tra loro tanto differenti, per età e mestiere, erano accomunati dalla trepidazione di acchiappare un’occasione milionaria. I fiduciosi di ri-uscita, qualunque essa fosse, che rafforzati da fétiche cornuti e grattate di capo, affidavano sorte e speranza a ciò che Croupier prescriveva come “un buon tiro di dadi”.

La contessa Aurelia Appoggiatorre era annoverata tra le habituè. Donna certamente elegante quanto bizzarra nei suoi vezzi, consacrava sentimenti e certezze al prolifero mondo del tavolo verde. Si gongolava, Milady, delle lunghe serate trascorse al fianco dell’uno o dell’altro giocatore che, tra citazioni illustri e millantate saggezze, con un sol colpo dissipavano o accrescevano i loro supposti patrimoni e, non di rado, solo virtuali. Anche Aurelia era lì. E questo le dava credito e prestigio. Stava seduta al tavolo, compiaciuta delle voci degli altri, del loro chiacchiericcio un po’ pettegolo, fra serio e faceto, che la descrivevano come grande giocatrice, dama raffinata, capace di azzardi che nella narrazione altrui assumevano toni epici.

Anche se potrebbe apparire inconsueto, la Contessa non giocava solo per giocare, non mirava neppure alla competizione o – ancor di più – alla vincita di denaro, si poteva dire che possedesse il dono speciale di avere brama per l’azzardo, quindi per il gioco, solo come strumento per sfidare l’incognito e quell’interrogativo numerico binario: vincere o perdere. Possedeva la straordinaria virtù di non far dipendere la sua vita da una partita, e malgrado non saltasse una giocata, rare erano le occasioni in cui avesse cognizione di quanto aveva scommesso e su quale numero, figuriamoci, quindi, se poteva conoscere l’ammontare delle eventuali vincite o perdite. Imperturbabile, giocava come se giocasse per conto di chissà chi. Viveva alla grande. Non sapeva e non le interessava sapere. C’era Croupier che la sollevava da tale incombenza, era lui che con seducente persuasione la informava e la guidava. Era Croupier che, con ammiccamenti e strizzatine d’occhio, controllava quello che alla Contessa accadeva, le garantiva immunità dalle azioni del baro. E ciò si mostrava agli occhi di Aurelia, e degli altri, come un regale privilegio, talmente alto che chiunque si rivolgesse a lei, altro non poteva che ammirare la sua perseveranza al gioco, tanto da renderla una figura quasi leggendaria, ammantata d’immortali qualità. Complice della sua civetteria, era l’abile Croupier, che a ogni giro incoraggiava la Contessa a conservare l’ossequiato onore, puntando ancora e ancora. E di tale investitura, Croupier, comodamente, si riempiva le tasche.

Poi c’era il dottor Aurelio Fallirotto, un ossuto signore proveniente da facoltosa ed esimia famiglia di latifondisti. Riferiva di se stesso essere un ragguardevole imprenditore, navigato in economie e tecniche varie, ma di quale impresa si trattasse, di fatto nessuno lo aveva inteso. Riteneva il suo valore discendere dalla quantità di denaro che ogni volta dissipava: a ogni giro scommetteva grosse cifre e tutta la serata sempre sullo stesso numero. Le vincite erano sporadiche, del resto, anche attenendoci a inattesi dati statistici, le occasioni di vincere su cotanti “disinvestimenti”, non potevano essere considerevoli. Si era solamente arrogato il diritto di proprietà esclusiva di un numero che quella sera – per personali e arcani calcoli – riteneva Il numero UNO. Ciò che per il dottor Aurelio Fallirotto aveva precipuo interesse era che nessuno degli altri giocatori potesse scommettere sulla sua proprietà numerica. Su questo punto era stato di perentoria lapidarietà: piuttosto perdeva lui, ma quel numero era suo. Chi mai avrebbe potuto scommettere sul numero dell’illustre dott. Fallirotto, senza poi incorrere in nefaste disavventure! Questo si diceva tra i giocatori e Croupier garantiva il diritto di esclusività numerica all’apprezzabile imprenditore, facendo sì – con misurate e ragionate illazioni – che non vi fosse né partecipazione, né alternative per nessun altro. E mentre il garantito dottor Fallirotto entrava nel pieno possesso di un numero, Croupier, in modo assicurato, si riempiva le tasche.

C’era poi il dott. Aurelio Ontocosmo, conosciuto per essere un abile giocatore, giureconsulto dotto e ricordato per la sua proclamata propensione alla verità e alla giustizia. Sempre presente al tavolo, giocava solo di tanto in tanto. E quando scommetteva era perché, con dovizia e scaltrezza, aveva calcolato tutte le probabilità rispetto al numero su cui scommettere. Probabilità che – congiunte in un sistema di prove e controprove – diventavano infine una certezza. La scommessa per il dott. Aurelio Ontocosmo era una conoscenza acquisita, dunque, come poteva prospettarsi il caso che il numero su cui aveva scommesso non uscisse? Ciò avrebbe semplicemente significato un chiaro oltraggio alla formalità logica di rigorosi calcoli, oltraggio a cui occorreva porre rimedio trovando il colpevole della macchinazione certa. Diversamente, il dott. Ontocosmo poteva ammettere una perdita solo per distruzione del Casinò, causa maltempo. Dinanzi a una petizione di giustizia così tanto esigente, nonché a un valore della conoscenza tanto perfetto e supremo, Croupier esortava il dott. Ontocosmo a ricercare il colpevole. “Nel mio tavolo – risolutamente proferiva Croupier – il gioco deve essere trasparente”. E, Ontocosmo, che non si faceva incantare dal mascalzoncello replicava: “Infatti, i fantasmi sono trasparenti!” Come dargli torto!

I giocatori, allora, così timorati della capacità dimostrativa di Ontocosmo, nonché della ferma disapprovazione di Croupier per quanto accaduto, rinunciavano ad ogni pretesa vincita, lasciando al banco l’intero ammontare. I giocatori pagavano-pena per la salvezza a Croupier facendo ammenda di colpe a loro sconosciute. E per ossequio e rispetto della fantomatica trasparenza del gioco il dott. Ontocosmo – senza accorgersene – pagava a Croupier la dimostrazione della sua “suprema conoscenza”.

Ora, in questo guazzabuglio logico formale di sistema binario, vincere o perdere, e dove la negazione della negazione implica l’affermazione, vero o falso, accadde un fatto straordinario, mirabolante per il contesto in cui avvenne. C’erano precedenti, con furto di gioielli, diamanti, luccichii vari, ma mai e poi mai, nulla del genere a memoria d’uomo era accaduto in un Casinò.
Da una feritoia del sottotetto era entrata nel salone una gazza. Fra lo sbalordimento generale, tutti rivolsero l’attenzione all’Imprevisto Improbabile Apparso in volo, come fosse lo Spirito Santo vestito di nero, forse in abito da lutto, forse in Frac, forse. Domande repentine su come era da interpretare l’entrata del volatile, considerando il colore e la tipologia, assalì l’assemblea dei giocatori. A nessuno sfuggiva che sempre di un corvide si trattava. Sussurri e grida tra i presenti, che tentarono una rapida cabala, commisurando il colore e la bestiola al gatto. Gatto nero, gatto bianco?
La gazza si posò impertinente sul tavolo, nel bel mezzo e lì intraprese un turbinio di attività inconsulta. Becchettò le fiches, le sparigliò in un battibaleno. Fu talmente fulminea che nulla poterono fare gli astanti per impedire il fattaccio. Gridavano, “Io avevo 1000,” “Io invece 5000.” Nessuno, però, del gioco e delle vincite della serata aveva più niente. Qualsiasi affermazione veniva contestata. Vincita, perdita? Vero, falso? Gazza infingarda!
Poi, in quell’anarchico bailamme, la gazza come se ne era venuta se ne dipartì. Si alzò leggiadra in volo, prese la corrente di un leggero vortice di vento e sparì nella solenne notte oscura da cui era giunta.
I Signori e le Signore di Gran Somma rimasero per un attimo in un silenzio, colti da un vuoto di pensiero. Tentando di ripristinare il loro Antico Gioco dopo il grande turbamento, si apprestarono a riordinare il tavolo, allorquando, alcuni giocatori osservando bene le fiches parve loro avessero preso una disposizione come di scrittura, quasi la gazza avesse lasciato per loro un messaggio.
Si disposero attorno al tavolo in consorzio e disquisirono per ore e ore sulla traduzione da darsi a quella composizione. Quando la notte giunse al suo cuore, verso le tre del mattino, conclusero tutti d’accordo che sul tavolo stava scritto, per mano di non si sa chi, perché com’è noto, le gazze sono ladre e non scrivono niente di niente, quanto segue:


La gazza ha le ali nere di pece
non andrà a becchettare il grano,
andrà verso le Montagne di Giada.
A che serve gracchiare in un granaio vuoto?
Sono un uccello dal piumaggio cupo e dalle cento lingue.
Passata la porta del Grande Croupier,
l’erba si fa folta.
Al Palazzo Sempre Incompiuto, le parole sono orchidee,
capita di seguirle nel Parco Imperiale,
e di ritrovarsi,
in sogno, senza saperlo nella piscina d’Oro.
I mille idiomi dell’aurora cantano prima di tutte le albe.
Mille porte e mille imposte si spalancano in eco.
E la luce, forse, dovrebbe attendere il gallo?
Le lingue profumate inseguono il vento un vortice di suoni.
Il volo di nero piumato, ruba l’incanto nell’invisibile.