Genti. Gente, lo scambio e l’incontro – di Gabriella Landini

                                                                                 

A Luigina, per adesso e per sempre

 

1) Gente, l’incontro e lo scambio

 

Il numero genti è dedicato alla difformità delle culture, alla loro particolarità eterogenea e differente di lingua, leggende, culti, costumi e narrati. Il termine “gente” rimane inclassificabile e generico, diversamente da quanto accade per quanto riguarda le categorizzazioni politiche e ideologiche riguardanti l’idea di popolo, nazione, impero, le quali necessitano di una ideologia per potersi erigere e tramutarsi in azione e comportamenti socialmente condivisi, il termine genti lascia un’apertura in direzione dello scambio fra differenti collettività culturali, fra ambiti che accolgono l’estraneo, l’inconciliabile come motivo di ricchezza, abbondanza e non di pericolosità.

Gente e genti sono aggregazioni di varia umanità trasversalmente rintracciabili nella multiformità delle usanze all’interno di un continente, di una nazione, di una regione o di una città. Quando affermiamo cosa pensa la gente? La domanda successiva è la gente chi?  Noi stessi siamo gente, individui e al contempo collettività e Altro, singolarità irripetibili, memoria di esperienza, in uno straniamento dalle nostre identità ideologiche e etniche codificate tramite gli a-priori di appartenenza geopolitica, fondate sul razzismo che determinano le relazioni tra gli stati e il conformismo esasperato all’interno di una stessa collettività umana. Conformismo spesso mascherato di una liberalità inautentica e semplicemente strumentale a ulteriori modi di oppressione. Ciascuno di noi si assolve conformisticamente come anticonformista. Un capolavoro della nostra convenzionale indifferenza verso la vita (del nostro non ascoltarne l’afflato potente dentro di noi), in cui il principio di morte sorregge un surrogato di vita tramite il principio di salvezza, di redenzione, di rigenerazione, di purificazione e, in nome di tutto ciò la distruzione, il massacro, per ricominciare tutto da capo dopo l’avvento del sacrificio supremo. E chi mai saranno gli eletti? Gli immortali? Chi non morirà per la crisi economica? Chi non morirà a causa della guerra? Chi per la fame? Chi per assenza di cure? Chi per aspettativa di vita ormai nulla? Chi non morirà perché estirpato forzatamente con la violenza dalla sua cultura e dalle sue usanze? Davvero la vita può essere misurata?

Qualcuno e chi? Un impersonatore tiranno, un vampiro, un despota, oppure la grande macchina tecnologica? Chi il misuratore algebrico e geometrico esente dal principio di contraddizione che stira tutte le pieghe della vita fino a farne una lapide di marmo, eliminato l’Altro, tolta la pausa, il vuoto, lo zero?  Forse una procedura burocratica, un protocollo di esistenza a cui delegare l’irresponsabile, aberrante sentenza di vita e di morte? Presumendo di saperci fare con la morte, di conoscerla, di distribuirla a seconda dei casi.  L’Altro, il folle, il vento, il soffio  e lo zero, anziché  permanere irrappresentabili, squarci ignoti, vengono invece rappresentati nella zeroficazione, nell’azzeramento di una società, di intere civiltà, e in nome del superamento provocare il  fallimento e la distruzione  di intere culture, compresa la nostra, fino alla palingenesi rifondativa. Per ricominciare da capo, ripetere lo stesso testo –occidentale o altro che sia –  alla lettera: il già saputo, il prevedibile, in assenza di humanitas. Noi, insondabili idioti senza saggezza e umiltà. Teorici dell’imbecillità assassina per coerenza di giudicante catastrofe apocalittica, a quali meccanismi asettici ci affidiamo?

Può decidere un alcunché di “entico”–nominato perché c’è vita, ma considerato extravita – da noi pensato, inventato, costruito, cosa sia e in cosa consista la vita nella sua interezza, nel suo corpo, nella sua pienezza, nel suo sogno e nella sua speranza? Davvero un principio di morte applicato attraverso il potere teo-epi-ontologico dispiegato nell’economia, nella finanza, nella medicina, nella guerra bianca e in quella guerreggiata tinta di rosso sangue può essere considerato la condizione -la causa sui – giustificabile affinché, i tutti, i qualcuno, vengano classificati in categorie ideologiche di vita e di morte degne e indegne? Davvero noi possiamo continuare a credere a questo? Davvero noi possiamo continuare ad aderire a ideologie di tale fatta? Davvero noi siamo così obnubilatamente rincretiniti?  Fosse anche la nostra tradizione in tutta la sua magnificenza da ribaltare: possiamo noi continuare a ritenerla naturale e irrensponsabilmente condividerla come conseguente emanazione culturale dei nostri progenitori senza scoprirne gli scarti, le aperture? Possiamo continuare ad aderire indifferenti ai suoi effetti, a farci complici, possiamo tentare di scansarne le conseguenze in nome di una presunta degnità- indegnità della vita in ciascun istante che ci sia concesso di vivere senza pensiero, senza ragionamento, senza arte? Se l’arte non si attiene a questo originario sentire la vita come assoluto diviene uno dei tanti giochi di società. Possiamo continuare a farne delle carriere pubbliche in nome della testimonianza libera e umanitaria, della buona causa giudicata in base al merito?

Davvero l’umanità può essere considerata un merito o un demerito conquistabile e difendibile sul campo?  Certo,  che se la vita diviene un principio relativo allo scongiuro della morte, occorre le venga attribuito un senso superiore al semplice esser vita. Mi occorrerà una metavita per asserire di esistere, mi occorrerà il nome di tutte le nominazioni per dimostrare d’esserci perché il sentire e la sua semplice constatazione non sarebbero garanzia simboliche e protezione sufficienti di fronte al dominio.  Dunque spendersi in una carriera per giusta causa? Il metodo dell’opportunismo per ascendere all’olimpo? La miserabile parodia delle giustificazioni in cui ci sono genti da salvare, genti da eliminare, genti afflitte, genti da sacrificare: ciascuna singola vita, la mia, la tua, la nostra, la vostra, quella dell’altro: sia essa gloriosa, esemplare, da medaglia d’onore, oppure appesa a un altare, a una croce, a un sudario, alla camera a gas, alla finestra di un ospizio, o alla pallida luce dell’aurora, quella singola vita occorre che sia diversamente concepita, in un assoluto non relativilizzabile, e allora in parte sarà essenziale per ciascuno di noi –perché a ciascuno di noi è dato di essere responsabile nel pensiero, nella testimonianza, nell’elaborazione, nel contributo individuale singolare – non appartenere a nessun sistema a cui delegare la gestione teorica e pratica della vita.  E in questo caso sarà semplice trovare la strada, che anche se ardua da percorrere, sarà comunque agevole da individuare.  Se nessuno occorre che muoia in nome di alcunché, se la vita è il cardine indiscutibile, quale economia, quale convivenza, quale tolleranza, quale accoglienza, quale quotidiano, quale festa?  Il modus si trova.

 

Segue prossimi giorni 2) La lontananza e la tenuta. 3) L’incontro e lo scambio