Certezze, abbandoni, estasi – di Francesco Saba Sardi

Immagine di copertina di Francesco Muscente

Tutti gli altri sono “esotici”.

Ne abbiamo testimonianze materiali, ideologiche, linguistiche, e nei loro riguardi ci poniamo sostanzialmente in due modi. Uno consiste nell’oscillare tra il rifiuto e il consenso. Rifiuto se non li conosciamo. Consenso se impariamo a conoscerli, e – per varie ragioni ne apprendiamo le lingue e ci abituiamo alle loro costumanze.

Considerazioni che valgono, in particolare e in misura estrema nei confronti dei diversi appartenenti a mondi lontani  rispetto all’immagine che abbiamo della nostra occidentalità. La quale di norma inizialmente ha quasi sempre sottovalutato le loro produzioni estetiche, poi man mano cambiando atteggiamento, fino a fare propria una visione non di rado snobistica e ormai addirittura di apprezzamento perentorio da tutto ciò che proviene da altri contesti in obbedienza a un principio di esterofilia, legato alla sensazione che la produzione loco nazionale spesso non basti a soddisfare le nostre esigenze conoscitive ed estetiche. Situazione questa, che salta agli occhi in Italia, ma anche nel resto dell’Europa ed è esemplificata dall’importanza che hanno assunto locuzioni di origine anglosassone, soprattutto statunitensi.

Assimilazioni e apprezzamento risultante tanto più evidenti per quanto riguarda le produzioni estetiche di genti del cosiddetto Terzo Mondo. La ricerca di oggetti, in questo caso più che mai esotici, fin dall’antichità ha obbedito a pulsioni di matrice diversissima.  Ce ne resta traccia nelle paleo-conquiste romane.  Tu regere imperio populos romane memento, ma i culti delle etnie sottomesse trovavano ampia accoglienza accanto alle divinità autoctone e per secoli vasta diffusione hanno avuto in occidente le raccolte di oggetti della provenienza più varia, e basterà ricordare i monumentali trionfi di tavole e altri pezzi ornamentali commessi o più spesso imposti dai primi conquistatori portoghesi del Congo.

È andata in seguito delineandosi quella che ho indicato altrove come arte artistica, nel caso specifico l’accettazione e la valutazione di prodotti esotici a patto che corrispondessero entro certi limiti ai motivi decorativi e figurativi occidentali convalidati da raccolte, mostre, asserzioni della critica, la loro presenza in primo luogo in musei. Visioni inedite del reale sono state così accettate e così giudicate più significative di non poche tendenze estetiche degli uomini occidentali.

Appunto sul giudizio che se ne dà conviene soffermare l’attenzione, se ne possono distinguere varie modalità in vario contrasto tra loro, una e fondamentale, è quella che ha indotto a lungo, soprattutto gli antropologi, ma anche molti critici e teorici dell’arte a tentare di elaborare una definizione dei prodotti di quella che si usa chiamare “arte primitiva”.  Indicazione quanto mai vaga e sfuggente, anche perché ha trovato in occidente produttori di oggetti estetici che hanno tratto ispirazione da prodotti  considerati primitivi se non addirittura “ selvaggi”.

Del resto non mancano nell’universo dell’anonimato esempi di libera invenzione, innanzitutto i prodotti di quella che va sotto il nome di  art brut : gli oggetti cioè che Jean Dubuffet, colui che se ne può considerare l’inventore, nel senso che ne ha elaborato la nozione e ne ha scoperti gran parte dei lavori designati con questo termine, contrapponendoli all’”asfissiante cultura” di matrice borghese. E sostenendo che questa ha preso il posto  che un tempo spettava alla religione. Anch’essa, sostiene Dubuffet ha i suoi sacerdoti, i suoi profeti, i suoi santi, i suoi dignitari, i quali fanno del loro meglio per persuadere le classi inferiori  della bellezza, indispensabilità e insostituibilità degli arredi che decorano le abitazioni della gente “bene”.

E il Discorso, a lungo ha tenuto alla larga forme di espressione autonoma, in aggiunta a quelle dei cosiddetti primitivi, in primo luogo la produzione dei bambini, dei reietti e di quelli che etichetta come folli. Se le arti africane e oceaniche sono state a lungo  ritenuto degne al più di interesse etnoantropologico lo si deve ancora  una volta alla considerazione del mondo civilizzato, convenzionalmente definito occidentale, della propria superiorità, innanzitutto per quanto attiene alle norme dell’arte artistica.

È implicito in questo giudizio la convinzione non soltanto di una indiscussa e indiscutibile superiorità, ma addirittura di una incontestabile “verità” dell’arte occidentale.  E si tratta di un atteggiamento che perdura in artisti che pure che hanno voluto abbeverarsi alle presunte espressioni artistiche “primitive di altre etnie e culture” secondo una prospettiva che permetteva a gli artefici dell’Occidente un ormai necessario affrancamento dalle condizioni stabilite divenute impositive per secolare tradizione.  Non mancò, e tuttora non manca chi ha affermato che una maschera africana squalifica l’intera produzione artistica occidentale. Persino Pablo Ricasso è stato tentato da codesta prospettiva, lo ha fatto nel 1909 eseguendo una sua celebre Tête de famme, per la quale ha preso lo spunto da un piccolo avorio della Lega del Congo orientale, l’anonimo intagliatore “negro”  evidentemente apparteneva  alla Bwamne, società di iniziazione diciamo “ sociale” , di cui rappresentava le insegne delle classi di età riportate perlopiù sull’avambraccio. L’oggetto Lega ha valenza simbolica, ed è di per sé una stilizzazione e un’astrazione delle forme, non un ritratto, neppure un typ , anzi l’impossibilità, se non l’esplicito rifiuto della descrizione e imitazione. Nessun rispetto delle proporzioni anatomiche care all’occidente, il pezzo d’avorio appare abbozzato, non lisciato, rispondente alla suggestione onirica, all’antenato dell’artefice e del gruppo tribale. Picasso lo ha visto e lo ha interpretato, cioè tradotto in termini plastici e intellettuali, senza potersi, né volersi sottrarre alle forme convenzionali occidentali – il corpo, l’espressione, la posa… La sua versione è consistita nel rompere la superficie della sua figura ( altezza cm 40  contro i 10 della statuetta) con golose, in angoli vivi, in secchi tagli, ottenendo una geometrizzazione in cui è ben visibile  la rispondenza a un valore anatomico;  e la versione che ha dato della versione negra corrispondeva in pieno al suo- invasivo esclusivistico- logos.  Eppure avrebbe voluto superare, negare, e lo ha fatto inserendo la testa in un reticolo geometrizzante, in una dimensione spazio-temporale dunque, mentre per il nero la forma non è forma- corpo, ma è forma- altra. L’artefice nero non ha un visione spazio- temporale, la sua non è una forma proiettiva come prescrivevano Platone e Aristotele.

Voglio dire  con questo breve excursus picassiano che è assai difficile, per non dire impossibile sottrarsi in Occidente ai moduli tradizionali della raffigurazione, i quali sono, accanto al simbolico, l’estetico ( la convinzione cioè di sapere cos’è il bello e il metafisico) tutti elementi che convengono nell’apprezzamento, non si sa mai fino a che punto sincero o recitato di un’aspirazione alla purezza, a un ritorno alla primordialità, a un’uscita dalla polis, per attingere alla verginità della sylva interpretata comunque quale possibile salvezza.

Ne deriva molto spesso l’attribuzione dell’arte primitiva, di valenze che sono più o meno  consciamente la replica delle nostre convinzioni su ciò che si può non fare, appunto quanto ci permette di accettare, diciamo l’arte africana, mettendola sullo stesso piano valoriale dell’arte occidentale. Donde la loro accoglienza in musei e gallerie, e le esclamazioni di sorpresa, stupore, meraviglia che ne accompagnano l’esibizione. E la fonte prima della sorpresa e della meraviglia è la convinzione che l’arte nera e la primitiva è che siano immobili nel tempo.

D’altro canto l’arte non ha storia, l’arte non appartiene a questo mondo ma ha avuto una storia e continua ad averla: la visione che ne ha il fruitore occidentale, la visione imposta nelle accademie e nelle università dove si hanno facoltà di storia dell’arte. In esse si sottolinea  la transizione dal primitivo, dall’informe, dall’inesatto, alla sempre più precisa rispondenza a precise esigenze, e queste  comportano non soltanto la coincidenza con la realtà come ciò che c’è già, ma anche  l’obbedienza a quello che ormai viene etichettato come astrattismo.

Se da un lato si avverte, e si è avvertito soprattutto all’inizio del secolo scorso, la necessità di sottrarsi a codesta sequenzialità storica, all’affermazione cioè che l’arte è progressiva, d’altra parte i libri di testo e catedrattici insistono sul progresso, di Giotto rispetto ai fondi d’oro medievali, o dell’Impressionismo rispetto alle riproduzioni esatta di figure, luci , paraggi, stati d’animo, eventi… senza tuttavia che ci si distacchi dal discorso, nella sua essenzialità gerarchica.

Al giudizio sull’arte delle etnie altre, non basta, secondo l’opinione che se ne ha nei termini dell’arte artistica la comprensione della genesi di siffatte produzione. Vige infatti la convinzione che nascondano qualcosa, e sono sì, le istanze culturali implicite, tra le quali sarebbero facilmente riconoscibile il rapporto con l’inevitabilità della morte e quella con gli antenati da celebrare in quante eternatisi, divenuti spiriti, spettri, ascoltati suggeritori di realtà invisibili ai viventi.

Se Picasso attribuiva all’arte africana una maggiore intellettualità, vale a dire la comprensione di “verità” nascoste all’Occidente, sia qui uno dei molti esempi possibili della difficoltà che incontra l’Occidente di porsi in altro modo di fronte all’opera d’arte.

È insomma possibile in  occidente, collocarsi di fronte all’arte astraendo dalla sua valutazione? La  quale consiste in sostanza nell’attribuzione di un valore conoscitivo ed economico dell’opera d’arte. E subito si pone la questione di opera e di arte. Laddove l’arte, la parola – arte – non è oggetto, l’arte ripeto e insisto, non è di questo mondo, non ha storia, non è Weltanschauung, non è  Kunstwollen, non sono mancati tra gli stessi artisti coloro che si sono provati a una pseudo definizione di quella che allora era invero ridotta a essere l’oggetto-arte.  Costoro la producono quasi la si potesse contemplare dal di fuori. Accettando o rifiutando, ecco per esempio Paul Klee affermare, “creo nell’ovvio”, bisogna prenderlo sul serio, supporre cioè che prima del soggetto Klee, l’opera di Klee non ci fosse, che Klee l’avrebbe tratta dal nulla, un fiat durato per sei giorni più uno di riposo, quelli della creazione raccontata nel Genesi. Parlar di valore, dell’arte si presta agli equivoci delle attribuzioni di critici, di venditori, di acquirenti, di studiosi, di tecnici, di interpreti, di storici, di specialisti, di gallerie, di direttori d’arte e via dicendo.

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Mentre io sono convinto che sia possibile porsi empaticamente di fronte all’opera d’arte.

Se si vuole in maniera ingenua, addirittura stupidamente, ignorantemente, prescindendo da ogni calcolo, ciò che equivale  al  non  volere dir l’opera-oggetto sia bella e astenendosi soprattutto dalla pretesa di dire che cosa è l’arte. Non sarebbe né la prima né l’ultima volta che si tenta di farlo, trattandosi in sintesi del rifiutare  di tradurre l’opera d’arte in discorsesi nel risultato di un’operazione algebrica, del resto la stessa traduzione letteraria può essere frutto di due diversi atteggiamenti, altrove in un mio saggio sull’arte della traduzione, e più volte intervenendo nel corso di congressi ho proposto il vivace contrasto tra due impersonazioni dell’attività del traduttore,  Semantico e Giocoso.

Dice Semantico: tradurre da una lingua all’altra è un’impresa matematica, e la traduzione di una poesia lirica in una lingua straniera è del tutto analoga a un problema matematico. Perché qualsiasi testo è un codice e il codice lo si infrange, lo si penetra…

Replica Giocoso: E che è un coito, uno stupro?

Insiste Semantico: La decodificazione caro il mo scherzosetto, è un atto di dissezione che spezza l’involucro e  che mette a nudo gli strati vitali.

Ribatte Giocoso: A patto bene inteso che ci sia un cadavere e un obitorio che avrebbe nome letteratura o scrittura, ma io ascolto. Tendo l’orecchio alla voce che me parla e che si armonizzi con la voce parlata dentro quell’altro, magari senza che se ne renda conto, insomma  secondo te la parola è sempre usata, io dico che è  usante.

Intestardito Semantico:  Diavolo! Dunque la verità non esisterebbe?

Ridendo  Giocoso: Non c’è. Come è impossibile la traduzione come esatta ricostruzione di parole, contesti, immagini, di forme. La forma ce la deve mettere il traduttore ed è cosa che perviene all’irrazionale, all’onirico, non al logos.

 

A questo punto lasciamo i due contendenti a strapparsi il crine di capo per porre altre questioni. In primo luogo questa.

Che cosa si perde ponendosi al cospetto dell’opera d’arte senza l’armamentario di regole, di indagini enigmistiche addirittura poliziesche, intese a scoprire ciò che l’artista – l’ironico, lo sfacciato cultore di poiesis, ci tiene, forse volutamente, nascosto?

Ma certo si rinuncia al piacere innegabile di quello che i cultori delle scritture giudaiche  chiamano il pillpull, la discussione portata fino  all’esaurimento, al silenzio, ma con la convinzione di aver compiuto opera meritoria obbedendo all’irritante  tendenza di Javé  a permetter la costruzione delle torri di Babele e  volta per volta distruggerle. E sarebbe, secondo loro il più sottile modo di adorarlo.

Ma si conquista il piacere dell’abbandono, della contemplazione estatica, anche se non è mai questione di calcolo e confronto tra guadagno e perdita, essendo che  la dimensione della poiesis non appartiene alla sfera della cognizione, ma può trarre sarcastico piacere dalla convoluta parafrasi letteraria e artistica, e avendone riso annuncia l’alterità, rivela il ritmo insito nella parola, contrapposta al tempo e al luogo, al tempo delle faccende, degli orologi, delle attività produttive e progressiste.

 
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