Bangkok dalla mia finestra- di Omar Cerchierini

Immagini di Thadsanapong Sinsumruai

Da Pocket Bangkok. Diario

Bon gai

20 giugno

Quando arriviamo qui, al nono piano del civico 18 di Rama IV, è sera ed io – spossato dopo venti ore di viaggio, con un’umidità che mi imperla la fronte anche solo respirando – subito piombo nello sconforto: non avevo forse mai visto un appartamento così squallido. La porta di ghisa come di sgabuzzino d’ospedale, la carta da parati grigiastra, la credenza di legno giallo, gonfio d’umido, niente acqua calda, niente fornelli, il balcone chiuso da un inferriata quasi a proteggerti da ciò che ci sta sotto, cioè gli slum, le baracche di lamiera dove vivono centinaia di persone, come in un paese in miniatura, con sue stradine e confini propri. È il quartiere di Bon gai. E subito a chiedermi: ma che ci faccio qui? Guardati: hai trentacinque anni, non hai un lavoro, non hai una professione, non hai una carriera. Hai 90.000 bhat nel portafoglio e la scommessa di sopravvivere con questi il più a lungo possibile. E poi c’è N., appunto. N. che ora ti guarda e sa benissimo che cosa stai pensando e ti chiede “Tutto a posto? Credi di poter restare qui?” e tu non hai la forza di dirgli la verità, non hai nessuna voglia di ferirlo e dici solo che dovrete cercare di rendere la stanza un po’ più accogliente e meno triste di così.

Ma poi, il giorno dopo, quando le valigie sono disfatte, il letto è in ordine, qualche libro è sugli scaffali e i piatti nelle mensole della credenza, tutto, nella calda luce del giorno (questa luce lattiginosa che si spande in un cielo vastissimo, sopra i grattacieli), sembra migliorare. E mi dico che per un po’ questa potrà essere la mia casa. Ciò che mi piace di più finisce per essere proprio questa zona, a ridosso di Rama IV (una delle arterie principali della parte centrale della città). Si sente il brulicare della vita, di migliaia di esistenze che non paiono volersi riposare mai. È abbastanza incredibile che cosa si riesce a trovare nei cinquanta metri di strada qui sotto: chi vende frutta già tagliata a pezzetti o intera, chi vende pollo allo spiedo o fritto o alla griglia; chi vende noodle di maiale, chi noodle di manzo, chi di pesce; chi vende pollo con riso bollito, chi maiale con riso o con altre salse; chi vende pesce alla griglia e chi fritto; chi vende spiedini di maiale, chi salsicce, chi palline di tofu; chi vende dessert tradizionali, chi succhi di frutta, chi verdure e namprik (un impasto di peperoncino e salsa di pesce dall’odore potentissimo); chi calzini, chi biglietti della lotteria, chi ripara cellulari, chi taglia i capelli e appronta una pedicure al volo, chi gestisce una boutique di due metri quadrati e molto altro, e tutto nei cinquanta metri di strada che conducono in Rama IV.

Se voglio restare qui – mi dico – allora per una volta vivrò da thailandese con i thailandesi. Dirmelo, ripetermelo, mi dà un po’ più di forza.

Se guardo dalla finestra, vedo Bangkok, le sue contraddizioni: sotto di me le baracche di lamiera, i gatti sui tetti, i panni a stendere su un filo teso tra infissi di cartone. E di fronte, solo attraversata la strada, un nuovo condominio di cinquanta piani, abbagliante nelle sue vetrate, con due piscine e le palme che oscillano al vento sul roof. Miseria e lusso sfrenato, incorniciati dal mio davanzale.

 

Chinatown

10 agosto

Quando sono triste, è bello – mi dico – vivere in una megalopoli di dodici milioni di abitanti, in cui si è nessuno per altri dodici milioni di persone. Posso trascinare il mio dolore – anonimo, io e il mio dolore – per grandi strade che si snodano come fiumi, posso contare sei sopraelevate incrociarsi sulla mia testa mentre un taxi mi porta al di là del fiume, a Talin Chan. O posso aggirarmi per Chinatown, quando sono triste. È una delle cose migliori da fare, mi dico.

Qui le insegne fittissime disegnano una mappatura frenetica, colorata come un prato lisergico. L’oro e il rosso ovunque. Le vecchie, grandi botteghe di dolci con i loro biscottini rotondi farciti di sesamo. Le farmacie che espongono per lo stupore dei turisti enormi vasi di vetro ricolmi di cavallucci di mare, nidi di rondine, pinne di squalo e serpenti essiccati. I templi illuminati di notte sono sorprendenti, nel tripudio di verde, rosso e oro: colonne attorcigliate, minacciosi guardiani armati di sciabola a vegliare le porte, dragoni dalle squame iridescenti sul tetto, gru di pietra serene e ben augurali nel patio e, in alto, la statua di un bodhisattva tra spirali d’incenso… Tutto sembra di marzapane, o di plastica: ma l’aspetto ludico, kitsch e sacrale riescono a trovare, mescolandosi, un equilibrio impossibile, ed elegantissimo.

(Poi, una cena molto buona con zuppa di pinna di squalo, polpette di granchio e anatra laccata.)

Città magica

8 febbraio

N. si sveglia a metà della notte, ha un incubo.

Due sere fa siamo corsi a casa dei suoi (di N.) perché un loro vicino di casa si era suicidato. Da tre giorni non parlava con nessuno, poi si è asserragliato con un lucchetto all’interno del suo appartamento, ha inghiottito una scatola di sonniferi e bevuto una bottiglia di detersivo da pavimenti. Aveva trentadue anni. Arriviamo che la polizia sta ancora facendo i sopralluoghi, i lampeggianti accesi. I vicini sono tutti in strada. Siedo con alcuni di loro nel negozietto dei genitori di N.: mi viene offerta della birra e cerchiamo di parlare dell’accaduto un po’ in thailandese, un po’ in inglese e un po’ a gesti. Cerco di farmi spiegare la dinamica della tragedia, ma mi sembra di capire che siano tutti più che altro preoccupati della possibilità, per loro molto realistica, che lo spirito del morto (“The ghost!” dicono, spalancando gli occhi) continui ad aggirarsi disperato nella casa e nei dintorni – come avviene per gli spiriti delle persone morte anzitempo. È questo il motivo per cui in città, un po’ ovunque lungo le strade, agli angoli delle vie, davanti alle porte si offrono bicchieri d’acqua e un piattino di cibo e si bruciano incensi: nella speranza di placare la sete e la fame degli spiriti erranti. Mi dimentico sempre di come questa città, che per molti aspetti si forza di essere ipermoderna, sia anche una città magica e antica. Mentre son lì, che provo a capire qualcosa della conversazione, N. sale di sopra a vedere il cadavere. Mi racconta che il viso è violaceo, ma non il corpo, e la lingua ingrossata gli penzola dalla bocca: ha vomitato sangue ed è morto, solo, in questo modo orribile. Da quando ha visto il cadavere, N. vuole dormire con una luce accesa. Adesso ha un incubo e mi sveglia, vuole che lo abbracci. C’era, nel sogno, un fantasma enorme alla finestra, piegato sulla schiena per guardare, dentro l’appartamento, noi due addormentati.