Homo ludens – di Francesco Saba Sardi

Immagine Adolf Wölfli (dettaglio)

I nostri progenitori paleolitici e neolitici, e persino i paleoantropi, erano utilizzatori di sostanze di varia natura dalle quali ricavavano arnesi e oggetti ornamentali.

In apparenza almeno, è quanto di loro ci resta: fossili reperiti grazie a scavi sistematici e a casuali ritrovamenti, nonché immagini tracciate, incise o dipinte su rocce, sulla pareti di grotte o caverne, tuttora interpretabili, se confrontate con immagini moderne, simili o addirittura identiche seppure di  diversa fattura, forma e materiali impiegati.

Che altro ci resta dei nostri progenitori? Ben poco che permetta, in apparenza, di attribuire loro intenzioni, progetti, ideologie. Ne è derivata la diffusa opinione che l’uomo antico fosse essenzialmente homo faber, e gran parte della paleontologia a questa convinzione continua ad attenersi.

D’altra parte è facile sorprendere gli odierni “primitivi” – e, per analogia, i loro progenitori paleo e neolitici –  in tutt’altre attività che non siano intese alla caccia, alla pesca, alla raccolta di piante edule o già alla semina o al raccolto. Al di là delle azioni volte alla procreazione, all’allattamento e all’educazione dei figli, delle riunioni volte a stabilire modalità di convivenza, chi vada tra i pigmei, tra gli inuit, tra i boscimani, persino tra gruppi più ampiamente sottoposti a tentativi di civilizzazione, come i pellerossa delle Grandi Pianure americane, li scopre intenti a ruzzare, a fingere scherzosi duelli, a proporre indovinelli, a tracciare – parlo dei pigmei – immagini sulle cortecce, a plasmare  – parlo degli inuit – figurine di legno o sasso: in una parola, li trova intenti a quelle attività che gli etnoantropologi definiscono non utilitaristiche.

Insomma, è difficile immaginare la creatura umana di oggi o di un tempo dedita unicamente alle occupazioni proprie dell’homo faber. Alla cui immagine non può non accompagnarsi, e con non minore valenza, quella dell’homo ludens e quella dell’homo mythologicus, cioè dell’uomo intento a giochi o all’invenzione di narrazioni mitiche o favolistiche, a elaborare spiegazioni del mondo e della vita, a comporre poemi, a costruire immagini e scenari.

I  nostri progenitori, al pari dei “primitivi”, dedicavano e dedicano una frazione cospicua del loro tempo ad attività e gestualità non fattuali. Nelle quali è implicito un movimento ludico, come del resto lo è nella stessa elaborazione e preparazione dell’azione concreta. Nella sua invenzione è sempre e con ogni evidenza all’opera una componente ludica. Lo ha constatato e teorizzato, già negli anni trenta del secolo scorso, il sociologo olandese Johan Huizinga, autore di un celebre libro intitolato appunto Homo ludens.

Secondo Huizinga, tutto è assimilabile al gioco, tutte le attività umane contengono un elemento di ludus. Vediamole.

Secondo Huizinga, il gioco sarebbe un fenomeno culturale, in altri termini un volontario giocare che sarebbe in effetti un basilare principio di convivenza. E il gioco sarebbe indissolubilmente connesso alla gara, all’agon, alla concorrenza.

Si può dire che Parola e phanes comportino senz’altro l’elemento gioco, in quanto non sono dettati da esigenze pratiche. Parola e phanes si manifestano spontaneamente, sono originari proprio perché senza origine, senza una fonte precedente. Compaiono immotivatamente, si rivelano. La Parola è riconoscibile nel suo stesso emergere, il phanes illumina e si eclissa: non è uno spirito, non è una divinità, è l’Apparso, se volete il Natale, ciò che si manifesta e che, proprio per la sua non rispondenza al principio di causa ed effetto, può acquisire valenza redentrice, di dono salvifico dell’alterità.

Il gioco come agon, per riprendere il concetto di Huizinga, è implicito nel diritto. Il tribunale è un luogo di gioco, cioè del tentativo di pervenire a un’intesa, e dove non di rado è addirittura in gioco la vita stessa. La giustizia è sempre, innegabilmente, un gioco d’azzardo. Il processo è una scommessa aperta.

Il contenuto-gioco è alla radice della concezione-visione del mondo di ascendenza mitica, e persino della riproduzione di quello che viene detto il reale. Cose che sono entrambe il risultato di invenzione nella sua immediatezza o mediata dalla traduzione. Ludici sarebbero, per riprendere Huizinga, gli elementi della versificazione, della poiesis, che pertanto si ridurrebbe ai suoi contenuti. Lo stesso varrebbe per la teatralità, che anzi andrebbe interpretata come un gioco che si svolge tra l’autore e gli attori da un lato, e dall’altro il potere, perlomeno in quanto possessore o gestore dello spazio, il teatro, in cui l’azione scenica si svolge.

Ancora, il ludus generatore, procreatore, sostiene Huizinga, con l’avanzare della civiltà avrebbe lasciato il posto a una visione postludica degli eventi. Comunque, il gioco avrebbe comunque e sempre regole. Frutto, queste, di accordi intervenuti esplicitamente fra i partecipanti al gioco stesso.

La domanda è: in quale fase? E la risposta suonerebbe: quella di un accordo concluso prima che il gioco abbia inizio, anzi da intendere quale sua indispensabile premessa. E siccome i partecipanti al gioco sono sempre in posizione di reciproca concorrenza, come sportivi che cercano di superarsi a vicenda (lo scopo essendo la vittoria, che nel caso del gioco sarebbe l’affermazione della personale superiorità), bisognerebbe supporre che all’interno del gruppo, per quanto piccolo e lontanissimo ancora dall’aver raggiunto lo status di società – dunque ancora gruppo pre-neolitico, paleolitico, odiernamente “selvaggio”, ben lontano ancora da rapporti dialettici, gruppo che ignora la divinità, la gerarchia come riconoscimento di superiorità e inferiorità: un gruppo del genere si avrebbe inevitabilmente diviso in sottogruppi, in fratrie fra loro concorrenti.

Facile tuttavia constatare – e basta rifarsi ancora all’esempio dei pigmei Bambuti, oppure dei residui boscimani della Namibia, o ancora degli Aranda australiani – che le divisioni all’interno dei gruppi si profilano solo in condizioni tardoneolitiche, una volta cessata la fratellanza e la sorellanza paleolitiche. L’Europa antica (per usare la terminologia di Marija Gimbutas, autrice di Kurgan e del postumo Le dee viventi) è supponibile che sia stata sopraffatta da etnie indoeuropee di allevatori e addomesticatori di cavalli, obbedienti a ideologie maschiliste: le stesse, del resto, ormai manifestantesi nell’erezione di quelle pietre falliche che sono variamente dette betili, menhir, dolmen, e via dicendo: monoliti singoli o composti, riaffermanti il predominio virile, la conquista, la guerra, l’invenzione di panteon itifallici e guerrieri, come la classica triade romana.

Ma torniamo a Huizinga che invoca il carattere di “gioco puro” della danza e invece l’elemento di competitività nella musica. Nell’arte figurativa, a suo parere, ci sarebbe poco posto per l’elemento ludico, inteso come luogo dell’agire, che invece sarebbe ben presente nella letteratura e tra i singoli autori. A dargli ragione, in epoca più vicina a noi, sembra essere il celebre critico americano Harold Bloom che, con Il canone occidentale e altre opere, ha confezionato l’idea di letteratura come perenne, geloso agon  tra gli autori, attuali e loro predecessori.

Stando ancora a Huizinga, la mancanza o scarsità di agonismo tra i figurativi andrebbe attribuita al fatto che l’opera d’arte avrebbe una qualità sacrale. E la sacralità metterebbe a tacere il gioco, relegato in una sfera minore dalla religiosità. Concezione secondo la quale non si avrebbero lotte e scontri tra le religioni, e dio non sarebbe il prodotto di un gioco.

Gioco è sempre, per il nostro autore, la guerra. Effettivamente, dal gioco spinto al limite della violenza essa prende senza dubbio origine, a patto che si scambino per guerra azioni come la caccia alle teste, i duelli e le imprese cavalleresche.

A me sembra che Huizinga tendesse a ricondurre tutto a una causa causarum , una monodirezionalità confermata da una perenne concorrenza e contrasto tra le fratrie. E la monodirezionalità consisterebbe in ciò, che tutte le attività riportabili al gioco hanno luogo in stato di veglia, dal momento che il loro indispensabile prologo è l’accordo tra i partecipanti al gioco. Come se gli aborigeni australiani ai quali gli etnoantropologi hanno accanitamente attribuito l’obbedienza al dreamtime avessero bisogno delle indicazioni fornite loro in stato onirico dall’antenato per immaginare la lancia e la freccia, e come se, per applicarne i consigli o le imposizioni, avessero bisogno di dare loro una forma sintattico-grammaticale, e dunque di fare propri gli stessi dettami dell’oOccidente. E soprattutto, come se il contenuto della mente, il Denkart, cioè il modo di pensare dei tedeschi, fosse riconducibile alla ratio e al logos, e non esistesse l’autonoma dimensione della poiesis. E ancora, come se l’abbandono, che della poiesis è condizione, non fosse attingibile e tutto fosse riducibile alle concretezze dell’homo faber.

Definiamo pure il gioco come agon, sempre in atto quanto attiene alle esigenze della vita e la perenne minaccia della morte. Ma è assurda l’idea di stendere un catalogo di costanti antropologiche.

Chi non ha visto cuccioli di gatto, cane o tigre, ruzzare? Ed è immaginabile che i giochi infantili umani abbiano sempre regole e predeterminazioni? Non sembra piuttosto che il gioco sia un momento particolare, non riducibile a nessuna necessità concreta? Gioco, dunque, come  puro gioco.

Ciò che abbiamo tentato di rendere palese nel numero di questa Ultrafilosofia dedicata appunto alla magnifica superfluità del gioco, a cominciare dagli incanti dell’erotismo che niente ha da spartire con la sessualità-genitalità.