Il viaggio. L’avventura, l’ospite – di Gabriella Landini

 

 

Ho la valigia da preparare. Il tempo è stretto, l’aereo decolla, la nave parte. Ho uno zaino da attrezzare. La scalata, l’attraversata, sarà agevole, sarà ardua. Il volo in quota avverrà a rarefazione termica. Pensieri dissolti, meno densi, sperduti. C’è in atto una tormenta di neve a nord, una tempesta di sabbia a sud, quel che accade è fuori portata, ma devo comunque mettere abiti, farmaci, qualcosa di ieri, di quel che so adesso, per il mio domani, poco più in là, o lontanissimo, che non è qui, è altrove, e quell’altrove mi è estraneo. So la direzione, vedo prospetti cartografici di punti satellitari, di panoramiche aereospaziali, sono erudito sui costumi di paesi esotici, mi sono allenato rigorosamente per la spedizione, per inabissarmi, per la salita, per il volo. Informazioni meteo a portata di un istantaneo clic.

Ma di me, di un tempo altrove, fra le nuvole, o nella savana, nulla so. Nulla mi è dato di sapere. Ignoti mi sono i luoghi, il tempo che impiegherò a viverli. Straniero sono a me stesso, pellegrino nell’oltrepassare il valico di frontiera. Frontiera delle mie cognizioni verso l’incognito. Nell’immemorabile delle ere qualcosa in me è ancora selvaggina di passo? Lo sarà ancora? Quand’era, quand’è stato, che ho gridato al Ciclope: “Nessuno”? Appaio come qualcuno, forse. Qualcuno? Chi? Un colono? Un padrone di casa? In quel tempo… sotto Natale, stagione morta, quando il lupo vive di vento e ciascuno, sprangata la porta, sta per il gelo presso il tizzone, mi venne voglia di spezzare, la molto amorosa prigione, che soleva il mio cuore straziare. Il bagaglio è stipato, quasi non si chiude, colmo di feticci per ovviare alle avversità. Davvero un riparo dal periglio della decisione? Di andare, sapendo che non si ritorna? Nel movimento c’è perdita, c’è  acquisto. Il nostos è ininscrivibile alle nostre vicende. Sentimento di potenza immaginifica, movente per invenzioni di soste, di luoghi di arrivo e di partenza.  Di luoghi a cui appartenere, di un tempo appaesato, esorcizzando la morte: l’alterità insondabile. Trasognante, mi avventuro con qualche orpello scaramantico d’apparato culturale. Ho infilato i residui di rassicurazione e logico ragionamento nella sacca.

Tetragono ai colpi di ventura, la tracolla rinserra le mie certezze. Ma varcata la soglia, in cui credo di essere signore della casa e della terra, divento ospite provvisorio della strada, perennemente in transito, spossessato dei miei averi. Niente mi è certo quanto l’incertezza; oscuro, se non ciò che è più evidente; dubbi non ho se non nella certezza; stimo la scienza casuale accidente; io tutto vinco e tutto perdo. Risento i ritmi della pioggia, avverto quanto il semantema-bagaglio-equipaggiamento sia la tentazione di affermare un passato, a cui appartengo per lingua e tradizione, ricordi, nazionalità, colore di pelle, istruzione.  Ma per mettermi in viaggio bisogna che lasci, che abbandoni, che muoia a me stesso. Dimenticarmi. Varcato il confine, ci saranno altre vesti, altri cibi, altri dei momentanei, altri profumi, quelli che mi porto appresso saranno nomi fonte di curiose perplessità e divertenti lazzi. L’umanità sempre s’incontra e scambia. La mia mano stringe la tua, stranieri tu ed io ai nostri stessi occhi: nello sguardo che non ci coglie, l’altro è sempre ospite. Anche un addio è un arrivederci per chi non possiede i luoghi e le cose. Il viaggio diviene il modus per incontrare l’Altro, per ascoltare, per uno scambio generoso, per accogliere e essere accolti. Troverò lungo il cammino ciò che occorre.

Il viaggio rimane la memoria più antica e autentica dell’itineranza, di quando eravamo ospiti della terra, colmi di gratitudine per l’occasione che ci era data nel vivere. E non eravamo signori e padroni planetari divinizzati, arroganti e infausti, sordi e ciechi. È memoria di quando eravamo attenti al respiro delle foglie, alla solidità flessuosa dell’albero, al picco del nevaio, al corallo sullo sfondo del mare, alla peripezia di un guado.  Di quando avventura sta per: tenere l’istante nell’eterno, senza lasciarlo cadere a favore di un’idea di conquista, di appropriazione, di oppressione, di annientamento di costumanze a favore di altre. L’etimo di avventura racconta proprio l’avvenire, in ciò che arriva in sorte, avvenimento, accidentalità. Ciò che ci viene dato per sortita dell’attimo e della coincidenza. Apolidia, come arte della liberalità.

Muoio di sete accanto alla fontana, caldo di fuoco e i denti sto battendo; il mio paese mi è terra lontana; presso un braciere rabbrividisco ardendo; nudo qual verme, in ricco vestimento, rido nel pianto e sto senza sperare… Chi sei tu che bussi alla porta?  Che sbarchi dal mare? Che sbuchi dal bosco, che percorri il sentiero, che hai fame, che hai sete, che vieni in visita? Per piacere, per caso, per fortuna, per sventura? Hospes?

Ma tu che giungi all’improvviso, a sorpresa, sei Hostis oppure Sodalis?  Amico o nemico?  L’ospite è sacro, mi apre a mondi altri, oltre la cortina delle mie convinzioni, delle mie esperienze, l’ospite arriva sempre da un qualche al di là, e anche aldilà (sacrum appunto), come nel  racconto di Lot. Incerto è l’incontro, e l’anfitrione sa che al dovere di cortesia e accoglienza corrisponde anche la restituzione e il ringraziamento. Perché Demetra fece un errore? Non ascoltò i suoi anfitrioni e ricambiò l’ospitalità con un dono elevatissimo, ma ahimè, incompreso, dunque sgradito. Il mito però rivela in se stesso l’arcano dell’ospitalità fallita.

I protagonisti della vicenda sono tutti signori della dimora, divina o terrena che sia. La divisione fra le proprietà degli uni e degli altri è affermata: non più ospiti della terra, bensì possessori, radicati, difesi dentro le loro fortezze: regno, cortile, giardino, campo, fossato. Demetra per placare l’irritazione di Celeo, il re, rimedia insegnando l’agricoltura in tutta la regione. Dono, a questo punto riconosciuto come avente un  valore condiviso, perché apportatore di maggiori  ricchezze a prosperità. Se fossero stati nomadi  il valore simbolico dello scambio non sarebbe potuto avvenire per condivisione, non essendoci appunto un’idea di appartenenza. Più interessante è la storia di Lot, che per i suoi ospiti è disposto a dare in cambio le figlie, e per questa ragione riesce a fuggire e a salvarsi dalla città in fiamme.

Il valore di ciò che scambi perde il paragone per entrare nello scambio simbolico della sola parola, del narrato. È questa la ragione per cui un’opera d’arte rimane incommensurabile nel suo valore. Un elemento talmente inutile da essere “un nulla” a costo elevatissimo. È solo per la stanzialità che l’ospite se resta troppo crea fastidio, diviene come in biologia, un parassita.  Ma per chi si muove, per chi non resta per troppo tempo in nessun posto, accogliere e farsi accogliere è la ragione stessa del movimento, la sua armonia.