THAILANDIA/Pocket Bangkok. Diario – di Omar Cerchierini e Thadsanapong Sinsumruai

Bangkok, 2 ottobre 2554

Mentre affondano le borse europee e in Italia sprofondano paesi e si allagano città, qui milioni di metri cubi d’acqua ristagnano minacciosi nel centro del paese, premono per arrivare al mare e invadono, per la prima volta dopo cinquant’anni, la capitale.
Mi vengono in mente i tanti usi metaforici delle parole legate all’acqua e che, depositati al fondo del nostro linguaggio (affondare, sprofondare, allagare, ho appena scritto, ma anche sommergere, essere in balia delle onde, trovarsi in bonaccia ecc.), rimandano al senso della prima sfida alle acque: il territorio equoreo – l’uomo che osa spingersi nel regno senza confini tracciabili, abitato dalle mostruose creature marine…
In città, che il governo cerca con ogni mezzo di preservare dall’inondazione (a scapito delle zone povere del paese tenute sotto tre metri d’acqua), si diffonde il panico. Un panico misurato, come è proprio del carattere thailandese, ma anche qui sotto casa nostra si tirano su muretti a secco davanti alle porte di casa, si impilano sacchi di sabbia davanti ai negozi, agli hotel, alle banche, agli ingressi dei parcheggi, si chiudono stazioni della metropolitana.
Dalla mia scuola arrivano e-mail che insinuano un’ansia che non avevo: “As you are aware, the floods continue to inundate Bangkok and the spread is unpredictable… I implore everyone to stay safe and take precautions during this crisis. Please make sure that your health and safety remain your first priority…”

Ma allora, dico con N., abbiamo sottovalutato tutto?

7 ottobre

N. rientra dal minimarket in fondo alla via in cui viviamo e dice: “L’acqua non si trova, nemmeno una bottiglia”. Lascio trasparire un’espressione di sorpresa e sconforto, anche se è già una settimana che le scorte d’acqua sono sparite dagli scaffali dei supermercati. “Dovremmo andare al Big C” provo a dire. “Ricordi che l’altra volta abbiamo visto in offerta quelle grandi taniche da venti litri?” N. annuisce. Con il telecomando tra le mani, sta facendo un giro tra i canali della tv pubblica thailandese. “Ecco, potremmo comprare una tanica e fare una bella scorta d’acqua” dico ancora, cedendo anch’io all’isterismo precauzionale che ormai sento alitarmi tutt’attorno. (Paradosso: coperti d’acqua, non c’è più acqua da bere.)

10 ottobre

Si vive secondo gli annunci più o meno allarmistici dei media.
In tv scorrono immagini di una ragazza che nella parte nord della città è stata addentata da un coccodrillo (scappato con alcuni compagni da un allevamento con il favore delle piene): esibisce una gamba stretta in una vistosa fasciatura e spiega di essere salva perché un amico è riuscito ad allontanare il rettile a bastonate.
In un altro servizio di un tg, gli addetti della protezione civile con lunghe pertiche catturano dalle travi di un’abitazione dei piccoli serpenti verde smeraldo velenosissimi, fuggiti, grazie all’inondazione, da un ristorante cinese poco prima di finire in padella…

16 ottobre

Oggi compio 36 anni.
Ho 36 anni. Sono a Bangkok.
Oggi ho scritto questi versi:

la mia vita costruendosi
si sbriciola
come polvere di una cometa
che in luce incendiata vive
che in luce
incendiata vive.

 

20 ottobre

Il rapporto che questo paese ha con l’acqua: una striscia di terra fra l’oceano Indiano e il mare della Cina. Una cerniera tra le due grandi culture-madre dell’Oriente e, a sud, le miriadi di piccole isole e le grandi isole (Giava, Sumatra). Via terra, la cultura dell’impero khmer. L’apertura all’altro che viene proprio dall’essere essenzialmente un porto.
L’acqua del mare minaccia quella dei poderosi fiumi quanto quella delle immense piogge. (Sulle isole Phi Phi, i cartelli di allerta che indicano i sentieri di salvataggio in caso di tsunami.).
E ora l’alluvione, che nelle sue manifestazioni di panico richiama proprio un tema ancestrale: la lotta fra la terra e il mare, dove il nostro elemento risulta sempre il più debole, il più esposto alla potenza distruttrice dell’acqua, che copre, travolge, affoga e inghiotte in vortici bui – opposta a sua volta all’acqua irrigua, umida, fertile, vincitrice della sete e sinonimo di vita. Anche nell’alluvione, come nei terrorizzanti spazi oceanici, noi uomini “con i piedi per terra” abbiamo bisogno di un legno che ci salvi. Come l’arca di Noè o quella di Osiride, diceva Simone Weil.

30 ottobre

Visita alla parte alluvionata della città, a ridosso del fiume. In alcuni punti l’acqua arriva al ginocchio e la corrente è forte. N. scatta qualche foto, come i turisti che si aggirano con le loro digitali attratti dalla novità, mentre chi abita nelle case con l’acqua alla porta guarda dalla finestra. Spensierati, alcuni bambini nuotano in strada e si godono le onde al passaggio di un autobus.

2 novembre

Attesa dell’alluvione.
Né io né N. lavoriamo perché gli studenti hanno cancellato in massa le loro lezioni e, a parte le mie grandi ansie (se non lavoro non vengo pagato), questi giorni si trasformano in una piccola vacanza forzata.
Oggi nel tardo pomeriggio siamo andati a visitare il Wat Arun. Con il traghetto attraversiamo il fiume Chao Phraya in piena, le cui acque gonfie hanno gli stessi colori del cielo e rotolano impetuose ai limiti degli argini. Il sole sta tramontando, l’aria si fa più fresca.

 

Non c’è quasi nessuno al tempio. Regna un silenzio sospeso, attraversato solo dal suono delle campanelle nel vento. Imponenza antica e maestosa delle costruzioni. La luce del sole al tramonto è spezzata e rimandata in mille colori tremuli e luccicanti dai frammenti di porcellana che rivestono le torri. Ricordano le montagne sacre. Ai lati della torre centrale sporgono, dall’alto, gli elefanti a tre teste cavalcati dal dio Idra. I giganti le sostengono, si accollano la fatica della terra. Gli scalini salgono ripidissimi, faticosi. Danno davvero il senso di una scalata, di un’ascesa, e, al momento di tornare giù, dominano le vertigini – se non fossero stati apposti dei corrimano, io non sarei più in grado di rimettere piede a terra.

10 novembre
luna piena

Ancora l’acqua, l’acqua sacra.
Si celebra il Loy Krathong, un’antichissima festa di tradizione indiana in cui si rende omaggio alla divinità del fiume, lasciando trasportare via dalla corrente un vassoio scolpito in tronco di banano ed elegantemente decorato delle sue foglie e di fiori, incensi e candele. Si chiede perdono al fiume per aver approfittato della ricchezza delle sue acque e, abbandonando l’offerta alla corrente, si esprime un desiderio. Si può lasciare sul vassoio un proprio capello, un frammento d’unghia, come simbolo di una parte di sé, e chiedere al fiume di portar via tutto ciò che di negativo l’ultimo anno ci ha consegnato. Abbiamo lasciato i nostri vassoi nel canale di un parco. Ho espresso il mio desiderio.

15 novembre

Tutta la città è allagata, solo il centro è preservato. In tv la grande macchina dei soccorsi, della solidarietà, gli esperti e i direttorî che si adoperano per scongiurare il peggio, mentre per la nuova premier si tratta anche di affrontare la prima seria sfida personale di governo, da cui non sembra uscire benissimo… Del resto, qual è il numero preciso delle persone morte? Duecento, trecento, quattrocento?

Noi intanto non abbiamo più soldi. Al banco dei pegni riscattiamo l’anello d’oro di N., dono di sua madre. Il nostro budget è di 400 baht al giorno in due (4 euro a testa).

In taxi, più di una volta ho pensato: perchè questi paesaggi non tornano nei miei sogni? Questi spazi che si aprono all’improvviso, in certe zone della periferia: le case dai tetti piatti, i terrazzini bianchi in stile coloniale, lo svettare dei pinnacoli dorati di un tempio contro il cielo enorme, vastissimo, attraversato da strisce infuocate di nuvole arancioni e verdi… È tutto già troppo onirico perché possa essermi restituito in sogno?
Invece, ho sognato ancora l’aquila. Io e N. siamo in campagna. L’aquila maestosa, terrificante, piomba sua una ghiandaia che sta beccando delle granaglie ai margini di un sentiero e la ghermisce nei grandi artigli, sollevandola a una morte in cielo. Io e N. ne siamo ammirati e terrorizzati.

 

20 novembre

Oggi a casa dei genitori di N., nel pomeriggio. Sulla superstrada sopraelevata la corsia d’emergenza è completamente occupata dalle auto parcheggiate di chi le ha volute mettere in salvo, in un luogo sicuro dove l’acqua non potesse arrivare.
Andiamo al tempio vicino casa a offrire cibo ai pesci. Lanciamo del pane raffermo e i grandi pesci risalgono a decine per mangiarlo. L’acqua del canale che scorre lungo il cortile del tempio è al limite dei margini. I genitori di N. hanno spostato tutte le cose dal piano terra al secondo e terzo piano.
Più tardi andiamo a comprare un po’ di verdura al Tesco-Lotus. Alcune vie sono allagate: lungo la strada si vendono barche di plastica e gommoni a 200 bhat. Per entrare al supermercato camminiamo su una passerella d’assi.

Rientrando in autobus. Memo:
1. Un cane di N., impressionante a vedersi, scheletrico, con la pelle che pende dalle ossa come un abito di molte taglie più grandi, la bava alla bocca, chiuso dentro un recinto, solo. Sta male da quando ha mangiato un rospo velenoso. Il veterinario dice che ormai non c’è più niente da fare.
2. Ancora una volta noto dal finestrino quel ristorantino-caffetteria in lontananza: Hanna&Charlie. Non so perché mi piace. Mi domando cosa cucinino Hanna e Charlie, da dove vengano. Sono americani? O australiani? E cosa ci fanno a Bangkok?
3. Dall’alto della express way scorgo nel buio, malamente illuminata, la scritta Sacred Heart Convent. Un edificio molto triste, un blocco di cemento in mezzo al niente. Ma mi colpisce. Fare una ricerca su internet, mi dico.

 

Rincasando troviamo sulla parete del bagno una grande farfalla notturna. Non capiamo come sia potuta entrare, dal momento che tutte le finestre sono schermate dalle zanzariere. N. mi dice che nella cultura thai le farfalle notturne sono un buon segno: le vedono come gli spiriti dei morti che pensano a noi e vengono a farci visita.

© Testi di Omar Cerchierini, foto di Thadsanapong Sinsumruai