Il viaggiatore libertino – di Francesco Saba Sardi

Immagine di copertina di Uliano Lucas, tratta da Il cuore dell’Africa, TCI

Mi hai detto: Per decenni hai percorso il mondo. Quali ragioni ti hanno spinto a farlo? Potrei proporre varie ipotesi. La più probabile mi sembra però che del viaggio tu ti serva per distaccarti, almeno provvisoriamente, dalla monocultura imperversante. Viaggio significa, mi pare, diversità, mentre la riduzione all’unico, all’uniforme, rende prigionieri, chiude in gabbia col pretesto del benessere generale e del progresso. Sì, tu tenti di sottrarti alla omologazione.

Ti ho risposto: Vedi, ovunque ho messo piede ho trovato i segni di una corsa all’omologazione, la brama di attingervi, e in quei racconti e cronache che sono intanto andando “compilando”, ho cercato di darne atto. Nel mondo sussistono, è vero, esigue aree di resistenza all’omologazione – direi piuttosto alla normalina, la droga diffusa a piene mani dal Potere (perché è unico, tale vuole essere, un unicum, in quanto risponde al principio di identità e tutti i singoli poteri si rifanno a un solo modello ormai da migliaia di anni): la droga, dico, dell’accettazione del Discorso, propalato, imposto, convalidato dalla tecnica, che è la colonna portante del discorso occidentale.

Hai insistito: Dunque, ho ragione. Passando di luogo in luogo, di tempo in tempo, finisci per imbatterti, volta per volta, in quelle zone di resistenza di cui parlavi. Sempre fuga, ecco cos’è il tuo viaggiare. Anzi, ogni viaggio è fuga.

Ho replicato: No, il viaggio non è sotto il segno della negatività, come non è sotto il segno della positività. Il viaggio non è ricerca di un oggetto. Quanto se ne ricava è solo un corollario. Può essere, spesso è, nostos, ritorno.

Hai chiesto: Ma ritorno a che cosa? A un luogo agognato, forse mai visto. Viaggio come nostalgia, dunque?

Ho chiarito: Nessun álgos, nessun dolore o struggente rimembranza di ciò che si è mancato, che ci è sfuggito.

Hai ribattuto: E tuttavia, sei sempre tornato a un luogo, una base di partenza, una dimora. Torni da un viaggio portando con te qualcosa. Se non altro, un altro libro da scrivere, una inedita comprensione. Una conquista, dunque.

Ti ho fatto notare: Ma no. Nessuna conquista. Atto di conquista è il turismo. Non sono un turista. E sono piuttosto intrepido, non obbedisco a predestinazioni. È vero, però, che c’è un’aggiunta di cognizioni. Sì, «Un anonimo cinquecentesco, è cosa bellissima, per aver avvantaggi in cognoscere» (La venexiana, IV 16). Ma ciò che dal viaggio si porta, una conchiglia, un sassolino, un fiore, una nozione, ne è, insisto, una ricaduta secondaria. Un corollario.

E tu allora: Ma perché viaggi, dunque?

E io: Perché non posso farne a meno. La Parola che io sono, in cui sono, è itinerante, è errante.

E tu: Ma errare è girovagare a vuoto, senza meta.

E io: Bada, è un’erranza che non è distrazione, svago. E non c’è meta, se per questo intendi traccia concreta, strada, rotta, indicazione fornita dalle stelle, astronomia, cartografia, deduzione, regola. Ancora una volta, norma.

Tu allora: Non dirmi che giri a vuoto, nel vuoto, come chiuso in uno scafandro. A questa stregua, sarebbe viaggio anche l’esplorazione extraterrestre, lo sbarco sulla luna, l’uscita dall’orbita. E in questo caso la rotta c’è, tracciata dalla tecnica più sofisticata, dal calcolo. Già, sottrarsi all’attrazione… Dunque, viaggio in negativo. Ma allora, ripeto, il viaggio è sempre fuga, evasione.

Io, allora: La Parola è erranza. La Parola è sempre itinerante. E il Discorso, che pure tenta di imporre termini – origine, finalità – alla Parola, è impregnato anch’esso di mitico, e nessuna religione può, neppure essa, sostituire interamente il suo leggendario alla Parola originaria in quanto non originata, increata. Resta pur sempre un residuo indecomponibile, l’ombra del mito, fantasma che insegue e inquieta e rende insicuri i fondatori di religioni, di favole al servizio del dominio.

Tu, scuotendo il capo: Ma Ulisse è ben tornato a Itaca! Ha cioè obbedito al richiamo, all’attrazione della nostalgia, se vuoi.

Io, alzando le spalle: Ulisse al ritorno non era più l’Ulisse partito da Itaca. Sui licci da telaio dei dogon del Mali è inciso il filo che è parola inscritta nel legno quale ruscello, fluidità, acqua di corrente. E ogni ordito ha nodi, ha ritorni, ha fermate. Ulisse riparte quasi subito da Itaca, per andare incontro a una non meta.

Tu: Come mi spieghi che gli aborigeni australiani percorressero, e forse ancora percorrono, quelle che gli antropologi hanno designato «vie dei canti»? Itinerari simbolici, d’accordo, ma pur sempre prefissati, non dunque erranze.

Io: Sì, ma l’itinerario è invenzione, non copia di presunte oggettualità. Segue forse sentieri quella che chiamiamo produzione artistica? La sinopia è forse tutto il dipinto? Lo spartito è forse l’intera sinfonia?

Tu: Però tu racconti i tuoi viaggi. Dunque, ne ricavi una messe, un significato, un senso. Il viaggio è produzione di qualcosa d’altro.

Io: No, il viaggio è il contenuto di se stesso.

Tu: Vuoi dire che il viaggio è racconto?

Io: È labirinto da accettare e disegnare, uscito o meno che tu ne sia. Inventando l’inesistente filo d’Arianna. Anche l’itinerante cacciatore paleolitico tornava, certo, alla grotta. E raccontava il suo viaggio. Viaggio iscritto sulle pareti in versione grafica e cromatica: storie di incontri, l’avventura del bisonte, dell’orso speleo, del mammut, l’avventura della freccia scoccata, della lancia scagliata.

Tu: Sicché, non ci sarebbe viaggio senza racconto del viaggio?

Io: Appunto. Gli eroi dell’epos del Sahel africano andavano, cavalieri erranti, all’avventura della favola o della saga, come quelli europei della Tavola Rotonda. E i campioni di ogni epos omerico e postomerico, vicino o lontanissimo, avevano, al loro seguito simbolico, il griot africano o l’aedo nel nostro mondo che ne raccontava il viaggio. E il viaggio è sempre ventura e magari sventura, ma senza il racconto il viaggio non avviene, non si fa vicenda comunicabile, fabulazione, salendo – o scendendo – dall’inconscio all’esposto, al detto, con l’avvertenza che comunque mai cancellerà l’inconscio, che mai lo redimerà, mai ne farà oggetto palpabile, res tra mille altre res, mai ne compirà la traduzione in termini letterali: il Residuo Indecomponibile, tale resterà.

Tu: Se ho ben capito, persino l’incidente automobilistico non ha esistenza concreta senza la cronaca, il referto, la rivelazione. È questo che vuoi dire? Ma in conclusione, perché viaggi? Perché ami il viaggio?

Io: Oh, bella, perché la Parola insegue se stessa, e la parola contiene l’irrapresentabile vuoto.