Della beatitudine. Phanes silente – di Gabriella Landini

Immagine – Niki de Saint Phalle, Face

Beatitudine, ovvero una felicità senza oggetto, senza desiderio, dimentichi di se stessi, del passato, delle costumanze, delle leggi, del futuro, del progresso, della vittoria, della perdita, della salvezza… Felicità perfetta, nell’imperituro istante, non soggetta al tempo, alle sue convenzioni storico-cronologiche, che sono le nostre categorie di pensiero razionale.
Il termine beatitudine nella tradizione starebbe a indicare una condizione rara dell’esistere, uno stato estatico contemplativo straordinario concesso solo a coloro che ascendono alla divinità o a qualche dimensione ultraumana, un particolare stato mistico o meditativo. Siamo quindi soliti considerare la beatitudine un privilegio di pochi: santi, sciamani, monaci, sadhu, religiosi, profeti, visionari, beati di ogni cultura e religione che avrebbero ricevuto il dono speciale di trascendersi, di oltrepassare la cortina delle leggi razionali che regolano le nostre abitudini di pensiero per accedere a una dimensione extralogica nella quale c’è pace, piena soddisfazione, appagamento, gaudio, e assenza di paura e dolore.
La beatitudine, dunque, come lievità straniata dello spirito, consustanziale al phanes, all’apparizione, all’illuminazione.
La connessione tra il latino fas, “legge divina”, e il verbo latino for, fari, “parlare”, fu proposta anticamente dagli stessi latini e nel secolo scorso anche da Émile Benveniste.
L’accostamento pone in relazione la nozione di “parlare” senza riferimento alla religiosità e alla sacralità che sono peculiarità del fas, valori questi richiamati pure dalla radice sanscrita bhas, “splendere”, ma anche radice del verbo parlare, che hanno appunto il significato di mostrare  la “signoria della luce” e la “maestà del divino” irradiate in cielo e sulla terra dalla luce del sole. La connessione tra fas e fari è confermata dai termini greci phē-mí, “parlo”, “dire”, e phá-sco, “affermare”, costruiti con la radice pha che è la stessa di phátos e di photõs, “luce”, phainomai, “appaio”.

La relazione fra legge divina e phanes suggerirebbe la credenza che il phanes esprima nella parola l’oggetto-verità del suo rivelarsi. Suprema manifestazione creatrice, estrinsecazione dello status nascendi  di quella che noi definiamo realtà. Segno ierofanico di origine, avvenuto nell’illud tempus astorico che si aggiorna e riattualizza con la sua entrata nello spazio-tempo. Credenza, questa, dalla quale discendono le grandi culture cosmogoniche e religiose di tutto il mondo sul creato e sull’universo. Una convinzione che sta alla base di tutte le concezioni che definiscono le invenzioni delle scoperte. Le invenzioni avrebbero un carattere aleatorio rispetto al valore di verità delle scoperte. Infatti, veniamo periodicamente aggiornati sulle nuove scoperte a proposito dell’origine della vita, dell’universo fisico e metafisico, dei pianeti, dell’atmosfera e altro ancora. Non appena queste convinzioni decadono, ne appaiono altre che riattualizzano il medesimo principio di origine. Nell’andamento di morte e rinascita che riproduce il ciclo delle stagioni.
Se però nella radice del termine phanes c’è il “dire”, l’apparire, la parola, e il legame con quell’imperscrutabile, detto “aldilà”, è pur vero che la parola non può dire se stessa senza divenire res. È in questo passaggio speculare che  la parola si reifica, si fissa, si dispone attorno a un centro producendo la forma labirinto-città, quale percorso prescritto e ineludibile dell’iniziato. Parola fondante, parola verità, già avvenuta, che non avviene e diviene, ma rivela nella meta la sua coincidenza con l’origine.
Se la vita viene concepita come organizzata attorno a un centrum, il centro si trasforma nel punto di sintatizzazione dell’unico orientamento gerarchico. Nel labirinto l’adepto sfida sempre l’antico e medesimo Minotauro, convergendo verso la semplificazione dell’incommensurabile al percorribile, al misurabile. Donde l’applicazione del principio di elezione e di selezione e la relativa idea che solo pochi possano accedere alla felicità, privilegio di “pochi” destinati bene, o più esattamente predestinati bene o male.
Gli scribi del tempio introducono il neofita al Tempo-Tempio attraverso i passaggi all’interno del labirinto, cercando nelle strade senza uscita e in quelle aventi per sbocco la tortuosità dell’ovvio, il viaggio iniziatico in cui la guida rende “prove” i varchi, e svelamento della verità la meta, per trarne cultura condivisa: il noto, il sicuro e protetto non esposto all’imprevedibilità dell’altro.
Se la vita non si delinea in riferimento a un centro, invece, ciascuno dei punti diviene emanazione culturale significativa.

La beatitudine non appartiene alle religioni, ed esperirla non è appannaggio esclusivo dei mistici: anzi, lo stesso misticismo non fa che mostrare le falle del razionalismo per rifondarlo e ribadirlo.
I mistici, durante la meditazione estatica, ricevono la ri-velazione, riconoscimento di un segno potente che torna nella sua imponderabile difformità di non poter essere mai colto del tutto, scacco del pensiero razionale che pur avendo imposto una rivelazione come sicurezza consolidata e protezione superlativa, religiosa o scientifica che sia, trova nel mistico il suo custode di frontiera. Le certezze sistemiche mostrano sempre il loro scarto secante, mostrano l’impossibilità di esaurirsi in se stesse come controllo della vita e della morte.
Siamo soliti considerare la beatitudine, la felicità perfetta, stato mistico per eccellenza, una beanza da folli, da straniati, meditativi, asceti, allucinati, strani tipi in contatto con entità ultra o extraterrene, a seconda delle credenze e delle culture. La pienezza dell’appagamento estatico, nel contesto della fede, è una felicità destinata solo ad alcuni eletti, segnati da carismi, quest’ultimi considerati qualità esclusive e non diffuse. Nello stato di grazia, solitamente, i “beati” riconoscono ciò che attendevano di vedere in quanto verità conosciuta e da ri-conoscere. Inoltre, anche nelle culture non strettamente religiose, la felicità è tradizionalmente considerata una momentanea parentesi illusoria nel continuo permanere della sofferenza. Anzi, la gioia trova nel dolore e nella mortificazione il suo superamento, il suo meritato e perseguito premio.

Ma questo è esattamente il caso in cui l’evanescente phanes cessa.

Il phanes infatti è silente, proprio perché la parola non può afferrarsi dicendosi: appare per restare inafferrabile e indefinibile. Il dominio della parola, causa prima e ultima, è negazione della beatitudine, del silenzio, a favore del chiasso, della violenza, dell’oppressione, dell’infelicità prescritta, della sofferenza glorificata come qualità di vita.
Differentemente da quanto è stato e viene rappresentato, il gaudio sublime non è uno stato di esaltazione, un’uscita da sé, come solitamente si ama considerarlo. Semmai, anzi, è un’uscita da una schematologia di contraddetti di ordine razionale, secondo cui quanto è posto fuori da una categorizzazione sancita a priori, sarebbe la sua negazione o il suo contrario.
Lo stato di grazia è altro da ciò che potremmo definire razionale o irrazionale. Il caos, oppure l’informe, rispetto all’organizzato, al disciplinato, è un “fare altrimenti”, un atto che procede dal sentire.

La beatitudine, la suprema felicità, dunque, sarebbe tutt’uno con il phanes. E a differenza di tutte le rappresentazioni che ne sono state date, è semplice, gode dell’immediatezza dell’attimo, e ci riconsegna a quell’originario che non possiede un punto scatenante di inizio causale. Resta un istante imponderabile non attribuibile al tempo, alla sua scansione, alla sua misurazione.
Beati sono detti anche i fanciulli, dunque beati siamo anche noi quando ancora non veniamo calati nella temporalità del calendario. La pace olimpica sospende il tempo storico, la concezione di progresso, miglioramento o successo, che è movimento della tradizione, del passato, di quello che crediamo essere il conosciuto a confronto con lo sconosciuto. La pace paradisiaca riguarda essenzialmente il dimenticare, la dimenticanza.

La beatitudine non appartiene al tempo, è uno stato di silenzio. Silenzio che è ascolto. Non ascolto di qualche cosa. È ascolto della vita nel suo farsi, vivendo. L’eternità dell’istante.
Nella beatitudine morte e vita non sono più nettamente divise, e se la razionalità è una rassicurazione a favore dell’idea di immortalità, la beatitudine apporta la sensazione che la morte c’è, ma non è un’entità da sconfiggere o da dominare, da fare propria fino a produrla o darla, perché  appunto c’è, ma non è a discrezione di una divinità distribuirla. La morte c’è, senza intenzione e volontà alcuna. E dunque non è assumibile come fantasma del potere, proprio o degli altri.

La beatitudine appartiene al sentire, e nella parola stessa sentire sta l’indeterminatezza di tutte le parole che abbiano un significato a noi noto come categoria misurabile e razionale. La razionalità come processo di scongiuro e argine della paura diviene a sua volta professione, e messa in opera della paura stessa. Proteggersi dalla paura è assumere la paura.
La beatitudine non andrebbe intesa come un’eccezionalità, ma in quanto stato di intensità del sentire la vita; per questo molti parlano di condizione di pienezza, di appagamento, senza volontà, desiderio o altro. Senza, cioè, tutte quelle categorie che sono proprie del controllo del pensiero razionale e che, quindi, si riconnettono a tutte le forme di potere.

La beatitudine è abbandono in una simultaneità di solitudine e silenzio come condizione di non appartenenza. Silenzio delle nostre categorie di pensiero, delle nostre consapevolezze razionali e discorsive, un certo non essere attaccati a niente: il distacco. Porsi in ascolto d’altro. Lì, c’è phanes. Lì, c’è beatitudine.
La beatitudine è avvertire l’assoluto della vita in quanto tale.