Saluti dall’isola Elefante- di Omar Cerchierini

Isola Elefante

Immagini di Thadsanapong Sinsumruai

 

Saluti dall’isola Elefante

15 luglio
Kho Chang

Cinque ore sul van da Bangkok fino a Trat – io mi lamento di continuo per il sedile scomodo e il sobbalzare a ogni dislivello della strada, sbuffo. N. mi dice: “Dobbiamo stare qui cinque ore e il fatto che tu ti lamenti non rende il viaggio più breve o più comodo. Prova a fartelo piacere, e starai meglio”: è una piccola lezione di buddismo? – e poi mezz’ora di traghetto da Trat fino alla costa nord di Kho Chang, l’isola Elefante, così chiamata per la sua forma che ricorda il venerato pachiderma.
Sbarchiamo alle tredici, sotto una pioggia calda, il cielo mobile e scuro, la nebbia bianca che nasconde le cime delle montagne. Dopo pranzo, rischiara e noleggiamo una moto, intenzionati a raggiungere una cascata sull’interno. Ma è tardi, non si può più andare perché la pioggia ha fatto innalzare il livello dell’acqua. Vediamo gli elefanti, tenuti in cattività ed adoperati per lo svago dei turisti. Sul loro dorso si può attraversare un tratto di jungla e raggiungere il fiume. Provo un senso di pena profonda davanti a questi grandi animali incatenati, che con una certa delicatezza allungano la proboscide per prendere una banana dalle tue mani. Questa pena è certo per le catene che costringono il piede al palo, ma è soprattutto la pena di vedere un animale privato della sua animalità: lo si vuole rendere domestico, vicino, mansueto come un cane – mentre con una zampa potrebbe schiacciarci la testa, e farne poltiglia.

Ore 18
Piove, lungamente, fittamente. Seduto sotto al portico del bungalow, guardo la pioggia cadere sulle grandi foglie dei banani, sulle palme, sulle calle e le orchidee che abbelliscono l’aiuola davanti alla porta.

Leggo l’epistolario dall’Africa di Karen Blixen. Le lettere centrali per importanza e per bellezza mi sembrano quelle non finite, ma spedite al fratello (sotto la dicitura ‘PERSONALE’). Se nelle lettere inviate alla madre è maggiore l’autocontrollo – nel senso della premura e cura di non turbare la madre anziana, anche non dicendole ciò che non vuole sentirsi dire – in queste lettere al fratello si parla in piena libertà, e da dentro un grande dolore. E quindi, al cuore: chi sono io, il fallimento, il bilancio di quarant’anni di vita. (In effetti se i vent’anni sono ancora il tempo della ricerca e della scoperta, i trenta del mettere a frutto e del costruire, allora a quaranta si può cercare di trarre un bilancio.)

“Per me, da tanti anni, la vita era una battaglia per restare a galla o per
superare qualche difficoltà. Quello che in passato, rispetto al mio destino, mi
aveva molto addolorata era quasi sempre che non mi sembrava di essere diventata
ciò che dovevo diventare… Ho o non ho fallito, io, di fronte a me stessa e
dal mio proprio punto di vista?”

(E quando io parlo di fallimento e di libertà, dovrei pensare meglio al rapporto che c’è tra i due concetti. E dovrei soprattutto dirmi che la mia smania di affermarmi e di riuscire è stata un vincolo serio alla libertà del creare scrivendo. Mi viene in mente la storia zen in cui il maestro calligrafo riesce a tracciare le cinque parole che deve scrivere sono nell’attimo in cui “la sua mente fu libera da altri pensieri”…)

Poi osservo un ragno giallo e nero, grande come una mano, che se ne sta immobile nella sua caccia fatta di lunghe attese al centro della tela, ampia come una tenda, tessuta nel portico del bungalow vicino.

16 luglio
Kho Chang

Stamattina nella jungla fino alla cascata di Khlong Phlu – anche se si tratta di una jungla un po’ addomesticata, all’interno del parco naturale, con sentieri ripuliti e segnati e staccionate cui aggrapparsi, l’impressione (di rigoglio fervido, incontrollato) nel fitto inestricabile della vegetazione, nello stillare delle goccie d’acqua dalle foglie, sulle palme, resta notevole. Soprattutto il caldo umidissimo, che ti investe come fosse un alito, il respiro stesso della foresta.
Dopo aver camminato ed essere saliti per circa 400 metri, arriviamo alla cascata, molto bella, violenta nello scroscio bianco delle acque tra rocce scure come lava – ma per me resta prevalente il fastidio per i turisti, che nuotano in acqua, si fotografano arrampicandosi anche nei punti più percolosi, e schiamazzano di continuo. Schiamazzi nella jungla: potrebbe essere il titolo di un b-movie definitivamente trash sull’idiozia del Turista Occidentale (dico Turista, ma dovrei dire Uomo?)…

Ancora, nelle lettere della baronessa Blixen:
“Di tutto cio che posseggo, la cosa a cui do più valore è la mia liberta; l’ho
pagata col mio essere priva di legami, lo so, e ogni tanto ciò mi pesa molto.”
Per me, invece, esiste un legame tra N. e la mia libertà. Se sono qui, è anche perché N. è un propulsore della mia libertà. A che cosa ho rinunciato, io, per avere questo? Certo, a molto – e, tra le altre cose, all’approvazione ed al consenso di chi mi sta vicino (per non parlare, poi, della comprensione). Ma non è ancora abbastanza, se l’unica libertà sta davvero nell’abbandono.

Qui è possibile noleggiare una moto anche senza patente, basta fornire un documento e si può girare pure in tre su una sella, senza casco… C’è quella libertà delle isole, quasi fossero una zona franca, un mondo a sé, sospeso – sull’isola di Samet, più che qua, anche quella sensazione di eros ibrido e senza regole (io al tavolo con cinque ragazzi mezzi nudi, ubriachi, che ballano e hanno tutti dieci anni meno di me)…

Isola Elefante

17 luglio
Kho Chang

Al mattino ci spostiamo in moto verso zona est dell’isola, per lunghi tratti ancora disabitata. Un serpente verde smeraldo ci attraversa la strada e copre in lunghezza una corsia e mezzo. Mi resta un po’ un senso d’inquietudine, quando arriviamo al parco nazionale e per raggiungere un’altra cascata, quella di Than Ma Yom, dobbiamo attraversare il parco, tra rocce, piante folte che si arrampicano, ricadono, fioriscono, si intrecciano. Qui non c’è nessuno. La foresta è silenziosa. Guadiamo il fiume aggrapandoci a una fune.

Nel pomeriggio in sella a un elefante, nella jungla (ovviamente non profonda). All’inizio io e N. siamo piuttosto spaventati, per essere a due metri d’altezza, dondolando da una parte all’altra sulla portantina, ma la cosa più impressionante è capire poi come questi miti animali si muovano con premura e grazia sul fango scivoloso, tentando il terreno con l’enorme zampa prima di affondarla, riuscendo a discendere per sentieri ripidissimi o ad inerpicarsi tra i massi di uno stretto ruscello.
La paura dell’inizio diventa quindi un lasciarsi cullare, affidati infine a un’idea di forza possente e insieme mite. Il guidatore cavalca la testa dell’elefante, che lo aiuta a salire sollevandolo da terra sulla proboscide.

Grande spavento nuotando nel pomeriggio, tra onde molto alte. Sventola infatti una bandiera rossa di allerta. All’improvviso la forza di risacca delle onde ci trascina lontano dalla riva. Sento la sabbia sotto i piedi che viene portata via. Mi tengo a galla tra le ondate che mi buttano avanti e mi riportano più lontano. Cerco N. con lo sguardo e lo sento che mi dice “Non ce la faccio”. Nuota infatti malissimo, e non sa tenersi a galla nel terrore dell’acqua alta – e ora non tocca più. Cerco di avvicinarlo, mi immergo e per due volte, con tutta la forza che ho, lo sospingo avanti con le braccia, facendomi forza con le gambe. “Move your legs!” gli grido. Sono cinque minuti molto brutti. Vedo il terrore sul suo viso. Lo sento che tossisce e beve. Ma riusciamo a tornare dove l’acqua è bassa. Siamo spossati, i muscoli tremano. Lui dice che se fosse stato da solo sarebbe senz’altro annegato.

Poi, cena sulla spiaggia: barbecue di gamberi e granchi, birra ghiacciata. Ghirlande di lampadine tra le palme. Domani già dovremo rientrare, con il traghetto delle undici. C’è come un velo di malinconia negli occhi di N., mentre torniamo al nostro bungalow, lungo il sentiero tra i banani. È come se mi dicesse che già sa cosa lo aspetterà domani – il tempo delle scoperte, delle visite, delle sorprese che l’ozio della vacanza ti dona, sarà rimpiazzato dalle corse sulla metro per arrivare in tempo al lavoro. Ma per adesso, seduti sotto al porticato, fumiamo ancora una sigaretta, ascoltando il canto delle rane nascoste nel buio, tra le palme lucide di pioggia, sotto questa grande luna bianca.

©Thadsanapong Sinsumruai