La fisica e l’immaginazione – di Marco Delvecchio –

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Questa avventura vede la propria partenza in un momento di qualche secolo fa, quando un relativamente sereno uomo che abitava il centro dell’universo si percepiva creatura quasi divina, in terra come in cielo. Freud, qualche tempo più tardi, fu il primo a parlare di grandi ferite narcisistiche che l’evoluzione culturale del mondo occidentale moderno comportò, proprio a partire da quel momento di centrale staticità. Con la rivoluzione Copernicana infatti, questa umanità dovette ricredersi circa il piedistallo sul quale poggiava, il quale si rivelò periferia di un universo non certo concentrato sugli abitanti di quel paradisiaco ma remoto pezzo di terra. Questo uomo allora dovette “ri-dimensionarsi”, e accontentarsi di essere, come anche la Bibbia suggerisce, l’amato figlio di Dio, custode supremo della vita sul suo pianeta. Assorbita la frattura, arrivò però presto Darwin, il quale raccontò che la creazione del prediletto figlio non era affatto diretta forgiatura divina, bensì l’esito dello sviluppo di un ramo tra altri, semplice differenziazione di una filiera biologica senza troppi privilegi. Che smacco: un neo bipede implume sublunare. Però, questo uomo, senza perdersi d’animo, capì che nonostante tutto, la sua specificità e grandezza poteva stare nelle sue capacità, nella sua intelligenza. La ragione, qualità unica, in grado di osservare e rendere intelligibile il reale, di manipolare e trasformare il mondo, plasmarlo, a suo piacimento e servizio, un po’ come se fosse dio a sua volta in fondo, attraverso un linguaggio che è lo stesso linguaggio dell’universo (straordinaria coincidenza!). Divenne talmente forte questo sentire che si parlò di “positivismo”: il progresso scientifico, che apparentemente poggia su pilastri cristallini ed eterni, avrà da quel momento un avanzamento senza soluzione di continuità. Eureka!

Ma a guastare le feste arrivarono proprio Freud e la psicanalisi, che portarono al fideistico scientista del diciannovesimo secolo d.C. la consapevolezza che non è la ragione a controllare la vita: c’è un inconscio, esiste l’ombra. E così, insieme alle scoperte scientifiche dei primi decenni del ventesimo secolo (principio di indeterminazione, meccanica quantistica) l’episteme sfuggì definitivamente di mano. Il linguaggio del reale non è più il linguaggio dell’uomo. L’intelligibilità dell’universo si rivela una chimera. Il dualismo della visione meccanicistica (quella dell’universo come un tavolo da biliardo con biglie distinte che inter-agiscono toccandosi e spingendosi deterministicamente), e il dualismo intrinseco del linguaggio che conosciamo, paiono non essere più adeguati a indagare e controllare l’universo. C’è un momento di smarrimento. Si capisce che qualcosa non è più come prima. I fisici vanno in oriente a cercare altri linguaggi possibili presso i grandi meditatori indiani o del mondo taoista, per trovare una possibile interpretazione, anzi una possibile chiave, per spiegare le apparenti assurdità presentatesi ai loro occhi. C’è un’atmosfera di sospensione, perché, contemporaneamente, e per certi versi forse più per motivi strumentali, questa visione positivistica in verità continua, e lo fa grazie al fatto che nel mondo macroscopico, la tecnica, il fare e il costruire, invece, perpetuano la narrazione della grandezza di questo uomo. Anche se l’episteme è perduto, i risultati della tecnologia parlano chiaro. Insomma, ancora una volta, alla ferita narcisistica si avvicenda una diversa percezione di sé, del proprio ruolo e delle proprie possibilità. Dalle glorie della tecnologia non si può pensare che questo uomo non abbia comunque anche un ruolo e una capacità di privilegio: grazie al suo saper fare.

Molto presto, questa fase, ancora in fieri ai giorni nostri, raggiungerà il proprio culmine.

Con l’arrivo della intelligenza artificiale (AI), di cui vediamo sempre più chiari i prodromi (si vedano nella vita quotidiana i suggerimenti dei motori di ricerca, le azzeccate segnalazioni di noti siti di acquisto sul web, o l’elaborazione dei big data già efficacemente esercitata con fini manipolatori più o meno borderline), l’uomo dovrà affrontare ancora una volta un confronto assai difficile. Si sentirà di nuovo pulce di fronte al gigante. Forse di più. Tutto ciò che è competenza tecnica o artigianale, competenza relativa al “faber” di questo homo, competenza realizzativa di ogni qualsiasi costruzione strutturata o sistemica in senso lato, sia che essa si riferisca al mondo della materia che al mondo delle astrazioni (quello del fare regole, codici, procedure, algoritmi, sistemi coerenti), ebbene tutta questa competenza sarà esercitata, meglio, più efficientemente, più velocemente, e in quantitativi talmente enormi da essere difficilmente immaginabili, dalla intelligenza artificiale. Dobbiamo per fare un esempio immaginare che l’esperienza lavorativa acquisibile in una vita di attività professionale da migliaia di medici (il numero è puramente indicativo e sicuramente sottostimato), sarà raccolta ed esercitata, in un battito d’ali, da un software. Dobbiamo immaginare che il percorso di sviluppo tecnico che decine di migliaia di ingegneri hanno affrontato, in decenni, per arrivare, per fare un esempio, a realizzare le navette spaziali che vanno su satelliti o pianeti, possa essere ricondotto ad un lasso di tempo brevissimo: minuti, forse secondi. Il colossale prodotto della intelligenza artificiale può essere anche capito in questi altri termini: in un giorno solo si potranno produrre documenti, informazioni scritte, analisi, disegni o schemi, in una quantità tale da essere migliaia di volte numericamente superiori a quanto in tutta la storia dell’umanità si è scritto fino ad oggi. In un giorno solo, sì. Dobbiamo in ultima analisi immaginare questa potenza come qualcosa la cui percezione è oggi ancora difficile da avere.

Cosa può l’homo sapiens sapiens di fronte a tanta immensità di capacità? Sicuramente, non potrà che abbandonare l’amato scettro di creatura faber del creato. In altre parole, diventerà chiaro che non è caratteristica precipuamente distintiva di questo uomo quella di essere nell’universo colui che smonta e rimonta il reale a suo piacimento, realizzando e costruendo, con la tecnica e con le tecniche, il mondo materiale e le sue metafore numeriche. L’intelligenza artificiale lo farà tanto meglio da far apparire il prodotto dell’uomo fino ad ora realizzato come la brutta copia di quella che è veramente la dimensione “faber” nell’universo: una dimensione non sua qualità, bensì della AI.

Un’altra immensa ferita narcisistica per il nostro bipede.

Se però guardiamo meglio la travagliatissima storia di questo uomo, non possiamo che rilevare che ogni qualvolta il nostro eroe si sia scontrato con un suo limite, anzi con una vera e propria mancanza di cui ha preso coscienza, si sia però imbattuto in un terreno nuovo, guardando là dove le proprie qualità forse non erano state ancora chiaramente individuate, tanto era distratto dall’intrattenersi ad occupare una posizione apparentemente più nobile, ma in definitiva, non sua. Se con la rivoluzione Copernicana aveva guardato al suo ruolo apicale su questa Terra, se con la rivoluzione Darwiniana si era rivolto alle sue indiscusse capacità e a quella intelligenza che lo rendono comunque protagonista in questa vita, se con la rivoluzione della psicanalisi, oltre che gettarsi nell’euforia dei risultati della tecnica e della tecnologia, per il bisogno di una visione più completa di sé ha cominciato a guardare anche ad altri lati della sua intelligenza, come quella emotiva o intuitiva, ora, con la rivoluzione della AI, quale sarà lo spazio che potrà riservarsi? Ma soprattutto la domanda che qui ci poniamo è: rimarrà qualche spazio?

L’opinione di chi scrive è che questo spazio c’è, eccome. Non solo, il brodo culturale su cui si potrà innestare è già pronto e confezionato, da quasi cento anni, e forse non a caso è un brodo che ancora non ha fatto attecchire una nuova cultura diffusa, essendo quest’ultima ancora molto assorbita da quel neopositivismo che si poggia sulla (apparente) evidenza della “potenza della tecnica”. Questo terreno culturale è proprio quello della rivoluzione quantistica. La meccanica quantistica non è solo una teoria fisica che riguarda esperimenti di laboratorio distanti dalle nostre consuetudini. È l’ultimo passo di un meccanicismo che ha spinto se stesso oltre le colonne di Ercole e ha varcato la soglia della propria (in)comprensione. È la visione del mondo che esce da casa propria, e guardandosi da fuori scopre che nulla è come sembrava fino ad allora. È un mero cambiamento di paradigma. Di paradigma, sì, per il quale sul tavolo del biliardo del mondo reale non esiste più la biglia che va a destra o quella che va a sinistra, eventi alternativi gli uni agli altri, che possono avvenire a seconda di una logica causa, bensì esistono eventi compresenti gli uni agli altri. E qui la faccenda apparentemente si complica: il nostro linguaggio usuale, almeno per ora, è meccanicistico e dualistico, e quindi fatica a spiegare un fenomeno che non lo è. Parlare di com-presenza è addirittura scorretto: l’essere in realtà non è la biglia di destra e contemporaneamente quella di sinistra. Sono proprio le alternative che cadono e perdono di senso. La biglia è una sola, non duale. La realtà non è fatta di una convivenza di distinti eventi. La realtà è ben più della compresenza di più facce: è un unico essere, intrinsecamente infinito nella sua continuità ontologica, ma che ha in sé, in potenza, l’esplicitazione nelle mille possibilità (e parole) del mondo degli eventi. Questi eventi, i multi-eventi dell’uni-essere, sono pronti ad essere rivelati: nell’atto di quella che normalmente definiremmo osservazione. La singolarizzazione di un evento avviene solo attraverso una interazione di mutua ontologica compenetrazione tra soggetto e oggetto, o meglio, tra quelli che normalmente definiremmo tali. L’oggetto, e quindi l’oggettività come la abbiamo sempre intesa, dunque non esiste più. Soggetto e oggetto, in barba a due mila e passa anni di separazione attuata da una cultura aristotelica, sono intesi intimamente fusi. Il primo esiste solo col secondo. Il secondo esiste solo insieme al primo. La realtà diventa intima connessione, o meglio fusione, tra il fu soggetto e il fu oggetto, del tutto estinti come enti distinti e distinguibili. Fusi nell’atto e fusi nella potenza. L’atto, di conseguenza, si fonde con la potenza. L’essere diventa, in ultima analisi, un’intima infinita indeterminatezza. Ma il tavolo da biliardo come ambiente nel quale questa complessa pièce si svolge invece? Anche questa, idea superata. Non esiste più un palcoscenico, separato, asettico, sopra il quale la vita si svolge. Esiste una sovra-connessione, unitaria, sincronica (leggi fenomeno dell’entaglement). Ci sono co-eventi, reciprocamente irraggiungibili nello spazio, che co-evolvono, ma senza bisogno di parlarsi, senza comunicare, senza interconnettersi. È l’espressione di una realtà che non è fatta di interazioni, ma di sincronie. Non c’è quindi nesso separatorio che distingua la causa dall’effetto. La realtà è unitaria: è l’Uno- tutto! Anche il concetto di tempo, a cui si lega la sequenzialità di eventi, vacilla: una mera percezione semplificatoria e riduttiva per renderci intelligibile il mondo. Meraviglia, questa della fisica quantistica, che ha già un secolo di vita. E l’intelligenza artificiale? La AI non ha queste dimensioni. Eccoci la risposta dunque. La AI ragiona in maniera deterministica, separatoria, meccanicistica, connettiva, per quanto impressionantemente potente. Un modello non può che restituire un sapere che proviene dalle sue premesse. La metafora matematica del mondo non può uscire dal proprio paradigma, coerente ma incompleto. E l’uomo dove si può collocare dunque? L’uomo, ormai, diciamolo, homo sapiens sapiens sapiens in questa prospettiva, potrà finalmente abbracciare la consapevolezza che non è l’attività di “elaborazione delle informazioni o delle parole” e conseguente “realizzazione delle cose” il suo tratto distintivo. Anzi una tale attività potrà e dovrà lasciarla alle grette macchine e ai gretti, per quanto estremamente complessi, meccanismi di AI. La sua precipua peculiarità allora quale potrà essere? Quella di immaginare. Immaginare! L’immaginazione, la qualità cioè non tanto di smontare la realtà e ricostruirla, ma di deformarla, distorcerla e ri-generarla, ogni volta con elementi nuovi, indeducibili e non presenti nelle elaborazioni pregresse. Indeducibili, e per questo sfuggenti e incomprensibili a priori alla AI. L’immaginazione dunque come motore primo della evoluzione e delle evoluzioni, e la AI come braccio di forza, realizzativo, dalla potenza smisurata. Una immaginazione facoltà profonda di vedere e indagare, in perfetta sintonia con quell’Uno non duale di cui si diceva. La facoltà di generare nuovi paradigmi, di uscire dalle visioni, di accorgersi dell’oltre, dell’invisibile, di quello che è, contemporaneamente e insieme a quello che non è, intimamente fusi e contigui. Una visione da facoltà endogene, non riproducibili all’esterno. Dal mondo della poderosa ma discreta complessità, della allegoria consegnata dal linguaggio separatorio e differenziante, della visione della logica dell’ “Aut Aut”, a quello della infinitezza della continuità, dell’indistinzione, dell’indistinguibilità delle scale spaziali e temporali, della contaminazione tra intelligibile e non intelligibile, della magnificazione delle apparenti incongruenze e incoerenze, la visione della logica dell’”ET”, pregnante nella potenza e multi-semantica nell’atto. Il potere dell’olismo di visione, che abbandona quello della muscolare, coerente ma frammentaria visione di dettaglio.

L’immaginazione. Sarà questa l’avventura, non solo conoscitiva, di questo uomo prossimo.

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