SCACCO-CADABRA “Io sono colui che sarà” – di Ivan Dall’Ara

Sul quadrato bianco di una immensa scacchiera, scalpita il Minotauro, il torso nudo e la faccia nera di toro.

Lo zoccolo scalcia la catena del “se, allora”; ogni mossa è cieca, e schiuma di rabbia.

[Lo stallo]

Un’energia che non si spende ti stringe e ti consuma.

 

 

Sulla prima casa della diagonale nera si scorge una piccola fotografia: ballerine blu incollano due piedi di donna ad un cielo ormonale, accanto, un pino marittimo e la bianca striatura di lumaca.

[Prima regola del muovere]

Tra il diritto e il rovescio trovi l’uscita.

Quando muovi vedi e togli tutte le suddivisioni.

Ascoltare è un’inclinazione all’altrove.

Da una casella all’altra devi dimenticare.

La mossa del gioco si alza dal piano.

Il vincolo è l’intero che ti avvolge e lo senti andando.

Appena ti fermi vedi solo lo spezzato per singoli quadri, in un quadrato più grande.

 

 

Potresti intuire le gambe rovesciate all’insù e inerpicarti sullo sfacciato femmineo. Oppure, all’ingiù, invertire l’asse per fissarla sospesa, il riflesso di un’altalena su uno specchio lacustre.

[L’arrocco del sé]

Ogni immagine di sé è smentita. Cosa resterà di me?

 

 

Dal diritto al rovescio, dal sotto al sopra, il giogo-ambivalente si sgretola, nello iato dove il neutro scorre inconsapevole, tra l’errore e la sua virtù, uno scarto dalla mossa prescritta, lungo le tracce di uno scroscio di acqua e il rosso pigmento della vite, finalmente muove l’Altro-sè.

[La mossa di aperto]

Dopo tanta bellezza voglio stare qui. Non torno.

 

La Donna=Giraffa si libra sul piano inondata di luce, gli occhi estasiati e distanti.

 

Dal collo maestoso un ventaglio di sospiri, appena increspati, scende ai bordi di un grande letto, come spuma sull’onda.

Nel labirinto cangiante dei drappi, ogni amante scosta in eterno il velo del proprio desiderio senza mai vincerla per l’intero.

[Seconda regola del muovere]

Un desiderio di possesso ti incatena. L’incanto ti spossessa.

 

 

Il ragno, sotto il piano del gioco, tesse il segreto della sua gabbia: “dimmi che anche tu hai paura che saranno i giorni più tristi della tua vita, e non ti lascerò mai più”.

“Uscir da te, è come farlo da un incantesimo.”

“E il tuo andar via è la catena della mia maledizione.”

[Terza regola del muovere]

L’incantesimo è tessuto con il filo della paura.

L’incanto è l’azzardo a quel tutto di ignoto che sempre ti attende se cogli l’incontro.

 

 

Ripetere la mossa è inchiodarla allo specchio.

L’orma crepita al centro, uno sfaldarsi bagnato di rami secchi, domande trite di antichi muschi, zoppe di rugiada ormai stagna che punge il piede e non dice.

Il passo si arresta sospeso, atteso declivio, si annuncia e non dice.

Annusa le dita, un’eco di tana, sicura.

Poi, ancora fuori.

Si affaccia, azzarda la discesa-attesa, rompersi l’asse del passo già scritto, scivolare la falcata mai calcata, asciutta di ogni ristagno.

 

E scacco=cadabra, “io sono colui che sarà”

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