La Favola. Le Favole – di Gabriella Landini

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Raccontare favole è un piacere narrativo diffuso in tutto il mondo. La vastità della superficie del globo è percorsa da infiniti rivoli affabulanti, che si inseguono, si rincorrono, si perdono, si intrecciano, in molti casi si confondono fino a perdere il confine tra il fantastico fiabesco e il moraleggiante favolistico. Personaggi improbabili, animali usciti da fantascientifiche immaginazioni si attengono a predicazioni morali degne della migliore tradizione, da Esopo a Fedro a Tolstoj, mentre storie di umani troppo umani sfociano nell’assurdo iper-reale ammantato di saggezza. Chissà! La mitologia popolare praticata su Internet e narrata virtualmente, di carattere breve o brevissima, con protagonisti se stessi, dove potrebbe essere collocata? Forse le verrà assegnata un posto del tutto speciale nella cronachistoria della civiltà. Il KaosMos post-like sarà favola, fiaba, saga, epopea, storia, cronaca?                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Per convenzione letteraria si vuole che la favola sia un genere a sé, distinto da suoi affini per tipologia; però a sua volta la narrazione etimologica ci rende edotti in merito. Non va dimenticato che fino al XVIII secolo non si sono fatte nette distinzioni di genere, tanto che i miti dell’antica civiltà greca e romana potevano essere annoverati fra le favole.

«Favola» deriva dal termine latino fabŭla dal verbo for, faris, fatus sum, fari, dire, raccontare. Non da meno la fiaba, che oggi si è soliti distinguere dalla favola, ha la stessa radice: flaba, da fabŭla. Il termine latino «fabula» indicava in origine una narrazione, prevalentemente breve, in prosa o in versi, di fatti inventati, spesso di natura mitica o leggendaria. Essenziale è che essa racchiuda una verità morale o un insegnamento di saggezza pratica e che vi agiscano (a volte insieme a uomini e dei) animali, o esseri inanimati. Di fondamentale importanza è che i protagonisti, antropomorfi o no, siano sempre delle tipizzazioni e quasi stilizzazioni di virtù e di vizi umani. Va fatto notare che non di rado l’animale perde, e sempre più frequentemente quanto più ci si avvicina alla contemporaneità, ogni caratterizzazione peculiare, diventando semplice pretesto per introdurre un monito morale o un proverbio. È difficile distinguere la favola dall’apologo, se non forse per il fatto che in questo possono agire anche solo uomini e il fine morale è assolutamente predominante, sì che non si ha neppure il tentativo di personalizzare i protagonisti; similmente è difficile distinguere l’apologo dalla parabola, se non per il fatto che quest’ultimo termine è ormai riservato agli apologhi evangelici.

Si scorge in questo avvicendamento di significati e classificazioni una traccia del cammino della favola.Nella sua accezione più antica, favolare indica l’atto del raccontare. La favola affonda, dunque, le sue radici nel mitico, o meglio nella capacità mitopoietica che caratterizza l’uomo e che sempre appare, così come appare la parola.L’ambito che potremmo chiamare del mitico-originario, che è condizione di ogni forma poetico narrativa, è cioè che permette al mito di restare infondante e simbolico. Tutti i miti delle origini delle culture ritenute pre-civili o non civilizzate esprimono un’idea della nascita, della vita e della morte senza pretese realistiche e di conoscenza, senza la velleità di afferrare una qualche verità ipostatica, sono racconti orientativi e che regolano l’essenziale della relazione del gruppo e con l’ambiente circostante. Spesso si parla a questo proposito di cosmogonie, ma è improprio. Sono racconti questi, strettamente legati all’itineranza, alla caccia e alla raccolta, e si svolgono atopici nell’atemporalità. L’hic et nunc è sempre in atto, ma è al contempo situato altrove, è da un altrove che si procede e verso cui si va. Quello che è stato definito il tempo del sogno è ciò che produce l’emergere delle narrazioni. Ed è così che il narrar parlando avviene danzando, dipingendo, musicando, giocando, lottando, percorrendo sentieri che non dividono nettamente il sogno dalla veglia. La parola originaria non si presta a divenire res, è indomita esposta al sacro; sacrum che non viene colmato da rappresentazioni e da divinità. Rimane ambito indefinito, aperto, allusivo, enigmatico esposto alla meraviglia, al sorprendente, all’immensità. Nella nostra cultura razionale e civilizzata questo aspetto irriducibile dell’esistenza viene chiamato poesia (nell’accezione più vasta del termine), e arte.

Il ruolo della razionalità rispetto al mitico sarebbe di negarne l’incessante sorgività a favore della decretata scomparsa dell’originario per avvenuta datazione del punto-momento di origine. L’origine certa al posto dell’originario indefinito e indefinibile. L’atemporalità si trasforma in tempo cronologico linearmente e circolarmente misurato e misurabile. Ed ecco che la favola da narrazione fra narrazioni, si fa fola, finzione, rispetto a un racconto che si fa storia della verità. Il mito (sempre aleatorio, vago, mai letteralizzante), decade per cedere il passo alla mitologia che è vicenda di personificazione di dei. Logia che organizza la realtà, anzi, la crea, la istituisce decretando e prescrivendo a cosa credere o meno. Il racconto, mi-teo-loghia si fa testo-verità rispetto al quale la favola si discosta per esserne una forma piacevolmente esplicativa. La morale alla quale fa riferimento è quella della verità indiscutibilmente già rivelatasi e alla quale ogni narrato deve obbligatoriamente fare riferimento. Va detto che quando un mito creduto, come nel caso della mitologia greco romana e relativo paganesimo, decade nella sua veste di religione ufficiale (ragione metafisica che giustifica l’esistente), finisce per essere relegato a ruolo di favola. In altre parole, favole e testi sacri sono notevolmente frammisti, spesso da risultare indistinguibili. Nel corso dei secoli i fautori dei testi narrativi religiosi hanno tentato, con ogni mezzo, spesso cruento, nell’intento di incutere timore) di separare i due momenti. Di dichiarare cioè la verità dei dogmi, comprovata dall’indiscutibilità dei dogmi stessi e confermata dai testi e dalle pratiche giustificative, glorificatrice e celebrative. E in pari tempo, decretando l’inattendibilità di altri testi, concresciuti dalla stessa radice, ma squalificati come mere invenzioni. Laddove tali non sarebbero le affermazioni dei dogmi, frutto come si è detto di rivelazioni celesti, di discese di angeli o divinità, irresistibilmente impressasi nel cuore e nella mente dei credenti.

La favola, qualsiasi favola- presuppone l’esistenza di poteri antropomorfi e di potenze metafisiche ( spiriti, esseri fatati, animali parlanti, capaci cioè di azioni precluse ai semplici mortali), a volte di divinità vere e proprie dotate di qualità particolarissime, conosciute e attribuite loro da un intermediario-sacerdote. Risulta soprattutto palese che è impossibile separare la favola dai miti fondativi di una cultura. La separazione è certo avvenuta, però senza essere mai definitiva. La religione è troppo “seria”, troppo legata ai poteri costituiti per permettere che si mischi e si confonda con atti ed eventi che hanno la stessa matrice metafisica, ma si prestano a venire trattati (riferiti, cantati, recitati, illustrati…) in termini meno impegnativi, atti a sbalordire senza esigere riflessione e profonda partecipazione – senza essere davvero creduti. Vicende che si prestano all’ironia, alla beffa, alla giocosità; in cui compaiono esseri magici e dispettosi, goffi, facilmente ingannabili o seducibili, di rado gravi e severi, ma anzi da non prendere troppo sul serio.

La favola, dunque, si è adeguata al carattere finalistico della narrazione, si è fatta strumento utilizzabile, si è allontanata dalla miticità originaria, dall’incessante movimento della parola e della poiesis, produzione inesauribile e inesorabilmente epifanica, incredibile, emozionante e avvincente, per divenire conferma del già saputo. La morale che traiamo dalla favola è data a priori. La sappiamo in partenza. È riproduzione di ciò che chiamiamo realtà.

La favola risulta così una riduzione a uno schema unico della varietà dei mitemi, riduzione a una grammaticalità che originariamente non le appartiene, in quanto il significato resterebbe sfumato e ambiguo, adattabile a molti contesti e circostanze.

E, dunque, la favola avrebbe superato la sua condizione mitico-originaria e si è educata e civilizzata tanto da avere modificato radicalmente il suo carattere acquisendo una carta di identità, data di nascita e genere? Non proprio. Riguarda ogni forma di narrazione, la quale non può sottrarsi ai malintesi, agli equivoci, alle sviste, che frantumano le pretese letteralistiche di dominio dell’emergenza della parola, del suo manifestarsi. Pretesa di dominio, che diviene quanto mai intollerante, quando si impone come modello unico di governo del mondo. Senza questa reiterante imposizione la favola riprende il suo viaggio, e non di rado aperture inaspettate hanno per effetto il nuovo, l’inedito, l’inspiegabile, il miracoloso.

Ed è l’aspetto della novità che maggiormente ci interessa.

Favola Dogon.

Tre fratelli Dogon furono sloggiati dalla terra in cui erano nati, si misero in marcia alla ricerca di un luogo dove stare, portando con sé il serpente che avevano trovato nella tomba del loro genitore che era insieme padre e madre, maschio e femmina. Erano uno vecchio, uno nel fiore dell’età e uno ancora bambino. Il più robusto dei tre portava in spalla ora il più vecchio, ora il bambino, e fu questi che vide, in lontananza, un altipiano, e gridò: «Quel luogo è mio!»

I due fratelli maggiori se ne indignarono, e il robustone dei tre lo gettò a terra e riprese ad andare con il vecchio. Incontrarono una vecchia che chiese loro se avevano del fuoco. Non ne avevano e le dissero di non seccarli con le sue richieste. La vecchia chiese loro se avevano da mangiare. Non ne avevano. «Avete almeno un coltello?» chiese la vecchia. Non lo avevano, e inveirono dandole della ficcanaso. La vecchia li derise e disse: «Continuate, continuate pure ad andare, ne vedrete delle belle!» Ma i due non le diedero retta, e giunsero a un villaggio in cui il capo li ospitò. Regalò loro un bue perché se lo mangiassero, ma i due non avevano un coltello con cui sgozzarlo, non avevano fuoco con cui cucinarlo, non avevano acqua da bere e con cui lavarsi le mani. E rimasero assetati e affamati. Intanto il bambino, seguendo le loro orme, era giunto anche lui dalla vecchia. E siccome nottetempo l’aveva sognata, la salutò compitamente, l’aiutò a raccogliere la legna, l’accompagnò a raccogliere la frutta, catturò per lei un coniglio, e in cambio ne ebbe un acciarino con cui accendere il fuoco, un coltello e una zucca piena di acqua. Giunse anche lui al villaggio. E trovò i due fratelli maggiori affamati, assetati e disperati. Col suo coltello il piccolo dei fratelli preparò il bue, con l’acciarino accese il fuoco, con l’acqua dissetò i fratelli e permise loro di compiere le abluzioni. E quando giunsero all’altipiano, lui si insediò a Songhò, ai piedi del monte, e divenne l’interprete delle cose sacre, perché aveva capito chi era la vecchia, e i due fratelli maggiori andavano da lui a chiedere consigli e a farsi raccontare l’imperscrutabile.

Quale era la morale della favola Dogon? Era che la sapienza, tutto quello che sappiamo del mondo e di noi stessi, viene dal sogno (non solo quello del sonno, ma in senso esteso), dall’inconsapevole, dall’originario. Tutto il resto è un’interpretazione che diamo dei sogni, degli impulsi inconsci, è un tentativo di applicarne gli insegnamenti, contemperandoli alla realtà. Il regno dell’immaginazione creatrice, dell’altro, sta nella zona crepuscolare, spesso sacrificata in nome del conosciuto. È da questa zona che arrivano i cambiamenti e le novità.