Deus est machina – di Stefano Vaiarelli

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Deus est machina

A volte lo percepisco come una protesi tecnologica innestabile su varie parti del mio corpo. A volte mi percepisco come propaggine umana di un sistema tecnologico molto più grande di me. Come se io fossi una periferica. Anche se è leggero, sempre più leggero, mi pesa. Mi muovo a fatica, come se avessi una palla al piede. O meglio, alla mano. La mano è sempre legata “fisicamente” al telefono. E se non è in mano, è in tasca, in borsa, nel giubbotto… Lo puoi anche usare come telecomando per regolare le luci, accendere il riscaldamento o l’aria condizionata. La fantascienza aveva anticipato molte cose, quasi tutto, ma non lo smartphone, non la Rete. A differenza degli altri devices, il telefono è sempre con me. Mi fa compagnia quando mangio da solo, quando viaggio, quando vado in bagno. Col telefono ci gioco e ci dormo. Faccio delle ricerche e faccio acquisti. Mi aiuta a trovare anche la ragazza. Il rapporto è totalizzante. È il tuo intermediario digitale con il mondo circostante. E poi sa tutto di te. Anzi, sa tutto di tutto. Infatti è riduttivo chiamarlo telefono perché è intelligente, e tecnicamente si chiama smartphone. No, non c’è traduzione, non c’è equivalente. Va bene così: ‘smart’ come parola-concetto di una conquista epocale in cui si attribuisce una caratteristica tipicamente umana come l’intelligenza a un dispositivo tecnologico. Per analogia poi ci sono le smart card, gli smartwatch, le smart house, le smart city, e così via. “Smart” è il neologismo che diventa etimo necessario per comporre i nomi delle innovazioni di questa nuova era, l’era dell’intelligenza artificiale. L’oggetto diventa sempre più soggetto e io mi sento sempre più oggetto. In questa ambizione di (con)fondere Uomo e Macchina si compie la reificazione della persona, alienata nell’adorazione di questa feticcio globale. Il nuovo (i)dolo viaggia a velocità superluminali, non puoi stargli dietro, ti ha superato, ti ha tolto il fiato. A volte mi sento proprio il respiro mozzato, sento un lavorio che turba il mio spirito. Anche perché l’immateriale non serve più, si tiene solo il materiale. Già da tempo la Legge vive di forma e non di sostanza. Sento che devo cedere l’anima al freddo incedere dei passi del codice sorgente. Visualizzo un’erosione dell’io, una cessione, una cessione del sé, una sé-cessione dal ritmo del mio battito. Non battiti bensì battute originano l’algoritmo che procede lungo il percorso dettato, seguendo le impostazioni predefinite, per default, tecnicamente, quindi, di fatto, per difetto, letteralmente. È tutto lineare, semplice, semplificato, indispensabile per simulare l’umano e personificare l’inumano. L’omologazione aiuta la simulazione robotica, e il processo opera con una forza tale che porta alla reduplicazione del sé: la macchina ti permette di creare un alter ego attraverso gli account dei social network. Ci replicano e ci replichiamo. È un’intelligenza replicante. Macchine automatizzate e uomini automi. Se noi non diventiamo robot, i robot non possono fare progressi. Se noi non parliamo come le macchine, queste non possono emulare il nostro ‘linguaggio’. Cioè la nostra intelligenza deve abbassarsi a tal punto da poterci sorprendere della potenza di questi cervelli artificiali. L’appiattimento delle nostre capacità intellettive è funzionale all’innalzamento dell’intelligenza dei software. Guarda caso c’è chi sostiene che l’intelligenza artificiale è destinata a superare quella umana nel giro di pochi anni. C’è in corso un livellamento e quindi occorre standardizzare all’infinito. La scelta dello standard, che poi è il passo nella tecnica, è un problema tipicamente industriale. Di fatti, il passo non è mai a misura d’uomo. Il passo è quello, non c’è libertà di scelta, è univoco. È sempre meccanico, uniforme, regolare. Ti schiaccia sotto il peso della sua dimensione unica. Difficile trovare una via alternativa, ancor più difficile crearla. In questo delirio matematico manca il presupposto fondamentale per la creatività: l’instabilità. Vorrei darmi alla macchia ma mi è sempre più difficile muovermi, orientarmi. Mi sento spersonalizzato, amorfo. Reso invisibile da un potere invisibile. Spaesato, smarrito, confuso, passivo. La mia presenza fisica non è più necessaria, basta quella virtuale. Mi ricorda lo stesso abisso che si era creato tra il mondo contadino-pastorale e mondo urbanizzato-industriale negli anni Cinquanta e Sessanta. C’è la stessa frattura oggi tra mondo fisico-reale e mondo digitale-virtuale. Se non accetti il Nuovo Mondo vieni considerato antico, pazzo, ignorante. Non puoi criticarlo, devi solo venerarlo. Così la Macchina diventa l’autorità virtuale a cui affidarsi, la divinità in cui credere incoscientemente. È anche asessuata, come l’essere originariamente creato. Desessualizzazione e neutralizzazione della libido. La coscienza non serve né all’antropomorfizzazione della Macchina né alla robotizzazione dell’uomo. Questa tecnocrazia esprime per ossimori le sue contraddizioni interne. Individui immobili e macchine mobili. Ci hanno insegnato a non trattare le persone come oggetti ma non eravamo preparati all’eventualità di trattare gli oggetti come persone. Ma dovremo imparare a convivere con queste realtà. Le automobili che guidano da sole esistono già. Idem per treni, metropolitane e aerei. Sono già in produzione delle cucine interamente robotizzate, e sono cucine che diventeranno industriali (Moley Robotics – Fully Automated Intelligent Cooking Robot). Sui tavoli del ristorante ci saranno dei tablet da cui i clienti potranno ordinare il loro piatto preferito e le macchine si metteranno in moto per prepararli in catena di montaggio. In campagna non sentiremo più il rombo dei motori dei trattori, bensì il ronzio dei droni che sorvolano i campi trasmettendo miliardi di dati alle centrali. In campo medico e industriale ci saranno i cobots, cioè sistemi robotizzati che comunicano tra di loro e con il chirurgo o l’operatore. Niente sfuggirà a questo processo di automazione e virtualizzazione. Neanche noi, perché anche noi siamo il prodotto della tecnologia. Camminando per le strade di Milano il mio sguardo viene catturato da una pubblicità della Fineco in cui campeggia una scritta a caratteri cubitali: “Da sempre investiamo sulla tecnologia più evoluta che esista: l’uomo”. Mi è tutto più chiaro, o meglio, ce lo dicono chiaramente. Ma come facciamo a non avere coscienza di quello che accade? Non serve più la coscienza, forse è un aspetto intrinseco dell’umano. Eppure, “Robot sempre più umani, rischiano di avere pregiudizi”, così titola il sito online dell’Ansa un articolo firmato Elisa Buson, pubblicato l’8 ottobre 2018. Il rischio ora è che i robot diventino troppo… umani. Inizia proprio a dar fastidio il termine umano.