Francesco Saba Sardi – Il sacrificio

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Francesco Saba Sardi – Il sacrificio – Conferenza 05/11/1983

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Io sono un griot. Così in certe regioni dell’Africa equatoriale, si chiama colui che racconta storie. Dal griot non ci si aspetta sistematicità, non ci si aspetta coerenza, non ci si aspetta che prenda partito per. Dal griot ci si aspetta che pensi, ma il suo è un pensare come non lavoro, esattamente l’opposto di quello che fa la statua del Pensatore di Rodin, il quale pensa con accanimento, da rude faticatore, da membro partecipe della collettività produttiva, da professionista. Dal griot ci si aspettano illuminazioni. Le quali non hanno nulla a che fare con l’Illuminismo, non rischiarano la strada che porta verso qualcosa, non sono ipostasi della cultura intesa come opposizione a natura, vale a dire come tutto ciò che fa l’uomo – ma che cosa è uomo? Se mai la cultura è da intendere quale modo specifico e distinto dell’accadere alla verità del mondo. Il mondo però lo fa accadere il griot. Il quale segue gli eroi nelle loro imprese. Ma senza il griot non ci sarebbero le imprese degli eroi. Il griot è l’unica verità impossibile, quella della poesia. Il resto è pregiudizio. Pregiudizio pensare che il Principe Libro posa inseguire il principe in carne e ossa e cartografarne le azioni. L’errore di Macchiavelli è un errore tipico e topico di quel Rinascimento che non ha afferrato le proprie implicazioni; è l’errore della critica d’arte, figlia appunto di questo rinascimento mancato che ritiene di narrare le proprie letture. No, la narrazione avviene su un altro piano.

La parola della poesia oscilla nel vuoto, non è un frutto appeso al ramo del reale. L’arte della guerra di Macchiavelli non è affatto arte della guerra, poiché pensa a una guerra atomica ante litteram, una guerra ideologica, mallevadrice,  intermediaria, mezzo, continuazione della politica, né più né meno di quanto accade nell’opera del romantico Clausewitz.

Da griot, vi racconterò delle storie. In primo luogo quella di Hami-du-hama-nkulde del Sahel. Dunque nel villaggio di Djibo, nel paese di Delle-Goji, viveva una fanciulla peul, così bella che tutti i giovani erano innamorati di lei. Ogni mattina da lei venivano centoventi giovani valorosi peul, tutti nobilissimi, tutti appartenenti alla schiatta di re Ardo, tutti in groppa a bianchi cavalli, e ognuno di loro implorava la bella fanciulla, Djullu-Deeru, di diventare sua moglie – Ma a ognuno di essi Djullu-Deeru rispondeva: «Laggiù c’è l’acqua Pete-erre: Abbevera il tuo cavallo nell’acqua Pete-erre e io ti sposerò». E i puel se ne andavano via in silenzio turbati, perché all’acqua Pere-erre montavano la guardia settecentoventi tuareg. Ora, nel paese Delle-Goji viveva un puel a nome Hami-du-hama-nkulde, al quale il suo mabu, come si chiamano i cantastorie, i griot, in paese puel, così disse: «Tu non sei un vero puel. Se tu fossi un vero puel, adocchieresti Djullu-Deeru, come desiderano fare tutti i rampolli di Ardo, e mostreresti ai rampolli di Ardo che le condizioni poste da Djullu-Deeru non sono poi così difficili da rispettare». Hami-du-hama-nkulde rispose: «sella il mio cavallo. Domani andiamo a Djibo». Come giunsero a Djibo, gli altri centoventi peul si alzarono e se ne andarono. Hami-du-hama-nkulde vide la bella fanciulla. Smontò dalla sella, andò da lei e le disse: «Sii mia moglie». Rispose Djullu-Deeru, la bella fanciulla: «Sarò tua moglie non appena avrai abbeverato il tuo cavallo nell’acqua Pete-erre. Rispose l’eroe: «È cosa da nulla. Tu però verrai con me e assisterai». Disse Djullu-Deeru: «Sta bene». Djullu-Deeru si preparò. Prese con sé un mabu, cioè un cantastorie, un diawando, cioè uno scudiero, e un dimadio, cioè un nobile. Ognuno montò in groppa a un bue. Hami-du-hama-nkulde si preparò, e salirono tutt’e quattro a cavallo. Partirono. Andarono per due giorni. All’alba del terzo scorsero il lago Pete-erre. Attorno al lago crescevano alberi kapokier. Su ogni albero kapokier stava un tuareg. Avevano lunghe barbe e la parte inferiore del volto coperta. Come videro avvicinarsi i cavalieri stranieri, subito si accinsero alla battaglia. Disse allora Djullu-Deeru: «Basta così. Per me è sufficiente. Non è necessario che tu abbeveri il cavallo nell’acqua vera e propria. Il tuo cavallo ha già aspirato la nebbia del mattino che se ne leva. Torniamo indietro. Ti prenderò come mi sposo. Ma Hami-du-hama-nkulde replicò: «Sarebbe singolare. Il mio cavallo e io non ci siamo assetati abbastanza con la nebbia del mattino. Abbeverò pertanto il mio cavallo laggiù al lago».

Si espose alla lotta. Come il primo tuareg si avventò di sulla sella lo trafisse. Poi diede il cavallo a Djullu-Deeru, dicendole: «Tienilo tu», e iniziò la grande lotta. Combatté fino a sera, e allora tutti i tuareg volsero in fuga. L’eroe aveva conquistato sette cavalli. Andò al lago e vi abbeverò il proprio destriero e i sette che aveva razziato. Allora Djullu-Deeru disse: «Tu sei un vero pulo, cioè eroe, guerriero, razziatore. Io ti sposerò. Torniamo dunque a Djibo». Ma l’eroe rispose:«Non è possibile. I tuareg muovono all’assalto tre volte di seguito. Io quindi devo affrontarli ancora due volte. Ci attenderemo e pernotteremo qui».

Pernottarono al lago. Il mattino successivo comparvero i tuareg decisi a riconquistare l’acqua Pete-erre. Il giorno dopo ricomparvero i tuareg, decisi a riconquistare il lago. L’eroe combatté fino a sera, e la sera abbeverò il proprio cavallo nel lago. Aveva conquistato in tutto venticinque destrieri tuareg. Disse allora Djullu-Deeru: «Hai dimostrato di essere un grande pulo. Ora torniamo a casa». Replicò l’eroe:«Conosco i tuareg. So che non resteranno tranquilli finché non avrò razziato il loro bestiame. Resteremo qui una notte ancora. Poi io andrò e razzierò il loro bestiame». Il mattino successivo si mise per via. La fanciulla restò ad attenderlo al lago. La sera l’eroe tornò all’acqua Pete-erre. Aveva conquistato 30.000 capi di bestiame. Disse alla fanciulla: «Adesso possiamo tornare».

Hami-du-hama-nkulde e Djullu-Deeru tornarono a Djibo, e la fanciulla disse al proprio padre: «Hami-du-hama-nkulde è un vero pulo». Lo ripeté a tutti, e suo padre mandò un’ambascieria all’eroe che così gli dicesse: «Sono disposto a darti in sposa mia figlia». Hami-du-hama-nkulde mandò al padre della bella fanciulla i cavalli razziati ai tuareg e i 30.000 capi di bestiame che era andato a prendere nel loro paese che sta a nord di Timbuctù, e così fece rispondere al padre della bella fanciulla: «No, io non voglio sposare Djullu-Deeru. In compenso ti invio questo dono».

Non vi farò il torto di tradurre in termini piattamente discorsivi il nesso tra questa storia e il sacrificio. Piuttosto, ve ne racconterò un’altra, con una postilla di carattere filologico, ed è che si tratta di un’antenata dell’antefatto delle Mille e una notte nella versione cairota, perché come saprete c’è anche una versione di Baghdad, strutturata diversamente. Posto, beninteso, che le storie, mitiche o favolistiche che siano, abbiano antenate. L’antefatto racconta che due re fratelli furono ugualmente colpiti dell’infedeltà delle loro mogli. Le uccisero, e uno dei due, Shahriyàr, decise allora di prendere ogni notte una fanciulla vergine. Le toglieva la verginità, e la notte stessa la uccideva; andò avanti così per tre anni, e il popolo fuggiva portando via le fanciulle. Ben presto in città restò solo una ragazza da marito. Era la figlia di un ricco mercante, al quale il visir ordinò di portare a palazzo la ragazza che aveva nome Shahrazàd. Lei non si sgomentò. Si sa come andarono le cose: ogni notte raccontò una storia diversa al re, e le sue storie erano fatte in modo che ognuna contenesse in sé il germe di un’altra, e il re voleva sentire la fine, un’attesa che si protrasse appunto per mille e una notte al termine delle quali il re si avvide di avere trovato una narratrice capace di sostituire con i racconti il sacrificio, non volle più ucciderla e la prese anzi in moglie.

L’antenata di questa storia raccontata che a Napata, nel Sudan, regnava una dinastia di re infelici. La loro vita era breve. Ciascuno la trascorreva nel lusso e nella voluttà, ma dopo pochi anni veniva ucciso dai sacerdoti i quali trascorrevano le notti scrutando il cielo, e quando in questo comparivano certi segni astrali, sacrificavano il re. Le cose continuarono così finché sul trono non salì Akaf, il quale al pari dei suoi predecessori, scelse chi lo avrebbe accompagnato, al momento stabilito, nella morte. E siccome un re del lontano oriente gli aveva inviato in dono uno schiavo che sapeva raccontare le storie, scelse anche lui. Far-li-mas, così si chiamava lo schiavo, viveva accanto a Sali, la sorella del re incaricata di vegliare sul fuoco sacro. E, Sali, quando i sacerdoti la nominarono vestale, si spaventò perché sapeva di dover vivere casta e che sarebbe stata uccisa insieme con il re. Comunicò la propria tristezza al re, il quale si sentì infelicissimo, e per consolarsi convocò Farl-li-mas perché lo distraesse con le sue storie. E Farl-li-mas raccontò così bene, che il re dimenticò la paura della morte e cadde in dolce sonno. La fama della bravura dello schiavo-narratore si diffuse, e anche i sacerdoti vollero ascoltare le sue storie, e Sali pregò il fratello di permettere di ascoltarle a sua volta. E così, presenti i sacerdoti, e presente Sali, Farl-li-mas cominciò a narrare, e un po’ alla volta al ritmo della sua voce gli ascoltatori caddero in preda al sonno, e allora Sali e Farl-li-mas si aabbracciarono e si congiunsero mentre gli altri dormivano. Così trascorse al notte senza che i sacerdoti avessero scrutato il cielo, perché avevano dormito al pari del re. Ma poteva darsi che proprio quella notte si fossero mostrati i segni che prescrivevano il momento in cui uccidere re Akaf. I sacerdoti erano molto preoccupati. Il giorno dopo, Sali andò dal sommo sacerdote e gli chiese come si faceva a stabilire il giorno dell’esecuzione. Rispose il sacerdote: «Quando compaiono certi segni in cielo, e allora spegniamo il fuoco che tu custodisci, ed eseguiamo la sentenza. Ma se per qualche notte di seguito non vedessimo in cielo, non sapremmo nulla dei segni e non potremmo spegnere il fuoco. Disse allora Sali: «Grandi sono le opere di dio, ma più grande è della sua scrittura in cielo la scrittura degli uomini sulla terra. Farl-li-mas è più forte dei sacrifici». Il sacerdote si indignò a queste parole, e con altri sacerdoti volle ritentare la prova del labirinto: stare ad ascoltare le storie di Farl-li-mas senza addormentarsi. I sacerdoti provarono la prima notte, e cedettero al sonno. Provarono la seconda notte, e cedettero al sonno. Provarono la terza notte, e cedettero al sonno. Ormai non sapevano più dov’erano gli astri nel cielo, e ogni notte Sali e Farl-li-mas si congiungevano nella sala del trono, dove tutti, il re, i dignitari, gli ambasciatori, i servi, le guardie, i sacerdoti, l’intero harem, dormivano di un sonno beato. I sacerdoti decisero allora di uccidere Farl-li-mas, il narratore, ma Akaf si oppose: Farl-li-mas era il suo compagno nel viaggio oltretomba, e propose di lasciare ogni decisione al popolo. I sacerdoti e Farl-li-mas avrebbero parlato, i primi ricordando l’ordine che era stato infranto, il secondo esponendo le sue ragioni. Farl-li-mas parlò per primo. Le parole che gli uscivano dalla bocca erano dolci come il miele, e al loro suono il re, i sacerdoti, il popolo tutto quanto si addormentarono. E mentre dormivano, Farl-li-mas continuò il suo racconto, ma questa volta era un racconto di lotta e di guerra. E i cuori degli uomini si levarono in battaglia gli uni contro gli altri, e quando Farl-li-mas ebbe finito, e gli ascoltatori si svegliarono, furono colti da stupore perché ai loro piedi giacevano, morti, i sacerdoti.

Allora re Akaf fu liberato definitivamente dalla paura della morte, e regnò a lungo sul suo popolo, spense il fuoco. Sali sposò Farl-li-mas, e da allora a Napata non ci furono più sacrifici umani. Quando Akaf morì di morte naturale, gli succedette Farl-li-mas con la regina Sali. A Napata si viveva felici. Ma non appena Farl-li-mas morì a sua volta i vicini invidiosi assalirono il regno e lo distrussero. Di Napata non restarono che i racconti di Farl-li-mas e il ricordo del desiderio di abolire il sacrificio.

È un desiderio che segue anche altre vie. Nei mesi passati, forse lo ricorderete, ve ne ho indicato almeno uno: quell’esorcismo chiamato città, ancora una volta vano e vanificato. La città ha viscere e orrori, ha la suburra, e la città viene fondata mediante il sacrificio. Sacrificio di che? Sacrificio dell’alterità messa fuori dalle mura, esclusa. La città ho detto, è esclusione che occupa il mondo intero, ma di cui l’esclusione si riappropria. Vi ho detto anche che il mito, trasformandosi in mitologia, la parola trasformandosi in atto di parola, perde le penne, rivela la presenza del proprio aldilà.

L’abolizione del sacrificio è possibile? È come chiedersi se è possibile abolire il tabù (da intendersi mito-tabù). No. Il tabù è per essere infranto e contemporaneamente reimporsi, così come lo è la legge, proiezione del tabù nel razionale, che istituisce il delitto.

Non c’è, in altre parole, un modello di abolizione del sacrificio-tabù che non si riveli vano. Si ricordi che la Fenice sacrifica se stessa bruciandosi su un rogo, da cui risorge, e ogni volta ripete l’autosacrificio. Il quale è la rappresentazione della comparsa e immediata scomparsa della Fenice. Il sacrificio è la teatralizzazione dell’evento. Tragedia deriva da tragos, il capro sacrificale. Tragedia è, all’origine, ed è tutt’ora, il sacrificio. C’è un’altra forma di teatralità, il riso. Il riso è Galgenhumor, l’uomor nero del condannato che, sotto la forca, dà consigli al boia circa il modo con cui impiccarlo. È il rovesciamento, l’altra faccia della medaglia che è però lo stesso conio.

Ora, cercare l’origine del sacrificio, è esattamente come chiedersi da dove viene la parola. Equivale a fare della linguistica; equivale a ridurre l’etimologia ad archeologia, senza rendersi conto che l’etimologia ha a che fare con la traduzione e dunque con la poesia. Attribuire un’origine, storica o allegorica al sacrificio, significa spazializzare l’evento, situarlo in un momento particolare, presunta origine e luogo identificabile, esteriore o interiore che sia: un punto fermo del pensiero, un centro attorno al quale tutto ruoterebbe. Significa credere che il sacrificio possa essere abolito, il tabù essere reso inoperante, che la città possa conquistare e redimere il mondo, che il Cristo sia davvero comparso e, riassunto in sé il sacrificio, lo abbia reso superfluo. Cristo, come avete bene inteso, è Farl-li-mas.

Cristo ha raccontato il Nuovo Mito. Raccontato, ho detto. Raccontare vuole dire uccidere la Fenice. È il racconto definitivo, il modello di ogni futuro, è appunto la pretesa del cristianesimo. Non ci sarà più Fenice sacrificata. È sotto i nostri occhi il fallimento di ogni metafisica, laica o religiosa che sia.

Impossibile imporre l’alt al tempo, cioè alla tautologia.

Ancora un’osservazione: fraintendimento. Tradurre è fraintendere.

Mai il tradurre riuscirà nell’impresa cristiana della coincidenza tra lingua di partenza e lingua d’arrivo. Dovrà rassegnarsi ogni volta al sacrificio. Non si può, traducendo, restare a un linguaggio. Mi avete sentito ripetere più volte che bisogna diventare poliglotti. Il monoglottismo è nazionalismo. Nazionalismo è il tentativo di versare tutto in un linguaggio che ci è abituale, senza disancorarsi. Bisogna invece abbandonarsi al flusso, per farlo occorre avere presente che il racconto è sacrificio, ma non può sostituirlo. Ne è un’immagine, non il surrogato.

Nessuno tradurrà perché possiede una teoria della traduzione. E tradurre non è trasporre. Ma la traduzione è onnina. Traduzione del sintomo, per esempio. Bisogna tuttavia stare attenti, traducendo, a evitare di compiere il tentativo, del resto vano, di fermare il flusso. La via non è il percorso.

Traducendo, devo pertanto evitare di spiegare, di riversare il flusso narrativo in rigida discorsività.

Non ho sott’occhio pulsioni di vita o di morte, ho sott’occhio l’incenerimento della Fenice.

Non posso cartografare l’abisso, la tenebra dalla quale promana la luce. Non posso supporre una logica dell’abisso: equivarrebbe a proiettare l’aldiqua nell’aldilà, ed è questa la metafisica. La prova dello specchio è destinata sempre e comunque al fallimento. Non si può restituire la vita alla Fenice con un atto di volontà, e tanto meno spegnere le fiamme del suo rogo. Non si può abolire il sacrificio, che infatti puntualmente si celebra, in forme tanto più rovinose, guerre, rivoluzioni, terrorismo, quanto meno si ammette il carattere ludico della violenza.

La cristallizzazione della verità, il modulo esplicativo, sono un rischio al quale di continuo si va incontro. Cristo è l’inventore della critica.

Certo, la psicanalisi incontra la storia, questo c’è e non c’è. Quest’eco che risuona nelle profondità della selva senza che mai se ne individui il luogo, in certe intersezioni che hanno nome Edipo e parricidio. Ma il tempo della narrazione come flusso, della narrazione non cristiana, non metafisica, incontra la storia anche in altre intersezioni. L’illuminazione nel senso di Rimbaud è del griot, non del critico. Non c’è un solo linguaggio, i percorsi sono infiniti. Non c’è nulla a cui rifarsi, nulla che in qualche punto fermi il flusso. L’illusione di Ferl-li-mas è di avere abolito il tempo dopo averlo istituito. L’illusione della favola, cioè del mito ridotto a corpus, è di istituire il lieto fine il: «e vissero felici e contenti». La favola è l’istituzionalizzazione del mito, la favola è il segreto del potere. Ma la favola non è mai finita, ogni volta l’ascoltatore richiede altre favole. L’illusione del narratore delle Mille e una notte consiste nel ritenere che Shaharazàd abbia abolito il sacrificio, che si possa, precristianamente, sostituirlo con il racconto concluso, il racconto-modello. La leggenda di Hami-du-hama-nkulde non avverrebbe.

Infine l’arte dell’ascolto non è l’arte della poesia. C’è il modo certo di fondere saggio e narrazione. È però inutile indagare sull’essenza della poesia. Non si fa che ripetere il vano tentativo di abolizione del sacrificio che compiono in ogni istante della loro vita di faticatori, di pensatori di forza, il critico e il linguista. Il metafisico, insomma, colui che pretende di fermare il flusso.

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