Francesco Saba Sardi – Il Phanes e i mille rinascimenti

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Nelle scuole di ogni grado e attendibilità si insegna per lo più che c’è stato un solo Rinascimento nel quale si sarebbe avuta la riscoperta dell’antichità classica – un “Lazzaro risorgi” – ma soprattutto nel quale non ci si peritava di riscrivere la storia accertata all’epoca, proclamando insomma che il sole sorgeva per la prima volta nel primo mattino dell’Età dell’oro.

Il Rinascimento, secondo le suddette scuole, sarebbe stato tutto quanto caratterizzato da lucidità e appartenenza alle “giuste” regole: prospettiva, Weltanschauung razionalizzante, imitazione del vero – quella, cioè, che oggi diremmo “arte dello specchio” – e ancora obbedienza agli imperativi delle committenze e pertanto arti al diretto servizio del potere.

I mille rinascimenti di cui parliamo qui, e chiamiamoli pure ri-rinascimenti, si scandiscono nel corso degli eventi.

Ma già allora, durante il suppostamente unico Rinascimento, e più ancora e anzi soprattutto in seguito, quando il periodo così inteso e decretato parve degenerare nel Manierismo e nella perdita della bussola del logos, non mancarono benpensanti che lo vedevano espressione di corti pervertite in cui si praticava di pugnali e veleni, e ci si abbandonava ad altre «mostruosità». Lo diceva, ad esempio, il letterato tedesco L. C. Lemke, autore di un Contributo alla storia della letteratura e della poesia narrativa in Italia, Lipsia 1855, in cui denunciava la sostanziale «mostruosità» dei «pagani» portatori del Rinascimento.

Vero è che anche in Italia non mancarono, a partire almeno dal Quattrocento, i deprecatori, in testa la Chiesa con i suoi Indici dei libri proibiti e le sue molteplici sanzioni materiali e spirituali. Ne derivò che il Rinascimento fu pieno di «libri maledetti», anzi, forse tale fu la maggior parte della produzione editoriale almeno dopo il Concilio di Trento e la scure ecclesiastica piombata a decapitare l’invenzione artistica e a preparare un futuro prescrittivamente incentrato su quello che è diventato il Discorso dell’occidente.

Si è così inaugurata l’applicazione sistematica della censura e dell’autocensura, questa dettata da obbligatorie peccaminosità. Condizione della quale ancora oggi subiamo le deprecabili conseguenze, in primo luogo la scomparsa o quasi della produzione letteraria che abbia un qualche contenuto erotico e che sia di qualità, e il contemporaneo trionfo della pornografia di bassa lega.

Dunque, accanto al Rinascimento della logico-discorsività, della letteratura che, come vuole Cartesio con Aristotele et alii, faceva proprio il principio di non contraddizione e proclamava la necessità di una – impossibile – sintesi tra Discorso e poiesis: accanto a questo unico Rinascimento,  accadeva e accade tuttora, e chissà quante altre volte accadrà, che quando la Parola, che è originaria proprio perché non ha origine, ed è la struttura del mitico, di un Altro  intendo la Scrittura che non risponde alla Zeit, il tempo degli orologi, della sempre rettilinea freccia temporanea, ma che contiene in sé Tempus, il ritmo insito nella Parola stessa: orbene, ogni qual volta essa è stata sopraffatta dalle parole della quotidianità, la Parola-Phanes è riapparsa e c’è stato, e c’è, uno dei mille rinascimenti. E dunque l’intollerabilità di una visione del mondo che risponda a un registro ordinale, dove forzatamente tout se tient e dove tutto risponda alle catene delle cause e degli effetti. E noi si continui a vivere dentro la quadradità di stanze, case, città, metropoli, nazioni.

A codeste contestazioni del Rinascimento come unicum e anch’esso quadratiforme, già allora, nel pieno trionfo del Discorso occidentale, si sono date reazioni, altrettanti NO opposti all’unicità e universalità di un mondo monodimensionale, santificato, sacralizzato, incontrovertibile.

Mi limito ad alcuni esempi di quello che è stato chiamato l’Antirinascimento ,(titolo di una ben nota opera di Eugenio Battisti del 1962) ma che in effetti meriterebbe la definizione di Pararinascimento, in quanto del Rinascimento inteso come unico ha conservato il rispetto almeno dei fondamentali principi.

Fra i testi e le opere artistiche pararinascimentali, ecco in primo luogo l’Hypnerotomachia Poliphiliormai universalmente attribuita al frate Francesco Colonna, e la cui prima edizione, o almeno presuntamene tale, è del 1499. Un lungo romanzo? Ammettiamolo, a patto che del termine romanzo si abbia un’accettabile cognizione. Piuttosto un testo di cui si può riassumere la trama, premesso però che si ha a che fare con una costruzione antidinamica di una lingua interamente inventata, anche se in apparenza è una favella italiana latineggiante. La quale non rispetta la Zeit, il tempo degli orologi e della freccia inesorabilmente rettilinea, ignora cioè lo svolgersi, il nascere e il morire degli elementi del Discorso, ma è più opportunamente assimilabile alla pittura come composizione di colori, luci e ombre: di zone spesso non contigue, non articolabili in precisi paragrafi. E dove tutte le cose umane, tutti gli accadimenti, si presentano con la compartecipazione dell’onirico, al punto da far richiamare alla mente il concetto, chiaro agli antropologi, del dreamtime degli aborigeni australiani.

La trama, eccola: smarritosi inizialmente nella selva, cioè nella dimenticanza dell’inerte Hypnos, Poliphilo incontra le ninfe e viene ammaestrato da Eleuterillide, il libero arbitrio. La scelta del regno di Venere appaga Poliphilo, il tutt’amoroso cercatore, ma la sua non è un’iniziazione dell’anima al suo destino finale, bensì il ritrovamento, o meglio l’invenzione di Polia l’amata con la sua decisione di votarsi a Diana, la Cacciatrice. A questo punto Poliphilo, il dormiente, preda di Hypnos, si sveglia e si ritrova nella sua stanza. Ha optato, nell’incoscienza, per l’amore, per l’Eros anziché per la timida salvezza.

Trama elementare, come si vede, ma ciò che conta è che questa è un’opera narrativa-emblematica tutta fondata sul linguaggio. Non più sul contenuto espositivo. Opera di Scrittura, non di Letteratura. Forse l’esempio più clamoroso del distacco del «romanzo» dalla tradizione e l’invenzione di una poiesis nuova (intentendo per poiesis l’attualeproduzione artistica).

E, proprio per questo, «libro maledetto»: opera phanica, se mi è permesso ricorrere a questa definizione.

Nella categoria del pararinascimento, quello delle rinnovantisi apparizioni del Phanes, rientra di pieno diritto anche il Giardino di Bomarzo, progettato dal Vignola attorno al1520 insieme con il palazzo Orsini del quale è una dipendenza. Le enormi sculture ornamentali che compongono il giardino, e sono mostri, animali di fantasia, case fintamente crollanti con portali in foggia di fuaci dentute, sono allegorie trasparenti o enigmi indecifrabili che compongono la materializzazione di un sogno, che è occultistico, certo, ma che è soprattutto una lingua Altra, tesa non già a esprimere l’arduamente esprimibile, bensì a inesprimere l’inesprimibile. Poiché il Phanes non dice, il Phanes illumina. Appare, ed ecco allora la torre degli Orsini a dominare il globo terrestre sorretto da un gigantesco batrace, ecco la personificazione dell’Oceano sotto le sembianze di una donna a gambe divaricate coperte di scaglie.

Il signore di Bomarzo, Gianfranco Vicino Orsini, morì nel 1547 senza aver potuto condurre a termine la sua opera, ma lasciando un’iscrizione murale col blasone degli Orsini, che insieme chiarisce e oscura: «Che Menfi e tutte le altre meraviglie del mondo cedono il passo al bosco sacro che somiglia solo a se stesso».

Oggi, perché no?, Bomarzo è aperto alla curiosità (e alle devastazioni) del turismo.

L’anti o pararinascimento ha lasciato un retaggio? Sì, almeno nella poiesis di Niki de Saint-Phalle che ha trovato espressione nel suo grandioso Giardino dei Tarocchi ispirato a Bomarzo. Perché il phanes fa di continuo capolino: dalle fauci di uno Zeus o delle altre reificazioni che altrettanto continuamente cercano di inghiottirlo e introiettarlo senza farsene fecondare, come invece fa, stando almeno alla teogonia di Esiodo, l’antico signore dell’Olimpo.

Altri “libri maledetti” rinascimentali? Accanto ai fin troppo noti, e ormai banali, canti carnascialeschi di Lorenzo il Magnifico, perché no, al di là della riduzione del mondo alla razionalità produttiva persino l’opera del padovano Angelo Beolco, in arte Ruzzante (da ruzzare, scherzare)? Che certo, fu esplicitamente al servizio di Alivise Cornaro, e tuttavia, da attore e autore, si fece portavoce degli sdegni, risentiti e polemici, mordenti, a volte quasi ribelli o almeno rivoltosi, della plebe contadina. Ma più per finta, mai del tutto sul serio: scrittore come era formatosi ai margini di una élite aristocratica, e per conto di essa beffatore, nella prima metà del Cinquecento ricalcò le rozzezze del Menego, del Reduce, della Bilora. Tuttavia in questi suoi ricalchi dei modi di parlare e di concepire la vita dei sottomessi c’è già alcunché di nuovo, un’involontaria, inconsapevole contestazione della lingua del potere. Ruzzante sospeso sullo spartiacque, sul sottile diaframma tra le gergalità dei dominati e quelle dei dominanti.

Che cosa si può dunque intendere quando si parla di mille rinascimenti?

La riaffermazione della libertà della Parola, del mitico: la reiterata scoperta che la Parola è originaria proprio perché non ha origine ed è impossibile ridurla a realtà extralinguistiche. Inaspettatamente, emerge. Appare. È il Phanes.

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