G.B. Tiepolo e la caricatura – di Francesco Saba Sardi

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Dalle carte dell’epoca risulterebbe che Giambattista Tiepolo era affettuosamente, e dialettalmente, insignito di due soprannomi: «el Tiepoleto» e «el Tiepolo dei siori».

La desinenza in «eto» la dice lunga: ne fa un giocherellone, un birichino. E infatti, i coevi cronisti trovarono da ridire sui suoi atteggiamenti e qualità. «Non sa fare teste graziose» e ha «una facilità che nuoce alla correttezza» constatava, nel 1774, uno fra i tanti, R. J. Manetti, intendendo che mostrava scarso rispetto per la «verità» delle cose. Insomma, un pittore un po’ indifferente alla prescrittiva aderenza alla «realtà».

Un artista è e non è il suo tempo. Nel quale, cioè in quella cultura e in quei pregiudizi, è immerso, li subisce, ne è condizionato, a volte si ribella. Come del resto alcuni eloquentissimi, e altrettanto veneziani, contemporanei del nostro. El Tiepolo dei siori nacque infatti a Venezia nel 1696 e morì a Madrid nel 1770; Giorgio Baffo (ne accennerò più avanti), sommo autore di «sporcherie», cantore e apologeta – in pratica suo unico tema – dell’«oseo» e della «mona» con qualche incursione nel «cuo», nacque a Venezia nel 1692 e da Venezia praticamente mai si mosse, per morirvi nel 1768; Giacomo Casanova vi venne al mondo nel 1725 e si spense, dimenticato e beffato, a Dux, in Boemia, nel 1798. Qualche anno di differenza come si vede – e molto in comune, come mi proverò a far notare.

Giovanni Battista Tiepolo

Giovanni Battista Tiepolo

Ma erano parecchi, a Venezia, quelli che condividevano certi modi e predilezioni di Giambattista Tiepolo. E, se non le sue grandiose aspirazioni celebrative, certamente quella malinconia che viene a chi guardi là dove il sole sia sul calare, e una nuvola inaspettatamente lo copra, ammasso di piovose violacità, immagine della fine di ogni cosa e del mondo. Venezia che sprofonda, dico. E per varie ragioni quei molti, al pari del nostro, il grande dipintore, il sommo decoratore, anch’essi variamente disinvolti, scorretti, irrispettosi, spesso apertamente cinici. Più avanti ne inviteremo qualcuno alla ribalta, e li vedremo, con il pennello, la pennellessa, la penna e il calamaio, ugualmente increduli, ironisti, sarcastici, a ben vedere riprovevoli.

Giambattista Tiepolo ebbe due figli. Uno dei due, lo straordinario Giandomenico, ne seguì e ne esasperò l’esempio: che fu quello della caricatura. Non ingannino i titoli delle opere – le maggiori, o per meglio dire le ufficiali – di Giambattista, il padre, né illudano gli altisonanti nomi dei committenti, nobilissime famiglie, potenti arcivescovi, addirittura sovrani coronati. Può infatti sembrare che i «siori», i grandi della terra, Giambattista invariabilmente li celebri, se ne compiaccia e ne esalti il potere, le ricchezze, gli ideali, le ideologie. E che lo faccia senza nessuna arrière-pensée, senza celate deprecazioni, senza nascosti secondi fini.

Ma sembrerebbe anche che qualcosa sia sfuggito agli interpreti, esaltatori, acritici elogiatori del magnifico Giambattista Tiepolo. Vero è che i «siori» lui li infilava dappertutto, appena poteva, nei suoi sfarzosi, spesso vastissimi addobbi. Ma sono, perlopiù, dominatori altezzosi e scadenti, effigi sotto sotto nient’affatto benevole di tipicissimi esponenti di una chiusa aristocrazia cattolica. Ritratti: ma si è mai visto un ritratto, soprattutto se di un grande pittore, che sia integralmente, esclusivamente tale, cioè fedele riproduzione, esatto ricalco di un vivente oggetto? Senza, dico, che il pittore vi aggiunga qualcosa d’altro, di suo, nel caso specifico una smorfiatura, un tocco irridente, una – in apparenza scusabilissima – deformazione? Senza cioè che ne faccia maschera?

Ecco, pars pro toto, l’effigie di Antonio Riccobono (che dovrebbe essere del 1745 ed è conservato all’Accademia dei Concordi a Rovigo). Un typ più che un personaggio, un indiscusso, solenne, severo umanista: un quadro commissionato a Giambattista Tiepolo appunto dall’Accademia dei Concordi. Solo che il nostro ne ha prodotte altre, di degne effigi consimili, a volte quasi ricalchi, altre con almeno alcuni tratti in comune, sempre l’altezzosità. A esempio, affine almeno per solennità e peluria, il Ritratto di Procuratore (Venezia, Galleria Querini Stampalia) nel quale, a dire dei laudatores indiscriminati, ci sarebbe uno straordinario potere di presa sulla realtà e senza traccia veruna di caricatura. E Antonio Riccobono? Neppure qui nessuna «ciacola», nessuna possibile diceria? Riccobono, semplicemente, onestamente celebrato?

G.B. Tiepolo e la caricatura

G.B. Tiepolo e la caricatura

Perennemente aggrondato, severo giudicatore, l’effigiato compare tra grandi carte pazientemente vergate e libroni rilegati in pelle, e ha tanto pelo in faccia, come si addice ai decretatori e ammonitori; ha occhi azzurrissimi però arrossati da lunghe, prevedibili veglie; solenne è la palandrana ornata di pelli di preziose bestiole che lo addobba; di costoso pizzo sono i polsini; schienale di rosso corame ha la poltrona su cui fermamente sta, e lignei braccioli di grevi volute. Orbene, la faccia del nobile Riccobon (perché l’o della desinenza è un’aggiunta fiorentinesca. Nomen omen, intendo; e il cognome Riccobon è frequentemente reperibile in tutti gli ex possedimenti della Serenissima, dalla Dalmazia, all’Istria, al Veneto di terra) e con essa la postura del severo ammonitore si ritrovano più volte. Negli affreschi per l’Arcivescovado di Udine è infatti, e questa volta la somiglianza è immediatamente fisica, il vecchio che depreca il tentativo di Rebecca di nascondere gli idoli; è il Nettuno che offre doni a Venezia nel Palazzo Ducale; è perfino, negli affreschi della Residenz di Würzburg, il dio fluviale che abbraccia una ninfa, giovanissima donzella nuda; ma è anche l’austero vecchione che legge una pergamena nella Kaisersaal di Würzburg. Tutte figure in pose eccessive, come del resto quelle dei santi di Giambattista che sembrano, l’ha già detto Roberto Longhi nel 1946, arroganti maggiordomi «incaricati di tenere la plebaglia fuori dai cancelli con una degnativa distribuzione di spiccioli».

Il fatto è che Giambattista Tiepolo si intrufola nelle quinte, va dietro ai suoi effetti teatrali, scantona dalla sua pittoresca capacità (e sembra anzi prenderla a gabbo), è indifferente alla propria palese e frequente carenza di drammaticità, fedele com’è a una coreografia a tal punto irrispettosa delle norme accademico-tradizionali da ricordare, ma sì, le «coglionate» rinfacciate a suo tempo all’Ariosto: e capita così di vedere Marcantonio che fa il baciamano a Cleopatra. Non se lo sarebbe permesso neppure il Boiardo.

Particolarmente illustrativa, in questo senso, ma pure in tanti altri, l’Apoteosi della Famiglia Pisani (Stra, soffitto; Angers, modelletto), nobilissima dinastia che ebbe titoli feudali e (gradualmente) perdette una sfilza di signorie su isole dell’Egeo. Apoteosi che è una sarabanda di volanti geni portatori di corone, angeli trombettieri, satiri e satiresse, santi e angiolotti volitanti, disposti tutt’attorno a campiture di un ineffabile azzurro, né mancano nient’affatto solenni, anzi assai frivole, donne nude spesso di poppe generose quando non avvolte in non meno generose tuniche fluttuanti; e, naturalmente, abbondano proclamate virtù e militareschi trionfi della casata, emergenti da ombre violacee e da equilibristici scorci.

Giambattista Tiepolo o della grandiosa menzogna. Perché, se fin dal 1770 si è potuto affermare che «nacque pittore», è però altrettanto innegabile che fin dagli esordi fu dedito alla caricatura: un «vizio» al quale si lasciò andare persino nelle opere che dovrebbero essere legittime esibizioni di pietas.

Ora, che cos’è la caricatura? Se ne parlo fin d’ora è perché fa parte integrante, anzi fondamentale, di questo mio breve discorso.

A rigor di sintassi, la caricatura è un ritratto che, senza abolire la rassomiglianza con la persona, ne accentua in modo ridicolo o satirico i tratti caratteristici. E subito si pongono due domande: 1) dov’è, cos’è la persona?; 2) codesti tratti preesistono, o ce li mette l’artista? Si usano infatti espressioni come «è, pare una caricatura» a proposito di persona goffa; oppure: «è diventato la caricatura di se stesso». Designa anche imitazione maldestra: «poeti che pretendono di imitare il Petrarca e non ne sono che la caricatura». Più genericamente – leggo in un’enciclopedia qualunque – qualsiasi esagerazione di proporzioni in confronto con la realtà o la normalità, che susciti un senso di ridicolo. Però le diffuse caricature dei grandi uomini hanno la bonaria funzione di confermare, a contrario, la solennità e la grandezza: uomo tra gli uomini, il grande si concede, si presta, si umilia – e si esalta.

G.B. Tiepolo e la caricatura

G.B. Tiepolo e la caricatura

Bisognerebbe dunque supporre un assetto ordinale e si avrebbe a che fare con una (limitata) de-costruzione che lascerebbe intatto un originale. Una strizzatina d’occhio, insomma. Un’affabile teatralizzazione, se vogliamo. Rispondente però a un copione indiscusso e indiscutibile, come sempre accade con i copioni che poi sono le smentite della teatralità. Un innocuo sberleffo. Ma a che scopo? Benefico? Addirittura terapeutico? Sacramentale, un memento mori? Satana, per restare al cristianesimo, sarebbe la parodia, la caricatura di Dio, e ne esalterebbe la gloria. Dunque, neppure un gioco, ma un giusto richiamo alla virtù intesa quale doverosa norma. Così sembrano intenderla i decoratori buddisti che mettono in scena divinità – quelle che compaiono sul velo della Maya, come dire nell’inesistente – ringhianti, deformi, orripilanti; ma si sa, il buon credente lo sa, che si tratta di benevoli avvertimenti ed esortazioni a non abbandonare la speranza della scomparsa della corporeità, e dunque del dolore, l’uscita cioè dal Samsara, il ciclo delle rinascite, e quindi dal tempo, possibile a patto che si imponga la «coscienza del sublime», la «potenzialità liberatrice».

Ma la caricatura può essere ben altro. Non già una constatazione, bensì una contestazione. Un rifiuto. E proprio della normalità, dell’assetto ordinale. Non a scopo di ammonizione ed esortazione, ma di insubordinazione. Di rabbia. Di delusione. Caricatura come negatività. Ed ecco allora la caricatura accostarsi e al limite diventare tutt’uno con la maschera. Che è fuga dal canone, rivelazione dell’impersonalità della persona. Affermazione dell’insopprimibilità dell’alterità dell’immagine.

E che la tendenza, l’aspirazione quasi suprema alla caricatura sia presente in tutta la produzione di Giambattista Tiepolo, è comprovato dalla sua presenza non solo nelle opere considerate minori, anzi marginali, ma anche in quelle maggiori, le opere che hanno confezionato la sua immagine ufficiale, accademicamente accettata e dunque indiscussa e indiscutibile.

Ne fa fede l’affresco dell’Arcivescovado di Udine nel quale compare, dentro una curvilinea cornice dorata, un angiolone di statura degna di un giocatore di pallacanestro un po’ ingrassato, munito di candide ali, due sfrangiate vele che sbucano dalla veste pinta, ricamata, succinta a esibire una madornale coscia e una gentile caviglia abbellita da un prezioso gioiello d’oro e pietre; e l’angiolone annuncia, anzi impone, a una Sara ormai sugli ottanta, che avrà, e c’è poco da ridere, un figlio; e Sara è con ogni evidenza null’altri che Anetina, la gattara sdentata che nella Venezia plebea abita di fronte al Bovolo, principato di gatti che lei nutre a manciate di minudaia regalatale da un pessaor ambulante, sulla sua pessaressa, lungo un vicino canale, e gatti e pescetti valgono a tenere a bada la venezianissma, insolente coorte delle pantegane. Ed è palese che l’abito alla Sara-Anetina, lei povera popolana – povera, cadente, anche la casupola alla quale si affaccia – è stato regalato da qualche gentile dama per darle modo di ben figurare facendo da modello, ed è un ricco raso marezzato con alta gorgiera inamidata, e cosa mai può esclamare, la Saranetina, se non un «oh, Signor»?

Che il Tiepoleto sia uno «sfazadino» è poi rivelato dall’inesauribile apparizione, anche nei dipinti più sacramentali, di rosee curve femminee, pomposi glutei, tette di velluto, e le damigelle sono quasi sempre di un biondo, anzi di un rosso, quanto mai vinigiano, e capita che strimpellino, sensuose, un mandolino o si intrattengano con un colorito cocorito; e che uno dei vecchioni che hanno fatto un’improvvisata a Susanna al bagno (Hartford, Wardsworth Atheneum) la abbranchi all’ascella, un vero e proprio sexual harassement, mentre l’altro le propone, e sogghigna, una manciata di brelocchi.

Assai comicamente mossa è anche l’Apparizione degli angeli ad Abramo (affreschi dell’Arcivescovado di Udine), dove i divini messaggeri sono un trio di allegrotti sospesi a sfiorare una soffice, appetitosa nuvola e appaiono decisamente più femminei che ermafroditi come pure dovrebbero essere per celeste decreto, ed esibiscono morbide cosce, sballettano tenendosi abbracciati, al culmine dell’eleganza e della coquetterie, e sono un tricolore: bianco quello di mezzo, una buccia di mela verde quello a sinistra, e quello di destra un marmorizzato topazio con ricamate maniche a sbuffo drappeggiato di lusso carnicino. In pieno contrasto con loro l’Abramo, umilissimo, vestito di un fratesco saio e però, da sant’uomo qual è, semiavvolto da una fusciacca di ottimo panno; e il fiducioso Abramo ecco che senz’altro si tuffa, di testa, a mani giunte, nel latte-e-miele della nuvola.

Il bello è che di questa e di altre intemperanze, i committenti non si accorgevano, e tanto meno lo facevano e tuttora lo fanno gli addottorati compilatori di indagini critiche sul nostro, preoccupati soprattutto, si direbbe, di distinguere l’opera di Giambattista dalla collaborazione degli scolari e in particolare del figlio Giandomenico. Ardua impresa: ché gli stili sono non di rado a tal punto concomitanti, da far credere a una immedesimazione e a un’interrotta continuazione di modi e proponimenti.

Tutte qui le sfacciataggini di Giambattista? Nient’affatto. Che dire infatti della Raccolta della manna (Verolanuova, Chiesa parrocchiale) dove spicca un fanciulletto succinto quanto basta a esibire un pistolino in una posa da alluzzare un pedofilo, e infatti lo sbircia, facendo finta di niente, uno dei raccoglitori, un adulto che regge un’anfora.

L’esame o, se si vuole, la critica di quelle che diciamo opere d’arte mai può astrarre, è ovvio, dalla logico-discorsività, nella quale però entrano, a pieno diritto, letture fisiognomiche. Ed ecco allora, negli affreschi della Residenz di Würzburg, l’autoritratto di babbo Giambattista con il figlio Giandomenico. Il primo in abito da lavoro, tutto serio, sguardo fisso allo spettacolo della sua stessa messinscena, e Giandomenico invece in abito alla moda, capelli incipriati, a scrutare l’osservatore con distacco e con una lieve irrisione sul labbro. Perché Giandomenico, avuto l’avvio e l’imbeccata dal padre, ha portato alle estreme conseguenze l’originario gusto caricaturale: al punto da fare, della società del suo tempo, un esplicito, popolatissimo teatro dei burattini, traboccante di quei Pulcinelli, anzi «purcinei», tanto cari «a li regazzi». Maggior ritegno, forse pudore, in Giambattista; aperta strafottenza in Giandomenico.

Non saprei dire se i committenti e i compratori facessero distinzioni del genere. Certo è che hanno acquistato ben volentieri le caricature di Giandomenico, che tali erano apertamente e, forse per ovvie ragioni, più prudentemente quelle del suo iniziatore, papà Giambattista, le quali erano assai spesso un esercizio privato, sia pure raccolte in questo o quello dei Tre tomi de caricature di cui si ha notizia, ma con ben maggior frequenza contenute in fogli sparsi, ceduti comunque ai molti amatori del genere e oggi sparse per il mondo quando non siano radunate in collezioni come la fondamentale Sartorio. Invenzioni, dunque, non pensate per essere universalmente divulgate, ma proprio per questo tanto più eloquenti. Mai, comunque, vani esercizi di rilassamento, pigro riposo della fantasia, anzi un momento fondamentale della sua arte. E fu proprio questo l’aspetto che Giandomenico colse e sviluppò fin da quando fu apprendista nella bottega del padre.

È perlomeno assai probabile che i contemporanei, come spesso accade, abbiano visto nei prodotti in apparenza minori di Giambattista – opere di facile smercio, le grandiose messinscene essendo riservate a committenti e padroni di ben altri livello sociale e ricchezza – soltanto quello che volevano vedere, e non dunque l’aspetto occulto, in ciò del resto giustificati dal fatto di sborsare comunque fior di quattrini per quelle che a lungo sono state considerate espressioni di secondo rango del geniaccio di Giambattista. Converrebbe dunque parlare di un Giambattista e di un suo doppio, rappresentato certo da suo figlio Giandomenico, ma in parte almeno semiclandestino, apprezzato tuttavia da clienti meno danarosi o forse più spregiudicati. E, va detto, non ne mancavano, per ragioni personali ma anche per moventi, diciamo, oggettivi.

Quali fossero, è presto detto. Basta rifarsi alla vicenda storica della Serenissima.

Undicesimo secolo: Venezia si assicura il dominio dell’Adriatico. Dodicesimo secolo: con la partecipazione alle crociate e acquistando scali ed empori, la Serenissima getta le basi dell’impero di Levante e con l’occupazione della Morea, delle isole dell’arcipelago e di Candia, diventa la vera padrona dell’Oriente. Si scontra poi con Genova, ed è una feroce collutazione che dura fino alla fine del Quattordicesimo secolo. Una dura sveglia: Venezia capisce che deve procurarsi possedimenti sulla terraferma se vuole avere qualcosa da mettere sotto i denti senza dipendere dalle sole importazioni, ma anche, e soprattutto, per fronteggiare la ormai incombente minaccia dei turchi. Strappa al re d’Ungheria la Dalmazia, si impadronisce di Aquileia; in lotta con i Visconti incamera Brescia, Bergamo e Crema; si impossessa del Polesine e di Rovigo; mette le mani su Otranto, Brindisi, Trani e Monopoli, per tacere della Romagna e, prima ancora, dell’Istria. Ma viene osteggiata dagli Asburgo che mirano alla pianura veneta, ed è ormai vicino il redde rationem: espansione bloccata dalla Francia padrona della Lombardia e da quasi tutte le forze politiche europee unite nella Lega di Cambrai.

Ha così fine la grande politica, anche se Venezia ancora ce la fa a conservare il suo stato di terraferma e, fino al Diciottesimo secolo, a tenere faticosamente testa ai turchi, dando però l’addio alla Morea e ai relitti del suo dominio sull’Egeo. Ma il prestigio europeo di cui la Repubblica aveva goduto per secoli è ormai un ricordo del passato e nel Settecento per gli europei la città si è ridotta a essere un ghiotto centro di piaceri. Ancora uno sprazzo dell’antico vigore con la campagna (1784-85) contro i Barbareschi condotta da Angelo Emo. Ma poco più di un decennio ancora, e con il trattato di Campoformio (1797) Venezia viene ceduta all’Austria da Napoleone. Il Corso, fattosi braccio del destino, ne dispone come di cosa propria, senza suscitare forze che lo contrastino né all’esterno, né all’interno.

Il 22 febbraio 1797, il patrizio Gaspare Lippomanno scrive una lettera al genero Alvise Querini, rappresentante della Serenissima a Parigi: ultimo rappresentante, si badi, perché è proprio l’anno in cui viene compilato il certificato di morte della Repubblica, caduta in briciole e polvere come accade alle mummie cavate dal sepolcro ed esposte repentinamente alla luce. Gli ossami di Venezia, all’Austria. E i veneziani? Piangono? Si disperano? Non troppo, si direbbe.

Lippomanno: «Qui siamo immersi nello strepito del Carnovale. È una compiacenza veder questo Popolo, quasi non vi fosse alcuna disgrazia, e tutto andasse felicemente. La Piazza, le strade, i Teatri, sono con lo stesso concorso e sussurro».

Formulo un’ipotesi. Forse Lippomanno ha sott’occhio, a conferma dell’allegria da naufraghi della spensierata Venezia, non solo l’euforia bulicante per piazze e campielli – e l’euforia è sempre un segno di sconfitta (Venezia vanamente in rianimazione) – ma anche le molte opere, alcune su tela o tavola, ma per lo più su carta, di Giandomenico. Caricature, tante. Senza più riferimenti al babbo, Giambattista essendo morto a Madrid nove anni prima. Coccolato e beneficato, certo, dalla corte, celebrato per aver celebrato, con gli affreschi del Palazzo Reale cominciati nel 1764, l’apoteosi della monarchia spagnola, impero d’ogni mare e d’ogni terra, sconosciutovi ormai il tramonto. Ma l’aveva fatto senza potere o volere metterci poi molta mania poetiké, come l’avrebbe definita Platone. Si era prodotto in ripetizioni, in ricalchi di se stesso, accumulando, a volte senza molto discernimento, stendardi, nude divinità fluviali maschili, anzianotte ma ben portanti, leggiadre ninfe poco o punto coperte, castelli che spuntano incongruamente dalla selva, angioletti culnudi, coccodrilli resi innocui dall’imbalsamatura, pappagalli candidi per necessità cromatiche (ma non certo i policromi crestati ara ara dall’enorme becco e l’occhietto di giaietto); e ancora balle di mercanzie, indiani domati ed evidentemente cristian-civilizzati, deposte cioè le pittoresche faretre, gli archi, le intossicate frecce da esibizione; ed eroici conquistadores travestiti da impennacchiati legionari romani; e santi; e ancora prosperi seni, e cavalloni più da tiro che da battaglia, e sterminate campiture nuvolo-celestiali, e lembi di cristianizzati olimpi ma non senza la presenza di paganesche nudità femminili.

Un pomposo bric-à-brac da accontentare tutti. Almeno in apparenza. Perché Giambattista, essendo ormai sull’esaurirsi la sabbia della sua clessidra, ha sbattuto il naso contro l’ostilità e l’aperta deplorazione estetica di certi cortigiani e di artisti loro protetti: novatori, insomma. A tal punto livorosi che, avendo Giambattista eseguito una serie di sette quadri d’altare per la chiesa conventuale di Aranjuez, pronti fin dal 1669, alla sua morte verranno prontamente sostituiti con opere del Mengs e collaboratori.

Già, Anton Raphael Mengs (Ausig, Boemia, 1728-Roma 1779), ovvero il presunto riformatore della «corrotta» pittura barocca, traduttore, in ben più composte figure, delle teorie del suo amico Winckelmann; e soprattutto contestatore, lui armato dei canoni del gusto neoclassico ormai da molti considerato più consono alla massiccia solennità delle monarchie assolute, nonché aspirante, logica conseguenza, alla «bellezza sublime» di remota ascendenza ellenica. Roba da contesa degli antichi e dei moderni. Mengs non può che vedere come il fumo negli occhi l’esuberanza, la felicità inventiva, il virtuosismo tardobarocco, gli ardimenti formali, le folli incongruenze del veneziano in cui annusa un pericoloso concorrente anche se ormai declassato.

Certo, ci si può consolare dicendo che le suggestioni, gli eccessi di Giambattista saranno – e appare quasi inevitabile – raccolti e reinterpretati, in chiave però assai più aggrondata, da Goya. Cupe fanfaluche. Come capì Raphael Alberti, buon conoscitore dell’opera di Goya (nato, si badi, nel 1746) che ne definì l’opera quale un insieme di confronti, feroci antagonismi, negre sorprese ctoniche:

G.B. Tiepolo e la caricatura

G.B. Tiepolo e la caricatura

La dolcezza, lo stupro,

il riso, la violenza

il sorriso, il sangue,

il patibolo, la festa.

C’è un diavolo dormente che insegue

con un coltello la luce e le tenebre.

Che anche in Goya si debba vedere un umorista? Un impavido autore di eccessi caricaturali? È forse legittimo asserire che Goya mette fine a un’epoca del dipingere. Qui, e altrove, è inutile invocare l’appartenenza a categorie, a generi, a periodizzazioni. L’originalità e l’influenza di un artista si misurano con il metro dell’innovazione, e dunque della modernità. La quale è sempre una medaglia a due facce, una delle quali è sempre esaltata dai novatori nemici del passato e ogni volta protesi a tentare, della modernità, una definizione e una precisa delimitazione temporale. Senza mai avvedersi che, allora come oggi, si aveva e si ha a che fare con un concetto di carattere iterativo. Ma sì, «moderno» è Masaccio rispetto al Beato Angelico: non ha forse rinnovato la rappresentazione dello spazio mediante un uso rigoroso della prospettiva? E moderno è Mengs, rispetto al caotico Giambattista. E così via, finché la sequela delle modernizzazioni, delle ridefinizioni, non è incappata nel NO della modernità – una delle mille – dell’epoca a noi vicina: nel rifiuto, voglio dire, della figurazione intesa come fedeltà a «ciò che si vede».

(Basta girare il presente libro, questo Giano bifronte, per vederlo rappresentato, questo NO, negli esercizi di astrattismo di D’Addamo.)

Goya non è tenero con i suoi committenti. Se Giambattista Tiepolo è segretamente un sovversivo, Goya non si nasconde dietro la produzione di fastose messinscena. E se nel 1815 dipinge l’immagine di Saturno che con selvaggia brama divora uno dei propri figli, il suo non è soltanto un ritratto dell’epoca: finiti gli scambietti, i mottetti, i pastorellamenti, le ghiotte volute del barocco e del rococò: le allegrie dei trionfi della provvidenza divina e della regia bontà non possono più avere corso. La rivoluzione è alle porte, l’antico ordine delle gerarchie ecclesiastiche e secolari perduranti dal Medioevo periclita, si sfalda: si è ormai inaugurato lo scontro tra le forze in campo, ed è aperto e sanguinoso. Il tempo di Goya è di guerre implacabilmente condotte dagli eserciti napoleonici contro gli spagnoli in rivolta; e la sua opera non riflette soltanto la realtà della rivoluzione che, come l’esperienza diretta ha insegnato al pittore, divora i propri figli, ma tutto il demonismo di un mondo condannato alla rovina e alla perdizione, a un giudizio universale che ignora la grazia e conosce solo implacabili sentenze.

Goya, cioè la porta aperta. Giambattista Tiepolo, la porta ormai serrata. Dietro, Venezia, la sorpassata. E da un pezzo, anzi.

Rintocchi funebri erano chiaramente udibili da molto. Ma sarebbe occorso, per trarne le debite conseguenze, un libertino. Neppure un Sade, il Priapo imbastigliato e manicomializzato; sarebbero bastati anche i minori tra quei rappresentanti della parte oscura del Secolo dei Lumi, quello che aveva visto il trionfo della Ragione e della Scienza. Intendo i molti libertini la cui opera, stando alla celebre affermazione di Baudelaire, avevano largamente contribuito a dare il via alla Rivoluzione del 1789, non meno degli enciclopedisti. Era infatti spettato proprio a loro il compito di svelare, con l’azione e con le opere disdicevoli, gli altarini del potere e di negarne la necessità smascherando la teocratica «festa dei sovrani». Dell’erotismo costoro si erano serviti come di uno specchio, di un emblema messo però al servizio di una precisa ideologia: erotismo come leva con la quale scardinare l’edificio sociale.

Ma a Venezia, a stento ci si avvide che nel Settecento era in atto il distacco delle colonie americane dall’Inghilterra, che sull’Europa si accumulava la tempesta e che era ormai in atto la fine del «bel tempo che fu». Alla Serenissima  furono risparmiati gli orrori delle guerre di popolo: eventi ancora abbastanza lontani, che potevano pur sempre trovare eco in motteggi, ciacole e sollazzi; per esempio, appunto nelle «sporcherie» di Giorgio Baffo, nei sonetti da lui distribuiti – ne aveva sempre le tasche piene – a nobili cittadini importanti, ma anche a bottegai, farmacisti, gondolieri e facchini. E trovare espressione nel «libertinaggio di piccolo cabotaggio» di un Giacomo Casanova, anche lui indifferente al fatto che la patria stava per essere «perduta» e con essa «la vita, seppure ci sarà concessa», come fa dire il Foscolo al suo Jacopo Ortis, esule veneto. Il quale, nelle  Ultime lettere, disperato si suicida. Cosa che non credo capitasse spesso in una Venezia che continua a tenersi le felici colline, i boschetti, i lemmi fiumi dell’entroterra, le isolette della laguna (che a contarle riescono solo gli angeli con la spada sguainata in cima ai campanili), ed è alle prese con provvedimenti come l’obbligo di mettere il collare ai cani, emanati da Senatori, Savi e Inquisitori appena capaci di «governare piègore e puttane» (Baffo dixit).

Quei rintocchi funebri avrebbero dovuto essere colti. Ma si poteva, sia pure alla luce di fatti incontrovertibili? Cosa restava, se non il rimpianto, certo, ma soprattutto una sorta di Galgenhumor, l’umorismo della forca che consiste nel ridere della «putta dal lungo collo» e, per i più scanzonati, insegnare al boia a fare a modino il nodo scorsoio?

Quando dunque Giambattista ha cominciato a produrre le sue caricature, quelle da lui passate in retaggio a Giandomenico? Quando ha messo in scena i suoi primi «puricinelli»? Poteva sembrare che la tragedia avesse ceduto senz’altro il posto alla farsa, e che fosse giustificato che le calli, le piazze, i rii, i porteghi di Venezia riecheggiassero di risate. Spensierate? Ma rideva già Anton Mario Zanetti (Foglio di caricature, 1729 ca.), che era stato maestro di Giambattista, e che si autoritrae quale scheletro che esce dalla propria bara. Forse del 1730 è un Pulcinella di Giambattista a braccetto di una dama. Documento di costume? Sfogo d’umore a prima vista scherzosetto, o non invece assai più amaramente aggressivo, come del resto il nasone adunco e la spropositata bigobba del suo Pulcinella?

Al pari della modernità, Giambattista mostra dunque, e almeno dal 1720, le due facce di cui si è detto. Una delle quali, la «seriosa», è stata oggetto di una vera e propria iperdulia, a pieno scapito dell’altra, la «comica» che però è da subito acuminata critica e rifiuto. E Giambattista vede dunque, e la rappresenta, una Venezia, anzi il mondo tutto, come un formicaio di tipi bizzarri, riassunti, culminanti nell’immagine del nasuto bigobbo, insieme padrone e servo, insolente nella prima versione, povero diavolo cornuto e mazziato nella seconda, atteggiantesi ad azzimato straccione. Difficile dire chi ha introdotto, nella sommessa Venezia, codesto bel tomo fantasmatico, protagonista di una storia di miserie ed eccessi, una turpe biografia senza nessuna morale della favola (Pulcinella, vita da disgraziato, finisce impiccato). Chi ne ha intuito le potenzialità espressive? Chi, insomma, lo ha reinventato? Giambattista, oppure suo figlio Giandomenico che con lui viveva a stretto contatto di gomito come apprendista e collaboratore, per esempio a Udine?

G.B. Tiepolo e la caricatura

G.B. Tiepolo e la caricatura

Reinventata o importata che sia stata, senza dubbio l’idea-Pulcinella risaliva assai più indietro. Icona della tradizione popolare, transitata per la Commedia dell’Arte in Italia, in Francia per le mani svelte e i piedi scambiettanti degli attori di giro emigrati che mendicavano e buffoneggiavano sul Pont-Neuf parigino. L’idea, fosse o no indigena, sembra che sia stata ripresa da Silvio Fiorillo, attore napoletano che nel 1621 ne impose la maschera elevandola a personaggio teatrale. All’inizio, Pulcinella fu gobbo e allampanato, fratello anche nell’aspetto dell’altro Zanni, Arlecchino. Con la differenza che a Pulcinella Fiorillo impose, anziché la policromia, il camiciotto e i calzoni bianchi da facchino, lasciandogli però la spatola alla cintola e calcandogli in testa un cappello bicorno.

Ma alla fine del Seicento, Pulcinella ha già il cappello a pan di zucchero e si presenta in numerose versioni. Ad Acerra (Napoli) è diventato Cetrullo amante del dolce far niente, ubriacone, pronto a lasciarsi bastonare, personificazione dell’abbandono popolaresco, dedito al furto, alla menzogna, alla gola e alla burla. In Inghilterra è diventato Punch, in Spagna Pulchinelo – e a Venezia?

Che sia stata davvero un’invenzione di Giambattista? Nelle sue immagini a Venezia il cappello a pan di zucchero, fosse o meno una sua trovata, acquista nuova funzione, diventando molto spesso una pignatta dove la ciurma dei Pulcinelli, ormai diventati insolente ma pur sempre piagnucolosa e bistrattata popolosa, invadente torma, nell’immaginazione di Giambattista cuociono, fedeli alle povere preferenze culinarie della plebe, spanciate di gnocchi su magri fuocherelli.

Malinconia e umorismo, certo. Ma si ricordi che il fratello di Pulcinella, e Pulcinella stesso almeno nella versione dei commedianti italiani girovaghi in Francia, avevano connotazioni ctoniche: Hallequin, il diavolo comico delle rappresentazioni medievali francesi. E in una caricatura di Giandomenico, sbracato e malinconico umorista, una schiena di Pulcinella (anno 1793) si affanna ad abbattere a spinte, a pugni, a calci, persino con scuri, l’Albero della Libertà. Che gli frega, ormai, ai Pulcinelli?

E assai prima Giambattista aveva messo in scena, a far loro degna compagnia, una folla di gentiluomini caricaturati. Chissà se ha continuato a farlo a Madrid, anticipando ancora una volta Goya? Tutta Venezia è, costantemente, in bautta. Chi si può rispettare e risparmiare?

Maschere: a Venezia in una versione particolare, ed è la bautta, settecentesca esasperazione della maschera cioè della mobile teatralità che supera il teatro della tradizione che è statico. È un mantelletto nero di seta con cappuccio aperto a lasciar libero il volto, e nell’apertura una mascherina. Maschera sulla maschera, immagine che non può essere visiva. Se ho detto prima che il bauttato Pulcinella è un personaggio, va inteso come negazione del soggetto. Inacchiappabile. Venezia inafferrabile. Come del resto ogni immagine che vuole nascondere qualcosa di reale. Ma quale, se dietro la maschera c’è un’altra maschera, e così all’infinito? Grandiosità di Venezia sul finire. Venezia, rivelatrice dell’inafferrabile. Dobbiamo deprecarne il crepuscolo? O compiacerci della sua rivelazione dell’inarrestabile fluidità dell’oggetto? Di ogni oggetto di cui il soggetto è un complemento? La bautta è brutta. Lo è quella della damina: ne fa spettro. Lo è quella deformante della inesorabile deformazione. Il bello sta nell’iperuranio. Inattingibile. Solo filosofeggiato.

Ma non era più solo a Venezia che si rideva. Lo faceva l’Italia intera. Italia sotto censura. I vari poteri che si spartivano i «pezzi» dell’Italia, tutti accomunati in un unico Grande Proibitore, la maschera a foggia di mitria della Chiesa, cioè l’Indice dei libri proibiti. Imitata a rendere desolato il paesaggio letterario e artistico a partire dal Seicento, dagli stati nati dalla frammentazione, divenuti maestri del vietare sistematico, organizzato, onnipresente, automatico – e in larga misura introiettato. Autocensura, in una parola. Le cui premesse vanno individuate nella Riforma e Controriforma. Che ebbero per effetto di spegnere gli «ultimi fuochi», in primo luogo quelli della letteratura erotica italiana, stata ricchissima nei secoli precedenti; ma, più ancora, della scrittura italica – e ne scontiamo ancora oggi gli effetti. Resistettero, approfittando della scarsa diffusione dei rispettivi dialetti, quelli che vorrei definire i «sotterranei». A Venezia e altrove, i caricaturisti, gli ironisti, i comici, ai quali vorrei aggiungere gli anonimi insultatori del papato con i loro foglietti appesi alla statua romana di Pasquino.

Ho già accennato a Giorgio Baffo; mi limito a ricordare a Milano Carlo Porta (1775-1821), in Sicilia Domenico Tempio (1750-1821), a Roma Gioacchino Belli (1791-1863). Per Belli, il monumento in versi dedicato alla plebe romana in pieno contrasto con l’umiliante conformismo al quale era costretto dalle vicende della vita: il linguaggio violento e spietato del popolo con cui raffigurava l’ingiustizia, il ridicolo della Roma papale condannata da secoli a un’esistenza di rassegnazione beffarda, di scetticismo e larvato ribellismo. Tempio che morì senza vedere pubblicate le sue opere «licenziose»; Porta i cui «quaderni», lui defunto, vennero consegnati dal figlio Giuseppe alla manomissione operata dalla pruderia iconoclastica del canonico Luigi Tosi, assistente spirituale della famiglia Manzoni e poi vescovo di Pavia, connivente Tommaso Grossi. («Tra le gabelle e i dazi esorbitanti imposti dal Ministro Prina non si pensa più a fottere», è il titolo di una delle ultime poesie dialettali del Porta.)

Un clima generale, dunque. E a Venezia, i «sotterranei» erano molti, quelli che cercavano sfogo (e redenzione) nella caricatura. Vediamo Giambattista Tiepolo all’opera in questa temperie. Oserei dire che la sua produzione comica appare più genuina, più immediata, più indiavolata delle sue maestose coreografie, celebrative certo ma, come ho detto, sempre con una goccia di veleno. Involontario? Tale è stato ritenuto allora, e oggi ancora. Ma si direbbe che Giambattista si sia volentieri affrancato da tante istrionesche celebrazione delle Apoteosi.

G.B. Tiepolo e la caricatura

G.B. Tiepolo e la caricatura

Mi limito – lo spazio è tiranno – a pochi esempi, frutto della sua ricerca di un nuovo genere. Ecco un rozzo, grassissimo monaco con una chiave in mano, e la scritta Miror amplitudinem meam otii fructus/Tiepolo f. (fecit).

Del 1744 un «Uomo di spalle con tricorno e lungo mantello», una testa piccolissima sormontata da un lungo e voluminoso mantello che gli arriva ai piedi. Uno spettro.

«Un gruppo di gobbi» (1730 ca.): un disegno di Pulcinella ancora senza Pulcinella.

«Uomo seduto su una seggetta», che anticipa i modi di Giandomenico. Appartiene al basso ceto sociale, ma la postura è quasi feudale, l’espressione è altezzosa, a palese imitazione dei «siori».

«Personaggio grasso che indossa un lungo mantello e un tricorno, visto di schiena». Appartiene a un ceto superiore.

«Due dame viste di schiena», appartenenti alla buona società.

«Gobba vista di schiena» (Inutile dire che questi foglietti, diversamente raccolti e dispersi sono stati oggetto di accuratissime ricerche bibliografiche e interpretazioni, perdendo di vista il sotteso intento contestatorio.)

«Religioso di profilo a sinistra». Un volto piatto, concavo, con occhi faineschi, che si continua nella convessità del ventre su cui posano compiaciute le manotte che sporgono dai polsini.

«Giovane con spadino « (1750 ca.). Una mezza spirale. Testa incipriata e impennacchiata, deretano sporgente concluso dalla coda dello spadino, gambe arcuate posteriormente, quasi a controbilanciare, nella posa compiaciuta, il peso del grosso braccio con mano guantata uscente dal grottesco polsino.

«Pulcinella a braccetto di una dama » (1743?). Enorme il naso, merlettato lo scialletto che copre la gobba della maschera che vuol essere elegante e guarda la donna avvolta in un grandioso mantello, con un sorriso, uno sbrego che gli arriva all’orecchio. Il cappello si è ridotto a pentolone da gnocchi.

«Pulcinella che orina». Anche qui, un collarino merlettato che decora l’erniosa gobba, e il cappellone pignatta.

«Gruppo di Pulcinella cuochi». Sono «tra i più bei pulcinelli del mondo, di mano del nostro celebre Tiepoletto», scriveva nel 1761 il Conte Algarotti, collezionista del Tiepolo, all’amico francese Pierre-Jean Mariette. Umorismo e malinconia, in questi poveri, bramosi ghiottoni che cuociono la vivanda di rito nel solito cappello-pignatta con i nasoni quasi nella broda.

«Pulcinella che sta defecando» osservato da altri scatologici suoi pari che festeggiano l’evento plaudenti alla lunghezza dello stronzolo in uscita.

Qui mi fermo. A Giandomenico continuare le avventure di Pulcinella che nella sua narrazione viene condannato, va in carcere, ne esce, viene portato in trionfo, viene burlescamente fucilato da altri Pulcinelli. Morto, viene deposto in una bara di assi, e già Giambattista ne aveva trovato la misera tomba.

Vorrei concludere con il «Gruppo di Pulcinella sulle nubi» di Giambattista, che tanto ricorda un gruppo contenuto nell’Apoteosi della famiglia Pisani, «siori» anch’essi sorpresi su una nube, e altrettanto comici nella loro serietà, soprattutto il giovane grassotto che appoggia la testa alle floride poppe della tenera matrona che lo sorregge.

Eclissi di Venezia, e i due Tiepolo ne ridono, papà con una mano prudentemente alla bocca, che altro potrebbero fare?