L’oralità – di Gabriella Landini

All rights reserved © Gabriella Landini
Immagine di copertina dettaglio illustrazione © Francesca Pelizzoli,
tratto da Dei spiriti e re della mitologia africana, Arnoldo Mondaori Editore, 1987; Archivio F. Saba Sardi

Parliamo, l’oralità è parola, silenziosa o a voce alta, sia nell’atto del dire-dicendo che nella lettura, nel gesto, nelle movenze, l’oralità è intoglibile quanto la voce. Distinguere fra lingua orale e lingua scritta è un tentativo di designare i luoghi deputati in cui esercitare il dominio della parola. Quel chi, dove, quando e come sia lecito o proibito parlare. Parola verbalizzata, ripulita da malintesi, parola da canone, parola linearizzata, mobilitata. Dunque parola non più libera, non più immediata, bensì mediata e codificata in spazi e tempi scanditi da tribuni e giustizieri, dove l’incontro è istituzionalizzato e nulla è concesso al sorprendente e al casuale.
Nell’immediatezza abbiamo giocato con una conta, intonato note musicali e canti, ci siamo addormentati con una ninna nanna, abbiamo invocato preghiere e litanie, declamato orazioni, recitato cantilene e filastrocche, sentenziato proverbi per ogni evenienza quotidiana, abbiamo scandito il ritmo del lavoro, narrato e ascoltato favole, conversato a tavole e banchetti, inventato poemi, tramandato l’epica, dettato la Bibbia e testi sacri, interpretato tragedie e commedie a teatro, atteso cantastorie e saltimbanchi alle fiere di paese, pronunciato dialetti. Stiamo e viviamo nell’oralità, ogni cosa che ci accade avviene nell’oralità, ma non va senza  la scrittura, ovvero la memoria. La memoria scrive e si scrive, le sue tecniche vanno dalle incisioni su tavola alla stampa in varie forme. Nell’atto di parola qualcosa avviene, il narrato conduce il fare che si scrive e traccia la memoria. Giocando a battimani, il modulo vocale veniva e viene mandato a memoria, e non solo, il ritmo scandito dal battito delle mani o dallo sradicare piante nelle risaie permetteva le variazioni delle narrazioni e del testo esposti all’improvvisazione dell’istante. Nell’oralità è insita la coralità, il con dell’immediato, l’incontro con l’altro che prende talvolta a pretesto un qualsivoglia modulo metrico, altre il sovversivo verso libero, per sancire pieghe impreviste dell’andamento narrativo producendo sbocchi inediti nelle costumanze e conseguentemente nel diritto. L’abolizione forzata dei dialetti per obbedienza a una modernità imposta di principio, secondo un sistema uniformante ha impoverito la lingua nonché la cultura in generale, la cui modernizzazione altro non è stata che una riduzione colonizzatrice, necessaria solo a scopi finalistici e anticulturali. Così come si parlano più lingue straniere, non c’era ragione di sminuire le lingue regionali a dialetti. Lo sradicamento delle parlate esclusivamente orali ha però permesso il controllo e la subordinazione di intere popolazioni altrimenti impensabile. E questo accade in ogni istante in ogni parte del pianeta. Andavano e vanno ancora sterilizzate le memorie altre, le lingue altre, di cui l’oralità è ricchezza, forza e liberalità, per imporre un unico stile gerarchicamente progressista a seconda del modello imposto da chi impera. L’oralità risente fortemente della mutevolezza aritmica del tempo, ragione per la quale viene regolarmente irrigimentata. Ma che l’oralità non vada senza la scrittura lo dimostrano le chat o la produzione video dove accade che sia la scrittura a tendere verso l’oralità. Il tentativo di concedere al testo scritto un primato rispetto all’oralità è semplicemente decretato dalla presunzione del potere di governare con un’oralità pontificale (quella che commenta lo scritto ritenuto legge ontologicamente fondante), il libero dire parlando. L’oralità rimane comunque insituabile, altra nell’atto dell’incontro, imprevedibile, non unificabile o riducibile. Liberalità e diritto si nutrono del vagabondaggio a coro dell’improvvisazione orale.

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Cecco Rivolta

C’era una volta Cecco Rivolta

che rivoltava i maccheroni:

se la fece nei calzoni.

La sua mamma lo picchiò,

Cecco Rivolta s’ammalò.

S’ammalò di malattia,

povero Cecco lo portarono via.

Lo portarono all’ospedale,

povero Cecco si sente male.

Lo portarono al camposanto,

povero Cecco ci rimase tanto.

Lo portarono in Paradiso:

viva Cecco che mangia il riso!

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Variazione di rimando

C’era una volta Cecco Rivolta

che rivoltava i maccheroni,

e se la fece nei calzoni,

la sua mamma lo picchiò.

“Per dispetto ce la rifò!”

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