Tre fantasmi d’amore – di Mariangela Venezia

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Nella semioscurità di un antro variopinto, cullata da un’onda di brusii contemporanei, come avvolta di ovatta da neve metallica, stratificata e spessa, mi entrasti, nella pupilla disillusa. Formidabile. Lampeggiante di luce nera e invincibile. Eretto e impavido, crudele, nel piglio del braccio d’acciaio. A te, odorosa di succo di luna e fieno assolato, abbandonata all’impeto senza vacilli, all’assenza di tormenti e inciampi del tuo torace di marmo, affidai ogni sobbalzo e assenza, ogni intuizione e presagio, ogni anelito e bonaccia. A te che sgominavi la vita a colpi di certezze imbattibili mi aggrappavo smaniosa, in cerca di aìta e coraggio.

Quel dì che cadesti a stento ti vidi, moristi, piangesti neppur mi ricordo, non eri più tu, né nero né argento, si sbriciolò in carta vecchia il mantello regale. Il tonfo in lontananza mi parve di udire, il tonfo dell’Acheo che mi cadeva dal cuore.

Da vita in vita prima o poi si procede, mi ingommo i mostacchi e mi attardo a osservare. La scelgo dorata, arguta e sommessa, le prendo nell’aria la misura dei fianchi. Mescolando due iridi nascerà un verde mare, con riflessi accennati di terra d’agosto. Avrà gamba lunga e caviglie leggere, avrà mani forti e movenze eleganti, avrà voce fonda e parole taglienti, se osservando ora compro la carne migliore. Ma aspetta, ho il timor di un imbroglio, come ho la certezza che fecondo e eccellente sia questo giaciglio? Dovrei aprirle le testa e rovistarle i pensieri, dovrei indagare le budella e scongiurar geni marci, domandare,  sondare, pretendere firme, raccogliere i capelli che lascia cadere.

Perché venga perfetto, d’aspetto e d’intenti, occorre certezza dell’argilla migliore. In fondo c’è tempo, mi prendo un istante, per essere sicuro mi serve la mente. Schivando singhiozzi, difetti e rimpianti, rimando la scelta e rimango a osservare.

Verrà di soppiatto a togliermi il fiato, vestendo di notte quest’orrido sole, verrà roboando un silenzio assordante, verrà non volendo, verrà mio malgrado. Non chiede non dice mi lancia l’azzurro, non chiedo non dico mi muto la pelle. Mi ride l’orecchio, mi sovviene il sentire, come un ritmo lontano di viola scordata.

Per negazione avanzo, resistendo saltello e poi trotto e poi corro, la loquela è polposa e ha gusto di mora. Viaggiando d’asfalto, furfantino e segreto, lo spazio svanisce e con esso il ritorno. Ho cuore d’oceano e braccia di foresta, vibrazioni ignote e sogni imprevisti. Ho occhi sovrapposti e fonemi incrociati, rossori sotto pelle e seduzioni infinite. Vestirsi d’ignoto per trovare la strada, giocare al segreto perché tu possa ammirarmi.