Il Troll – di Hans Henny Jahnn

All rights reserved ©Hans Henny Jahnn, Perrudja, 1929; Fluß ohne Ufer, 1949-1961;
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Hans Henny Jahnn, è un autore tedesco tra i più grandi del Novecento, internazionalmente poco noto anche se meriterebbe di essere letto e valorizzato quanto James Joyce o Marcel Proust.
Francesco Saba Sardi aveva tradotto nel 1966 Das Holzschiff (La nave di legno), primo volume della trilogia Fluss ohne Ufer. In seguito Francesco Saba Sardi aveva preparato un ulteriore lavoro di traduzione delle opere di Hans Henny Jahnn rimasto inedito e da cui sono tratte queste brevi pagine.

Il TROLL

C’era un ortolano che abitava sulla baia, in una piccola casa di legno, situata a cento metri d’altezza sul fiordo, a mezza strada tra questo e la parete perpendicolare di granito rosa del massiccio del Blaaskavl. Si chiamava Lars Esolheim. Era molto vecchio. I suoi capelli erano lunghi come quelli di una donna e candidi come neve. E anche la sua barba era bianca e, al vento, pareva argento vivo. L’uomo era piccolo e magro. Da decenni a quella parte, non aveva mai mangiato un pezzo di carne. La sua pelle era cerea e gialla come il riflesso di un fuoco in cui sia stato gettato del sale. Lo si sarebbe detto un morto. Quando mi rivolgeva la parola e mi trovavo il suo volto a un palmo dagli occhi, non potevo reprimere un moto di orrore. Mi sembrava che non avesse un’espressione umana, e neppure uno sguardo d’uomo, per non parlare del modo di fare e di ragionare. Inoltre, puzzava come una carogna, e questo non faceva che accentuare l’espressione di estraneità. Mi regalò dei fiori: ed è poco meno che una pazzia, per chi viva a Vangen. Era un uomo di scienza. Aveva avuto dimestichezza coi troll.
È una follia, lo si sa, tentare di ricostruire, mettendoli per iscritto dei discorsi vaghi (quali fatti e conclusioni, del resto sono certi?). Eppure, non so resistere alla tentazione. L’ortolano mi ha indicato il luogo in cui, benché assai di rado, andava ad attendere un troll: una costa diruta, ricoperta di pietrisco, che scende quasi a perpendicolo, porta i piedi del muraglione meridionale del Blaaskavl. Riesco ancora oggi a rivedere dentro di me, per niente impallidito nel ricordo, quel paesaggio. Pure, i miei pensieri, anche una volta filtrati attraverso i sensi, riescono a mettere assieme soltanto un paio di suoni descrittivi. Parole d’uso generale.
Mi proverò a dare, sia pure parzialmente, un’idea di quel paesaggio di monti e fiordi; in altre parole, fonderò assieme i singoli avvenimenti che mi propongo di riferire, l’ambiente e gli effetti degli anni – decine di anni – trascorsi. Il pietrisco è formato di ardesia, del tutto inaspettato. È come una lieve ruga sulla roccia, e neppure: come un lembo di tela, duecento metri quadri, stesa sul fondo di granito. Da un crepaccio, sbuca un sottilissimo filo d’acqua. Un boschetto di betulle, fitto di piante cresce dal bracciame là, dove si sminuzza il terriccio. Ai piedi delle betulle, spunta una magra erba. È un luogo così dolce, che neon sembra reale, bensì immaginario. Ma la cosa più straordinaria, la singolarità dl luogo, e la udibile tristezza e il penetrante silenzio di altre impressioni. Direi che, perfino quando la tempesta si precipita turbinando giù dal Flaamsdaal e da oltre Oyje, il luogo conserva alcunché del suo sonoro silenzio, qui sepolta a mezzo sotto le foglie di betulla di un ultimo autunno, si trova una pietra. Una grossa pietra, come ce ne sono tante. Era accanto a questa che, in certe notti che sapeva lui, l’ortolano si distendeva a dormire. E riposava, in perfetta tranquillità, finché un troll non lo svegliava. Questo è quello che mi ha raccontato. Nulla però m’ha svelato dei discorsi che si facevano tra loro. L’ortolano s’intendeva di erbe dotate di virtù particolari, che permettono di ottenere tutto ciò che si desidera. E può darsi che l’abbia appreso standosene lì, accanto alla pietra.
I troll sono gli avvocati degli animali. Visitano coloro che fanno del male alle bestie. Certe creature, loro beniamine, non è lecito ucciderle. A volte si innamorano di una alce femmina o di una renna. Anche gli animali domestici sono sotto la loro protezione. Per esempio, vi sono delle vacche cui i troll si fanno un dovere di vuotare le mammelle succhiandogliele. Ciò che solo apparentemente va a scapito dei contadini. I troll, al pari degli angeli, sono di sesso maschile. Questo non è un segreto; non si sa invece nulla o quasi della loro origine. Si vuole che siano un po’ più piccoli degli uomini (ho però sentito dire anche che sono più grandi) e privi di barba, e così sarebbe da millenni. Se ne vanno vestiti come contadini: calzoni neri, legacci multicolori. Attorno al collo, un fazzoletto rosso. Non s’è mai visto un troll che ne fosse privo.
Chiesi all’ortolano: “Quali sono le notti adatte”? Lui non rispose.
L’ortolano era malato di cancro. A dirmelo, fu una sua figlia, donna già matura, che gli accudiva la casa. Le rivolsi in risposta, uno sguardo rattristato e interrogativo.
“Sì, lo sa”, rispose la donna “ma non ne morirà. È protetto fino al centesimo anno di età.”
Gliel’ha raccontato lui?” Chiesi.
La donna annuì e soggiunse: “Io non ci credo. A volte, mi sembra che sia già morto. Non mangia più niente.” Lacrime le scendevano dagli occhi.
“Lei gli vuole bene?” Chiesi, diffidente.
“È un invasato, o forse un eletto”, fu la risposta. “Credo che abbia avvelenato mia madre. No, non gli voglio bene. Puzza come una carogna.”
“Ma che cosa dice!”, la redarguii.
“Non riesco più a pregare. E non riesco più a tacere. In questa casa, succedono cose incredibili.”
Una sera, l’ortolano rese l’anima. Divenne, cioè rigido e immoto, e più giallo ancora. La figlia corse a Vangen a riferirlo. Non gli fece la veglia funebre. Dormì, era piuttosto stravolta, presso certe persone caritatevoli.
Il mattino successivo, il vecchio tornò ad alzarsi come se non fosse mai morto. Il cuore non gli batteva, i polmoni non aspiravano aria, la sua pelle era fredda, simile a cuoio, e gli occhi, spenti e scuri. Anche lui scese a Vangen, andò al mercato tra gli uomini e le donne, i quali sapevano, tutti, che era morto. Uomini e donne lo vedevano e gli dicevano: “Ma tu non esisti più.”
E lui: “Eh, ne vedrete ancora di belle.” E stava sulla piazza del mercato e non aveva nulla da fare in quel luogo. Diceva: “Fiori”, come se avesse da venderne: ma non teneva fiori tra le mani. Andò fino all’uscio della bottega di Olaf Eide, ma non l’aprì. Strisciando i piedi sulle piastrelle, giunse ai gabinetti dell’albergo. Aprì le porte chiuse, sbirciò dentro. E invece, non mise il capo nella chiesa, non degnò di un’occhiata il cimitero. Molte le cose che lo sguardo dei suoi occhi ciechi penetrava. Notò qualcosa di nuovo. Disse: “Il Ragnvald ha ossa robuste. Tra cinquecento anni, ancora non saranno sfasciate. Non teneva in alcun conto la carne, i muscoli. Tornò a casa, si distese, fu morto. il mattino successivo, rieccolo sulla piazza del mercato.
“Che ci fai qui?” strillarono i ragazzi.
“Cerco uomini con ossa da cavallo”, disse lui “Ossa di vetro, belle ossa bianche e solide”. Il Ragnvald e te, Per, e te, Kaare, e te, Sigurd.” E toccò quei tre, scegliendoli tra gli altri.
Il terzo giorno pronunciò diciotto nomi. Ogni giorno ritornava, si guardava in giro per vedere se qualcun altro era calato dai monti, palpava i ragazzi. Dopo un po’, prese a comparire all’improvviso nelle case: guardava lascivamente le giovani donne, rantolava. Era una sfacciataggine che quelli di Vangen non intendevano tollerare.
Gli dissero:
“Hai un grugno di porto puzzolente.”
“Lo so, replicò lui. “Ma passerà.”
Svend Onstad, che era calato dalla sua fattoria e che ne aveva sentite di cotte e di crude su tutta la faccenda, disse a Lars Sol Heim, l’ortolano: “Se vuoi, vieni su alla mia fattoria e parla con mia moglie: vedrai che ti accadrà qualcosa che non ti piacerà affatto.”
Rispose il vecchio: “Ma certo, certo che ci vengo.”
Le cose, però, andarono in tutt’altro modo da come se l’era immaginato il giovane agricoltore. Nel crepuscolo, lungo la strada che portava ai monti, all’improvviso l’ortolano si drizzò davanti a lui, flessibile come un gatto e secco come un ramo sfrondato. E nell’aria, un’ombra marcia. Svend Onstad sentì le mani irrigidirglisi. E il vecchio parlò, parlò in fretta, come se la sua voce fosse una cascata, o la vicina cascata la sua voce. E il giovanotto non seppe spiccicare parole in risposta.
“Tu sei giovane. I giovani con le ossa solide devono combinare qualcosa. Ben presto saprai quel che intendo dire. Quest’istante e il resto, e il ricordo, beh, tra poco non ci saranno più. Tu ti affretti verso la tua bella sposa. Le tue gambe possono percorrere anche altre strade. Te lo dimostrerò. Perché prima ti raffreddi un po’ i bollori. Non occorre che tu dica niente. Tra un istante, noi due ci intenderemo”. Disse. Si avvicinò. Fece balenare qualcosa nell’aria. Forse un nulla. Pure, Svend avvertì un ignoto dolore nel cranio. lì giacque, il giovanotto. E il suo cavallo, spaventato, si scostò. Tremando, partì al galoppo. Stronfiò. Si calmò. Tornò al passo.
Svend Onstad si alzò da terra. disse: “Sì, d’accordo.” Entrò nella sua stanza. Vide sua moglie. Svend Onstand la strangolò. Così, senza motivo. Facendolo, non provò nulla. Accanto a lui, stava l’ortolano. L’ortolano non disse nulla. I tre non avevano più nulla da dirsi.
Quando, il giorno dopo, Svend Onstad inaspettatamente ricomparve a Vangen, aveva una ferita nera in mezzo alla fronte. Parlò vagamente di qualcosa che gli era accaduto tra i monti. All’improvviso, spiccò la corsa e andò a sbattere la testa contro il muro del cimitero – come un toro di primavera, quando il bestiame viene fatto uscire per la prima volta, che se la prende con un cespuglio o una giovane pianta : come se volesse sfasciarsela. Tre volte, batté il cranio. E il suo cervello apparve allo scoperto, sanguinante.
Una frotta di monelli corse lungo la baia alla casa dell’ortolano. Ve lo trovarono. Giaceva nel suo letto. Era immobile e muto nell’aldiquà. Così ebbe fine il fosco, incomprensibile fenomeno, che era durato un anno intero. Una rivolta, era stata: impossibile però, dire contro chi o che cosa. (…)