Joas – di Hans Henny Jahnn

All rights reserved ©Hans Henny Jahnn, Perrudja, 1929; Fluß ohne Ufer, 1949-1961;
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Hans Henny Jahnn, è un autore tedesco tra i più grandi del Novecento, internazionalmente poco noto anche se meriterebbe di essere letto e valorizzato quanto James Joyce o Marcel Proust.
Francesco Saba Sardi aveva tradotto nel 1966 Das Holzschiff (La nave di legno), primo volume della trilogia Fluss ohne Ufer. In seguito Francesco Saba Sardi aveva preparato un ulteriore lavoro di traduzione delle opere di Hans Henny Jahnn rimasto inedito e da cui sono tratte queste brevi pagine.

JOAS

Joas è perito nel turbine della lussuria. In precedenza un artiglio aveva fatto di lui un monocolo. Infine, è scomparso del tutto. Forse, un pellaio gli ha strappato di dosso la pelle. Tuttavia, L’impulso all’accoppiamento non è meno nobile o più peccaminoso dell’impulso a riempirsi lo stomaco. All’inizio, Joas alloggiava nella stalla, insieme a cavalli e giumente. Il suo compito, consisteva nel tenere lontani topi e ratti. Numerosissimi sono i sorci che si insediano nelle mangiatoie e tra lo strame, trasportativi insieme alla paglia, al fieno e all’avena. Oppure, possono penetrare attraverso la porta aperta sull’aia. Tra ottobre e novembre,anche i ratti tentano di mettersi al riparo, e amano, come del resto ogni altra bestia, vivere tra il cibo accumulato. Era a questi intrusi che il gatto doveva far paura.

Molti contadini, pochi cittadini, hanno avuto modo di constatare con quanta rapidità nei granai la gialla messe si trasformi in vuota crusca, se si permette a topi e ratti di darci dentro indisturbati. Incredibile la velocità con cui i roditori si moltiplicano. Ogni sette settimane, i ventri delle femmine scaricano una frotta di piccoli privi di pelo. Una volta in un nido di ratti, ho contato ben quindici lattanti, tutti vivi. E a quanta poca distanza dalla nascita questi siano in grado a loro volta di accoppiarsi, è cosa che si può comprendere se si tiene presente che, a due anni di età, un topo è un vegliardo. Nel giro di ottocento giorni, il cuore di queste bestioline pulsa tante volte quanto un cuor di elefante durante duecentovent’anni. Per essi, il tempo è per così dire, concentrato; e però quei due anni costituiscono pur sempre un’intera vita. Anche i tronchi vecchi di cinquemila anni, in fin dei conti non hanno che una vita. L’esistenza del cavallo è più breve di quella dell’uomo, ma le oche selvatiche coprono, con le loro migrazioni, più di un secolo. Il numero dei piccoli roditori sarebbe ancora maggiore, se tra essi il numero di maschi non fosse così elevato. Tra i topi in particolare, ogni venti- venticinque individui, si trova una femmina. Intere annate di lemmi possono essere formate da individui maschi. Accade a volte che questi percorrono miglia e miglia, una torma preda a una cieca disperazione formata da decine di migliaia di esemplari, i quali magari si gettano in mare, nuotano per un tratto e annegano. La natura, che dappertutto spreca la sostanza seminale maschile, contraddice a qualsiasi morale; la natura ha insediato anche le malattie e i parassiti tra le specie che si moltiplicano con tanta violenza e i cui individui quindi muoiono o vengono divorati in numero incalcolabile. I vermi prosperano a spese delle loro interiora, i polmoni vanno a pezzi, il pelo pullula di acari e pidocchi, vaiolo e peste li decimano. E di che cosa vivrebbe la volpe, se non vi fossero topi nei campi? E gli uccelli da preda, non danno forse loro la caccia per nutrirsene? Non c’è quindi da meravigliarsi se, con quella dieta, le volpi siano spesso malate di trichinosi.

Eppure, queste vittime, i topi, sono animali graziosi. Ne ho avuti tra le mani alcuni. È facile catturarne, nelle mangiatoie: non ci vuole molta abilità. A volte mordono: chi potrebbe dargli torto? Allora, sul dito compare una grossa goccia di sangue. Per lo più, però sono rassegnati, fissano il vuoto con grandi occhi neri. Nel corso degli anni, ho avuto modo di ucciderne parecchi; ma, per farlo, ho dovuto far forza su me stesso; e ora non lo farei più. Quando li prendo, li lascio andare, grido loro: “Via, via!”

Joas era bello. Anche la volpe è bella. Anche l’uccello da preda è bello. Chi non mangia, deperisce e muore; per essere belli, bisogna generare; generazione e salute passano per lo stomaco. Ecco perché topi e ratti divorano il grano giallo. E Joas mangia topi e ratti. Quando era giovane, aveva scatti selvaggi, balzava loro addosso, spezzava ai roditori la cervice. Uno strepito, nessun grido. Tuttavia, un po’alla volta, ecco svilupparsi un’efferatezza – o, per meglio dire, Joas divenne un buongustaio; Joas voleva insaporire il proprio pasto con il puzzo di sudore dell’angoscia di morte. V’è qualcosa di tremendo in questa voluttà gastrica. Nella creazione, è insito un principio spaventoso: l’insaziabilità dei più forti. L’usuraio pretende di aumentare al massimo gli interessi; chi è sazio, vuole leccornie. La sete di dominio è insaziabile. La crudeltà è ricca di inventiva. Quanto innocenti sono i nostri lombi paragonati alla nostra anima!

Joas giocava coi topi. Li acchiappava, li teneva tra le fauci, li trascinava di qua e di là, si divertiva a udirli emettere flebili, dolorosi squittii. Poi li lasciava liberi, li induceva a tentare di svignarsela. E quand’erano paralizzati dalla paura, ormai del tutto privi di speranza, a colpi di zampa se li faceva rotolare davanti. Una manciatina di angosce mortali. Il senso della distruzione, il lento dissolvimento dell’anima in cibo. Non bastava certo a consolarmi quel che mi dicevo, che cioè lo sguardo del gatto ipnotizzava la povera vittima. Il principio utilitaristico, dell’equilibrio tra gli elementi costitutivi della creazione, viene pagato col dolore delle creature. Il dolore, io lo ritrovo dappertutto. Il meschino sotterfugio che un tempo bastava a consolarmi, ora non mi dice più niente. Al di fuori del vino e del latte, ben pochi sono i cibi innocenti. Ma io non sono certo pazzo, non rinuncerò certo a mangiare. Non ce l’ho con le volpi e i gatti. Semplicemente, mi risparmio quello che è possibile evitare.

Avevo tolto Joas dalla stalla, me l’ero portato in casa. Il calore della stufa gli era piaciuto molto. Certo, però che anche la libertà e l’avventura erano cose di suo gusto. Attorno ai mucchi di grano, ho messo delle trappole, piccole ghigliottine che giustiziano i topi in mio nome. Non so cosa ne pensino i topi e il cielo; quanto a me, ho l’impressione che così le cose vadano meglio: i topi muoiono rapidamente, dato che morire devono. È vano tentare di non macchiarsi le mani di sangue.