Di luce e d’ombra – di Gabriella Landini

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Copertina di Francesco Muscente

L’inseparabile inconciliabile.  Luce e ombra, inscindibili seppure sempre disgiunte e differenti.  Come leggere i caratteri della scrittura senza il rilievo dato dalla luce e dall’ombra? Come udire senza i toni dell’ombra e della luce? Come intendere se non per l’oscuro che volge al chiaro e il chiaro che s’immerge nell’oscuro? Come combinare corpo e scena senza che il chiaroscuro manifesti l’apparire delle cose dallo sfondo all’evidenza?

Descrizione di un volto da una pagina a caso: “…il cappuccio a punta oscurava il suo viso cereo, e dalle guance profondamente incavate scendeva la barba nera con le due strisce grigie. Gli occhi ch’egli teneva chiusi, formavano due ombre enigmatiche: pareva che a quell’ora non vivesse l’inizio dell’inconcepibile, ma lo avesse già interamente assaporato e giunto ormai a metà, immerso  nello sfumato, potesse coricarsi in quella luce d’oriente che induce alla solennità, allo sfarzo d’immagini, alle frasi sobrie, quasi aride, per emergere con chiarezza nel sonno”.

L’ombra sfata ogni teoria della conoscenza, dissipa ogni pretesa gnostica. Non si può illuminare l’ignoto, il non dato a conoscere per immaginazione, per supposizione deterministica o oggettivistica che sia, per cognizione ipotetica dell’oscurità. L’oscurità, come le ombre della caverna platonica, offre le esche, le provocazioni, gli spunti per la narrazione. L’ombra della caverna, rilascia il disegno dell’immagine anatomica, il movimento temporale dell’immagine che trova una scrittura particolare nello strumento cinetico e nella fotografia.

L’ombra, come la scrittura procede dalla luce. L’ombra è ciò per cui l’immagine fa eco.

Tentare di assimilare l’ombra alla luce per ridurre il negativo al positivo è come supporre l’unità, l’antagonismo, la coincidenza di luce e ombra. È tentare di nominare la giuntura e la separazione, fondando la genealogia delle filiazioni benefiche e malefiche È suppore l’unità  come causa sui conseguentemente divisa in due dove l’una esclude o prevale sull’altra. Anziché considerare la dualità come apertura, il due in quanto originario e irriducibile a un’entità fantastica androgenetica. Corpo e scena. Il rilievo tratto dai modi dell’ombra, dal suo baluginare semovente nell’alterità dove nulla è statico, fisso, identico, immobile. La luce dell’intendere è serbata nell’ombra, avviene dall’ombra. Anche la chiarezza procede dall’ombra.

La rappresentazione dell’ombra, costituisce il luogo della razionalizzazione oppositiva del due nella dicotomia positivo- negativo, elusa la radicalità della differenza irriducibile.

È come per gli eroi omerici lottare al crepuscolo intorno alle porte della città, credendo nella vittoria e nella sconfitta affidata alle loro armi, non meno che ai loro dei, per riaffermare  la conciliazione e la pace per mezzo della sopraffazione attraverso la guerra. Il vittorioso espanderà la sua luce benefica sulla tenebra, nell’intolleranza, nell’omologato. La conciliazione come sintesi superiore fra bene e male, positivo e negativo, l’armonia sociale prestabilita e prescrittiva fino alla sua convertibilità lineare e circolare. Composizione univoca per scongiurare i fantasmi dell’ombra posta innanzi a sbarrare la strada della spettacolarità della luce, affinché nulla possa essere messo in ombra, oppure faccia ombra. Dalla tenebra viene l’ombra, il chiaro e lo scuro, l’inconciliabile. Non c’è zona d’ombra. Molte dottrine e teorie  sull’organizzazione  collettiva e civile della società  in tutti i suoi aspetti sorgono per togliere l’ombra, emergono per forzare l’unificazione comunitaria fondata sull’intolleranza. La credenza vuole che ci sia chi sta in luce e chi sta in ombra, come se il chiaroscuro non avvenisse in ogni istante.  L’idea di fare chiarezza separandola dall’insita oscurità della parola  conduce  non di rado alla  più eclatante confusione. La tolleranza implica che luce e ombra si trovino inseparabilmente inconciliabili nella simultaneità dell’atto. Nella notte vi si scorgono ombre, lì il crogiolo della luce e dell’intendimento.

L’ombra serba l’inconciliabile della relazione, ora giungendo, ora separando, simmetria asimmetria, senza che in nessun modo, lasci intravedere una unità compositiva della forma, un discorso definito, la materia della parola nell’indifferenziato. La differenza resta intoglibile.

Giordano Bruno, L’ombra delle idee (De umbris idearum),

Seconda intenzione.

Io vorrei che tu, proprio in considerazione di ciò, ti ricordassi anche di tenere distinta l’ombra dalla proprietà delle tenebre. Infatti l’ombra non è tenebre, ma o traccia delle tenebre nella luce o traccia della luce nelle tenebre o partecipe della luce e delle tenebre o un composto di luce e di tenebre o un miscuglio di luce e di tenebre o nessuna delle due cose, separata dalla luce, dalle tenebre e da entrambe. E questo deriva o dal fatto che la verità non sia piena di luce o perché sia una luce falsa, oppure perché non sia né vera né falsa, ma traccia di ciò che è veramente o falsamente, eccetera. Perciò si tenga presente che l’ombra è traccia di luce, partecipe di luce, ma non piena luce”.

Ventitreesima intenzione.

L’ombra non è soggetta al tempo, ma al tempo di questa, non al luogo, ma al luogo di questa, non al moto, ma al moto di questa. Similmente bisogna intendere riguardo agli opposti. Perciò è astratta da ogni verità, ma non è senza essa e non rende incapaci di raggiungerla (nel caso sia un’ombra ideale): infatti fa concepire i contrari e i diversi, pur essendo una sola cosa. Infatti niente è il contrario dell’ombra, e precisamente né la tenebra né la luce. Perciò l’uomo si rifugiò all’ombra dell’albero della scienza per la conoscenza della tenebra e della luce, del vero e del falso, del bene e del male, quando Dio gli chiese: “Adamo, dove sei?” (Genesi, 3, 9).

Ventisettesima intenzione.

Di conseguenza, nota come dalla luce e dalla tenebra (infatti chiamo tenebra la densità del corpo) nasce l’ombra, di cui la luce è padre e la tenebra è madre: e essa non ha luogo se non in presenza di questa e di quello, e segue la luce in modo da fuggirla, come se si vergognasse di presentare al padre l’aspetto stesso della madre, per dimostrare almeno con il pudore la sua regale progenie, come i nobili per nascita che, non potendo mostrare la nobiltà con il proprio comportamento, la dimostrano abbastanza con il pudore stesso del proprio comportamento. Da qui, crescendo la luce, si attenua l’ombra, che si dilata se la luce si contrae; se questa medesima circonda tutto il corpo, l’ombra fugge.

All’ombra di Giordano Bruno reagisce il sistema inquisitorio, con la sordità eretta a fondamento, nell’interrogazione subordinata alla risposta. Lo stracielo, l’iperuranio è ironia, e rappresentazione dell’ombra nella sua opposizione teorica distinta dalla sua apertura radicale, fino all’evanescenza della confutazione.

Il diritto e il rovescio della foglia, ciò che resta nell’ombra, il chiaro e lo scuro, l’invisibile e il visibile, lo sfumato che lascia intravedere. Il paragone si destreggia dall’ombra senza il tutto chiaro, senza il tutto scuro. E la conclamata trasparenza solare mostra tutta la sua illusorietà nella pretesa della dominanza del cielo sulla terra, del padre sulla madre. La terra sta in cielo,  il cielo sta in terra, qualsiasi definizione sfugge alla perentorietà dell’ipostasi.

Johann Wolfgang Goethe, Faust,

 Non mi fraintendere, mio dolce amore! Chi osa nominar Dio, e dire: Io credo in esso? E chi può aver animo che sente, e attentarsi di dire: Io non credo in esso? nel comprenditore e sostentatore di tutte le cose? — E non comprende e sostiene egli te, me, sé medesimo? Non s’inarca lassù il cielo? Non si stende quaggiù salda la terra? E non sorgono amicamente arridendoci dall’alto, le stelle immortali? Non raggia il mio occhio nel tuo occhio? Non tutte le cose si traggono verso la tua mente e il tuo cuore, e vivono e si rivolvono in eterno mistero — visibili od invisibili — intorno a te? E tu riempi di questo ineffabile portento il tuo petto, e se ti senti allora pienamente beata, nominalo come tu vuoi: dillo felicità! dillo cuore! Amore! Dio! Io non ho alcun nome per esso. Sentire è tutto; e non è il nome altro che suono ed ombra che offusca lo splendore che ne viene dal cielo.

La tenebra e la luce? Il Paradiso e l’Inferno? La rappresentazione dell’inferno è l’assurdo, un ossimoro destinato alla scaturigine del colore.  La fiamma privilegia l’ombra. Sommo e infimo, positivo e negativo fanno parte dell’ossimoro. Irrappresentabile pertanto, l’ombra: il due inaugura l’estremismo delle cose.

Discorso chiaro, discorso oscuro, di cosa si tratta nell’oscuro, di cosa si tratta nel chiaro, di cosa si tratta nello sfumato.

Lo sfumato riguarda l’intendimento. Riguarda il ritmo, il tono, il suono, l’acustica, l’udire l’ascolto.

Dante Alighieri, La Divina Commedia,

Canto I

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
tant’ era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’ era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’ alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ‘l tempo che perder lo face,
che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ‘l sol tace.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

….