L’intendimento e l’arte del malinteso – di Gabriella Landini

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Copertina  di Francesco Muscente

L’INTENDIMENTO E L’ARTE DEL MALINTESO. E ANCHE IL MALINTESO COME ARTE

Il malinteso è la beffa di ogni armonia comunicativa sociale prestabilita, la maschera buffa del cinema conosciuta come Totò, maestro del malinteso ne ha celebrato la sua arte, il suo divertimento, il suo vagabondare narrativo nei meandri dell’impossibilità di intendersi parlando. E ancora, Totò, ha mostrato giocando e ridendo, quanto l’intendimento stia nel differire della parola, nella differenza, dissolvendo ogni possibilità di dialogo e facendolo sfociare nell’assurdo e nel paradossale.

L’idea che l’intendimento corrisponda all’intesa comune, ovvero sia il dissolversi di ogni possibile malinteso nella comunicazione è convinzione diffusa, detto altrimenti senso comune. Ma l’intesa presuppone un “sapere intendere” condiviso e condivisibile, invece, nessuno “sa” intendere, da qui il malinteso. Il malinteso sfata che la parola obbedisca al bene o al male dell’intendere e che obbedisca al concetto di  trasparenza  dell’oggetto e del tempo nella comunicazione. Il malinteso non permette la parola, depurata, purificata, schiarita, spiegata, risolta, non permette l’ipostasi, che del male ne detiene la sua conoscenza e la sua sintesi concentrata nell’idea di inferno e superno. Stirare le pieghe inaugura le belligeranze.

Il malinteso considerato come disguido, come difetto, sarebbe da risanare solo presumendo una padronanza della parola affinché l’ostacolo sia rappresentato e la difficoltà scomparire tramutandosi in facoltà per rientrare nella linearità e nella circolarità comunicativa.

Nessun gesto e nessuna idea possono togliere il malinteso, risolverlo, raddrizzarlo, scioglierlo, senza produrre altri malintesi, altri racconti, altre pieghe, altri esiti narrativi.

Il sogno si tesse di malintesi, e la sua interpretazione secondo un canone, una cabala, una razionalizzazione, altro non è che un tentativo di una sua riduzione a convinzioni condivise che sono a loro volta fabule.

Tentare di liberarsi del malinteso è quanto compie ogni società che nega il diritto, il racconto, la differenza, l’ignoto, l’incomunicabile, l’intraducibile, l’irriducibile altro, affidandosi invece al segreto, alla rivelazione, all’immanenza e alla trascendenza nella credenza che tutto sia comunicabile, svelabile e integralmente traducibile. Eppure, traducendo da una lingua all’altra si scopre che c’è dell’intraducibile nella parola. Inoltre, la rivelazione è la negazione dell’intendimento. La speranza che la rivelazione sciolga il malinteso è la speranza di una verità che sveli un presunto segreto una volta per tutte.

Ogni appiattimento letterale del significato sul significante negando il malinteso lo enfatizza producendone la sua messa al bando. Nessun sistema totalitario tollera il malinteso al punto da fondare ogni comunicazione sulle parole d’ordine, sugli slogan, sulla conformità dei comunicati, ripetuti e reiterati quali principi unificanti del senso comune. E come racconta Charlie Chaplin nel Grande dittatore, il malinteso al suo colmo ha il suo sbocco nell’arte e nel riso. Nel volgimento della piega del racconto c’è ascolto, c’è intendimento. In altro dal tempo, nella pausa, nell’intervallo, sta la poesia, che richiede l’intendimento nel suo divagare tra sogno e dimenticanza, arte e cultura.

La parola contiene in sé l’incomunicabile, lo iato estremo che concerne anche la morte, l’assoluto ignoto, che lascia la parola irrelata, nell’estremo irrisolvibile del malinteso, l’alterità, l’irrapresentabile. Impossibile accordarsi sulla morte, intendersi sulla morte, tranne fondarne la sua metafisica come principio di morte che regola la vita e dunque il senso comune come cessazione, fine, del dire, del parlare, il discorso presunto e dato comunitario al quale adeguarsi e ridursi per tacere.

Per questo l’intendimento, diversamente dalla rivelazione, procede dall’impossibile interpretazione del sogno. Dal sogno prende avvio il racconto, nelle pieghe del malinteso l’interminabile narrazione, filo che conduce la poesia.

Non ci sono grammatiche possibili del sogno, il suo intendimento procede al malinteso insolvibile di cui si nutre, si tesse, e permane in un’apertura senza chiusura.

Il malinteso è la sospensione del principio causale e riguarda l’Altro, la differenza.

L’intendimento avviene per l’exstratemporalità della parola, laddove il tempo che è organizzato discorsivamente non trova definizione alcuna per intervento del silenzio.

La comunicazione che presuppone la comunità di senso obbedisce al principio causale e dunque il malinteso diviene intollerabile. “Ma dove va a parare? Sarebbe a dire? In sintesi? Mi ha frainteso?” Se presuppongo un accordo sul senso che sintatticamente organizzi la letteralità della parola, il malinteso provoca seccatura, disappunto, e quindi stigmatizzato come incomprensione, e non come sbocco imprevedibile della parola che prende altre pieghe, altri ritmi. Il misunderstanding viene quindi messo all’indice e il movimento, il ritmo del narrare, del fare e dell’accadere immobilizzato a favore della prescrittività di intendere bene o male, di capire giusto o sbagliato, tentando di correggere la piega che la parola prende nel malinteso, tendendo quindi di volgere l’intendimento nel conoscere, nel sapere. L’intendimento però non dissipa il malinteso. Ne coglie la portata. Il malinteso più si tenta di sbrogliarlo, più prolifera, perché c’è sempre dell’altro rispetto a ciò che riteniamo intenzionalmente guidato dalla razionalità.

Intendimento e intenzionalità sono aspetti differenti della parola, del dire, della comunicazione. L’intenzionalità tenta di dirigere il senso, proprio per la finalizzazione della parola che avrebbe un destino non esposto alla casualità, all’imprevedibile. L’intendimento riguarda ciò che nella parola Altro si ascolta, riguarda la voce, la luce, l’udire. Cosa intendi dire? Ci siamo intesi?  Per intenderci…Intendevo dirti… non stai capendo… In questo caso l’intendere è un volere, dovere, potere, sapere, presuppone l’intesa sulla possibilità di dire la verità. L’intesa è una condizione senza la parola, si regge sulla complicità e sull’omertà, sulla codificazione nella speranza vana di liberare la parola dal malinteso. La comunicazione, in tale caso, sarebbe interamente governata  dal principio causale che istaura una metasemantica del come e cosa si comunica, del come si parla e il senso del dire, senza che la parola libera volteggi in infinite pieghe e prenda imprevedibili strade narrative.

Senza il malinteso sarebbe impossibile il Jazz, perché questa forma di composizione predilige l’affermazione della differenza, dell’istante, dell’improvvisazione.

L’organizzazione del discorso e la sua razionalizzazione discorsiva richiede la sintassi, ovvero l’organizzazione linguistica della parola, mentre la poesia si muove  nella paratassi dove il  ritmo- parola non è racchiuso nel dispiegamento di un tempo  misurabile e finalizzato da scansioni temporalmente significative, ma diviene relazioni di ritmo innumerabili. La parola paratattica è poetica per eccellenza, apre in se stessa ciascun elemento di infiniti narrati e racconti, interminabile nell’incessante movimento.

L’intendimento avviene al vertice del malinteso, quando la solitudine incontra il silenzio. L’incomunicabile della parola è la punta del malinteso e apre alla vibrazione della parola medesima in cui c’è l’intendimento per divisione. L’intendimento non è mai comune, quello che si fa comune che si pretende comune presuppone conoscenza, sapere, annullamento delle pieghe e delle variazioni e modulazioni della parola.

L’intendimento procede dal malinteso e ci trasforma, ci porta in altro, e ad altro.  In altro dal tempo. Quello che questo dischiude per ciascuno è fonte di accoglienza,  dell’avvenire, dell’avventure, di imprese straordinarie, di eventi, di integrazione e  incontro.