Berlino/La porta d’Oriente – di Gabriella Landini

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Copertina: teatro Berliner Ensemble di Berlino© Stephanie von Gelmini
Il tavolo posto in platea è quello di Bertold Brecht

A Franz, nato al confine, nella Babele di tutte le lingue

Buio a Oriente. Buio a Occidente. Dilavata l’alba nel punto di schisi del rintocco zero. Dopo. Erano, forse, le tre e oltre, culmine d’aurora e morte. Il pozzo più profondo della notte divenne fiore di croco scarlatto, l’attimo al suo apice in un colmo di sangue dissanguato.  Calato velo bianco. Fluido carme che slavina nel diafano candore.

Il drago disteso. Impassibile. Straripa il silenzio. Il respiro è rimasto, mantice solitario e fuggiasco, nel giaciglio.

Solenne una mano d’infanzia mi afferra la gola, perentoria attende sapienza: da dove viene la voce? E dove va? Peregrino nel corpo, cerco invano risposte. Sento? Onnivoro oblio di quando abbiamo passato il valico; da dove venivamo, dove stavamo andando?

La voce, la voce, la luce, la luce. Qualcosa pervade, qualcosa medica, qualcosa strazia.  Tu stai, e ancora nascevi ogni istante sulla soglia, alla frontiera, nel limite, alla dogana, nei bauli in transito di arcipelaghi di parole, di genti. Il tuo volto riverso, l’afferro tra i miei palmi e mi trafigge come stimmate l’originaria buriana di vento balcanico a Est, e il braccio del manrovescio uscito dal crepuscolo dell’estate a Ovest.  Passaporti, carte, salvacondotti, inchiostri, inquisizioni accurate nelle tue tasche: zeppe pignatte di recondite analogie, esalano la lingua di Dante, di Goethe, di Shakespeare, di Rabelais, di Cervantes, di Luís Vaz de Camões, di Melville, del possente Zlatorog, del bragozzo che risaliva il Dragonja, i dialetti, le parlate indigene nere, bianche gialle, e il dilagare dei continenti nel camminare la glottide scartando il verso delle direzioni.

Lo stato d’animo di un colore di foglia mendica la sua migrazione in vani spazi. Oriente, Occidente, Nord, Sud, capto il loro sibilare lucido secato da una quasiluna irriducibilmente remota. Davaj. Davaj.

Una ricca stagione, la nostra. È giunta. Inaspettata. Tempo sia, colombino, colombino, che io t’incontri doveallorquando hai spiccato il volo.  Il bersaglio nel perno della Rosa dei Venti, per lanci perfetti, bene assestati, ignorata ogni mira. Voce a oriente della tenebra oltre il faro. Le nostre spezie diffondano aromi; che non restino uccisi, quei germogli, dal gelo implacabile. L’entelechia degli archi trionfali dove i burocrati della parola, ti hanno affondato il coltello nello stomaco, per superbia, per sutura di uno squarcio incomprensibile. Spirito, carne dell’oriente. Materia spirito della carne dell’occidente.

Ululato sferzante dei boschi, declinazione di cime e mare, senza compromessi, così immediati, netti nel distacco tra acqua e terra, senza lusinghe. Colombino, colombino, di mutevole giovinezza, citavi la tua: metà vita, metà sonno mortale, scandito da rane notturne. O, rivarcando la soglia, scaduto il tuo tempo, badavi a non calpestare le giunture delle selci, e lungo il corridoio le ombre in croce delle sbarre. Ho lenito con garze le stilettate delle perfide schegge, stringendoti, pulsante marea, per tenere l’energica forza ribelle, l’instancabile strepito di una gioia del cielo per un lettore di nuvole.  Albeggiare, così, all’imbrunire, senza  concessione alcuna alla rivelazione, del sorgere, del declinare, del nascere, del morire, dell’ombra opalina. Nessun responso, nessun balocco per i trastulli di teste di pietra sbattute su un muro craccato. Noi, mai risolveremo enigmi.