Ragionamento1/Intorno alla macchina – di Francesco Saba Sardi

Tratto da: L’Onnifavola, Bevivino Editore, 2010;
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Macchina 1
a) Sua genesi. Da un pezzo gli dei non calcano più la terra, e il mito è andato a rifugiarsi tra le galassie. Per ritrovarlo (perché risorga l’Età dell’Oro) occorre conquistare per lo meno i pianeti (oppure realizzare il comunismo o il Mercato Globale, risolvere, una volta per tutte, i problemi che affliggono l’umanità, inquinamento, esplosione demografica, energia alternativa, droga, ecc. ecc.; e soprattutto tornare a dio).
Immersi nell’amnio fantascientifico (liberazione da ogni male, finanche della morte, redenzione dal bisogno, ingegneria genetica, e via programmando), non abbiamo accesso a quanto avviene al di fuori di questo feudo da redimere. E non per pigrizia o attuale povertà di mezzi. Il noumeno resta inacchiappabile. Ma forse c’è una speranza. C’è, un Redentore metallico, pulsante. Ed è Lei, la Salvatrice.
Ma cosa significa macchina? Si può rispondere senza dare un’occhiata ai documenti anagrafici?
I quali sono prospettrici. Ne risultano macchine sempre più piccole a mano a mano che ci si avvicina al luogo natale al punto che, contraddicendo la geometria euclidea, c’è stato davvero il punto monodimensionale: un attimo, quanto è occorso perché un nostro progenitore saltasse giù dall’albero del frugivoro e si trovasse a doversi procurare cose più solide da mettere sotto i denti. E del resto gli erano ormai cresciuti i canini del carnivoro. Perché sì, l’infanzia dalle tecnomacchina e l’infanzia del Sapiens, stando ai documenti riportati in mille e mille testi di paleoantropologia sono andate di pari passo. E già allora l’itinerante bramoso di ghiotte carni e dietetiche radici era illuminato e posseduto dall’Idea. Ah, qualcosa di tagliente con cui tranciano fegati e rognoni!
E sono venuti, tagli e taglieri, e con essi la crescente razionalità e la maggiore abilità. Bastava mettere a frutto il logos presente fin dall’inizio nell’Anthropos sostanzialmente immutabile. Creato, insomma. Forse che il fuoco non è frutto d’esperienza? Lui, il progenitore, ha visto accendersi fronde che, mosse dal vento, si strofinavano l’una all’altra. Gli è bastato metterci qualcosa di suo, più suo. Da esatto copiatore, com’era insito nel suo Dna. Le foreste pluviali, per esempio, sono incombustibili. E allora? Allora, il proproproproda (ceco per «paleoantenato») concepisce l’idea di portare il fuoco da altre zone, queste asciutte. Aggiunge di suo un recipiente. Ne ha già visti tanti, come corolle impermeabili e grovigli vegetali. Anche l’amigdala è frutto di esperienza. Non ha forse visto le formiche amazzoni capaci di tagliare un coleottero in due con le loro mandibole? Nihil est in intellectu quod prius non fuerat in sensu.
Se ne deve concludere che la tecnomacchina è «naturale». Un istinto. Come tanti altri: la guerra, per esempio. E il concetto di divinità. Bisogna arrendersi all’evidenza. Sta tutto scritto nei nostri geni. Basta copiare il codice. Tutto biologico, ciò che è umano. L’idea, il principio, il concetto, la legge che precede il proprio oggetto, sono nel nostro codice. Un colpo d’occhio, una scoperta, e la soluzione eccola pronta! Un nulla, un fortunato ritrovamento, ed eccolo, l’antenato, padrone del passato, del presente e del futuro. Insomma, la macchina pertiene alla Creazione. L’ha ficcata il buon Dio nella mente dell’uomo (ancora di aspetto primitivo, è vero, ma già signore delle catene di montaggi, già pilota del razzo sparato verso i futuri buchi neri. Tutta nelle circonduzioni! Nei nuclei! Nei neuroni!
È una convinzione che in effetti squalifica la nozione di progresso (e non solo di quello scientifico). Perché essa ha la fondamentale, e presunta, immutabilità della mente. Che non riguarderebbe i pensieri che essa produce e che variano di momento in momento, bensì l’impossibilità, per la mente stessa, di concepire un reale non interpretato o interpretabile (cioè spiegabile, versabile nei termine del logos, di cui la mente stessa suppone, e proclama, il predominio su ogni altra facoltà o dimensione umana). Insomma, la mente è concepibile solo come gerarchica, e non potrebbe che esprimersi in termini gerarchici. Col logos al vertice. Questa «realtà», sempre esistita, è rimasta obnubilata, in passato, quando l’uomo era ancora «selvaggio», dalla visione «mitica», alla quale corrispondeva l’incapacità di dominare il mondo circostante.
Tale concezione percorre l’intero sviluppo del pensiero occidentale: è la sua cosmogonia, il suo mito-racconto delle origini. Si sarebbe cioè verificata una lotta tra Luce e Ombra (tra Io-Superio da un lato e Es dall’altro, per dirla con Freud). La vittoria della Luce si sarebbe tradotta nel «disincantamento» del mondo, vale a dire nella sua codificazione. M il mondo così cartografato è pur sempre minacciato dalla Tenebra, e il trionfo su questa sarà definitivo soltanto allorché si saranno sondati tutti gli abissi mediante strumenti come l’indagine del profondo, la fisica subatomica, le esplorazioni spaziali, e via dicendo.
La lotta tra Luce e Ombra sarebbe però un’aspirazione «naturale», inizialmente ancora confusa, ma certo è che l’uomo è «nato» con questa ancora imprecisa aspirazione, rischiando più volte di venire travolto dalle barbarie. Ma la Critica, e l’Interpretazione, la Razionalizzazione e altri angeli soccorrevoli sarebbero intervenuti a salvarlo. Si sarebbe così avviato quel processo che vien detto «evoluzione» o, da certi credenti, come per esempio Teillhard de Chardin, «ominazione».
È dunque palese che il pensiero scientifico, assertore di questo avanzamento lungo la traiettoria del Bene-Luce, non si discosta di un etto dall’interpretazione teologica zaratustriana-giudaico-cristiana. Di tanto in tanto, dunque, un Avvento, la comparsa di questo o quel figlio del Cielo. Il mito-cultura ufficiale dell’Occidente cristiano e scientifico, e dei suoi imitatori o cloni, trova esatto riscontro nella storia come viene descritta dal mito fondativo, nelle strutture sociali alle quali apparteniamo. E in tutti i testi da cui ricaviamo il nostro Sapere. E che trovano esatta rispondenza nelle forme (forma stato, forma diritto, eccetera) che sono andate via via specificandosi, progredendo dal semplice al complesso, dal supposto al certo, dall’impreciso all’esatto. E la struttura gerarchica, la piramide che è andata profilandosi e compattandosi è divenuta lo scheletro portante della Storia, di quella che altrove ho definito sconvolgimento del gioco del Potere con i suoi corollari, in primo luogo il monopolio del mito, o meglio della sua interpretazione adeguata alle esigenze del Discorso, e il monopolio della violenza. Resi possibili – ed è d’importanza fondamentale – dal rovesciamento della Parola ridotta, e insieme moltiplicatasi, in parole che riproducono il reale anziché istituirlo. Cioè, la favola dell’esistente.
Ne derivano l’abolizione, per decreto del logos, della fatalità, e il depauperamento di altre dimensioni ideali. Si è così imposto il tempo rettilineo (abolito quello ciclico), dalla cartomanzia si è passati alla cartografia, il sistema del potere, incentrato sulla fallocrazia, si è dilatato dal gruppo ristretto delle origini, passando per le tribù, al mondo intero, divenendo polis-società.
Il potere, una volta instauratosi, ha prescritto che tutto dovesse avere un senso, collocandosi pertanto nella catena cause-effetti. E siccome era implicito e inevitabile il passaggio dalla imprevedibilità alla conquista del presente e del futuro – e del passato, tramite quello strumento di conquista retroattivo che ha nome Storia – era inevitabile che la Macchina prendesse via via forma e sostanza nella mente umana, che dalla amigdala e dalla semplicità della leva (e dalla forza, umana e animale resa schiava) si approdasse all’autonomia del congegno come insieme di organi sottoposti al controllo assoluto della mente tecnologica.
La mente umana, riflettendo su se stessa, ha così scoperto la dimensione dell’immanente. E l’umanità ha scoperto in se stessa (leggi: ha tradotto in Discorso, dal neonato potere decretato onnicomprensibile, doverosamente tale) ciò che intimamente «sentiva» di possedere da sempre.
E l’uomo, ripeto, sarebbe rimasto sempre uguale a se stesso: identiche aspirazioni, identica divisione di sfera conscia e inconscia, di razionabilità e pericolosi «istinti» (Es) da domare. Che nell’animale sono sani, benefici, salvifici (e forse, ma solo forse, tali anche nei primitivi molto primitivi ma, chissà perché – il Beato Sigmundo da Vienna, i suoi seguaci e imitatori, mai lo chiariscono – nell’animale-uomo ha colorazioni negative). La civiltà, ideale presente in ogni uomo appena uscito dai primordi, in quanto aspirazione «naturale», si fonda infatti sulla repressione degli istinti. Sgradevole incombenza, che però è largamente ripagata dai molti benefici impliciti nel concetto stesso di civiltà, ed è convalidata dalla certezza che, se accontentato (principio di piacere), l’istinto sarebbe rovinoso, mentre il suo controllo (principio di realtà) garantirebbe ben altre soddisfazioni, sublimazioni, ascensioni.
Concezione, mi permetto di far notare, che di per sé è sufficiente a mandare a catafascio qualsiasi teoria biologistica, e dunque qualsiasi presunta scienza dell’uomo, dal momento che nessuna delle variazioni in cui si presenta può fare a meno della base biologica, e pertanto deve dare per scontata l’esistenza di una ineliminabile sfera impulsiva, istintuale, e conseguente divisone dell’uomo in paradiso e inferno: come nel gioco del «mondo» tracciato dai bambini sui marciapiedi. Il che equivale a proclamare e riconfermare la gerarchia – suppostamene, insisto, naturale, innata –, e con essa la sovranità egoica. Il Superio vien fatto diventare tutt’uno con il dio onnicreatore, controllore, punitore e consolatore.
Purtroppo per gli assertori di questa Weltanschaunng, tra gli ultimi, sparuti, primitivi, nulla di simile accade. Lo sapeva perfino Carl Gustav Jung che in loro vedeva una fase «inferiore» dello sviluppo, l’abbandono a «fantasie collettive» (miti e leggende: per lui, misere fantasticherie). Situazione alla quale si sarebbe, nel tempo, contrapposto il «progredire della civiltà», il trionfo della razionalità e l’aspirazione alla salute mentale (dato che il pensiero primitivo coinciderebbe con la «follia», la quale potrebbe sempre riemergere, se a tenerla a freno non fosse la sensatezza ben radicata nell’uomo «evoluto»: e l’opera di controllo e custodia esercitata dagli angeli salvatori, in veste di psichiatri, padroni della grammatico-sintassi, guardiani della legge. E custodi del Castello di Kafka.