Fior di bugia – di Mariangela Venezia

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Un velo di luna sfiora la parete di fronte, sprillente nell’inchiostro notturno, è il lento roteare dell’obiettivo, pupilla satura giallo di cadmio.
Fu che nacqui nell’assenza di tempo, scintille di diamante nel groviglio di fili, cavi, matasse, radici brulicanti di alberi inesistenti che solleticano le piante di piedi ignari. Fu che nacqui senza essere proiettato dall’ignoto degli atomi, senza il mistero mai soluto dell’incontro tra due stelle, ma combinato al microscopio di una bianca successione di byte. Sotto lo sguardo enorme del gigante senza faccia e senza iride, che coglie a uno a uno i bozzoli, dipanando i fili sopra un aspo minuscolo.
Fu che mossi i primi passi nell’assenza di spazio, ubriaco di benzoino e onde elettromagnetiche, muovendomi malfermo in paesi senza strade e senza lingua, abbiosciandomi nelle pianure deserte e senza odore di corpo. E il gigante senza iride ha per occhio il disco del sole che scandisce il mio andare, traccia i miei sentieri, si muove adagio intorno alla terra senza mare e senza stagioni, illumina la mia sagoma virtuale perché altre sagome mi vedano. Il suo occhio è i nostri occhi.
Fu che amai senza rischio e senza pelle, creando alchimie domestiche al riparo da scoppi improvvisi, esibendo, nella fissitudine di muscoli anchilosati, una faccia senza sorprese e una bocca senza saliva. Il gigante senza iride rotea l’occhio, cerchiamo di stare lontanissimi, in questa insopportabile immortalità. Che il sentire sia crosta di pane, respiro a pelo d’acqua, arabesco di polvere, spettro del corpo che non è stato mai.
Fu che morii per le mani, la solitudine, il dondolio, la bava vischiosa delle mie rabbie. Pur di tornare straniero, artigiano, multanime abitante di un universo di creta e sale.
Fu che accecai l’occhio cisposo scagliando rami lunghi e ricurvi, cortecce bianche striate di nero, lunghi amenti marroni-giallastri, foglie impastate di luna gialla. Fu che morii per un ramo di betulla.