Cacciatori della foresta – di Francesco Saba Sardi

Tratto da: Vuoti di memoria, Bevivino Editore,2001-All rights reserved©Archivio Francesco Saba Sardi

Un tempo si usava distinguere tra le popolazioni africane un tipo “forestale”, che si pretendeva conservasse forti impronte di “primitività”, come struttura corporea grossolana, statura bassa, mesocefalia, naso molto largo; e un tipo “campestre”, dalle forme più slanciate e con caratteri più affinati, del quale faceva parte un sottotipo “urbano”, diciamo felicemente simile ai bianchi colonizzatori. Oggi difficilmente qualcuno cadrebbe in questa trappola antropologica di chiaro sapore razzista.

Un’effettiva differenziazione è possibile soltanto in base al modo di vivere e di concepire i rapporti con l’intorno. In Africa sussistono ancora, sia pure sparuti e continuamente minacciati, gruppi itineranti da distinguere dai nomadi. Mentre infatti i primi sono dediti alla caccia e alla raccolta, i secondi praticano l’allevamento del bestiame con il quale si spostano alla ricerca di pascoli e di acqua. Gli itineranti abitano quasi esclusivamente in due zone del Continente Nero: la densa foresta equatoriale, che si estende lungo la costa occidentale e copre mezzo continente all’altezza dell’equatore; e i cacciatori-raccoglitori della Namibia, parlanti le lingue del gruppo Khoisan, favelle che hanno, come tratto saliente, la presenza di un suono cliccante post-palatale; sono parlate dai San, noti in Occidente come boscimani, dai Khoi-Khoi (ottentotti) e da sparsi gruppetti della Tanzania.

I pigmei mbuti della foresta dell’Ituri del Congo, rappresentano nella sua forma più pura la popolazione pigmea della foresta equatoriale. Altri gruppi, mescolati però con elementi bantufoni, abitano nelle zone forestali del Congo-Brazzaville. L’atteggiamento dei mbuti nei confronti della “antenata” (è questo il significato della parola Ituri) trova perfetta espressione nella loro ricchissima produzione artistica, sia verbale, in forma cioè di poemi e di canti, sia figurativa di carattere prevalentemente astratto, accanto a numerosissime forme di danza. Mi limito a riportare alcuni versi di una canzone dei mbuti:

«Il mio dentro è tutto felice,

il mio dentro mette le ali al canto

sotto gli alberi della foresta,

la foresta nostra casa e nostra antenata».

Le genti che abitano fuori dalla foresta considerano i suoi abitanti con un misto di rispetto e di disprezzo, li ritengono arretrati, primitivi e persino pericolosi. Atteggiamento fatto proprio anche dai sempre più numerosi agricoltori forestali che, respinti dalle praterie dove subiscono gli effetti della modernizzazione (impoverimento dei terreni, sfruttamento dei proprietari locali e neocolonialismo) e costretti, ormai da qualche centinaio di anni, ad addentrarsi nelle selve, ne deforestano aree di crescenti dimensioni per mezzo del debbio consistente nell’abbattere gli alberi e bruciarli. Va detto a tale proposito che in tutta l’Africa lo strato di humus fertile è scarsissimo: quasi mai supera i tre-cinque centimetri, con la conseguenza che la terra, liberata dal manto forestale, tende immediatamente a laterizzarsi e a diventare impermeabile alla pioggia, assumendo tonalità dall’arancio al rosso e al viola. Diventa pertanto sterile e i contadini forestali devono trasferirsi in un’altra zona e ripetere la stessa operazione, praticando ininterrottamente quella che viene detta shifting agriculture (agricoltura nomadica).

Costoro considerano il popolo che hanno trovato sul posto, i cacciatori pigmei, con un peritoso rispetto che tentano di nascondere mascherandolo come scherno. Soprattutto, li ritengono dotati di poteri soprannaturali e dediti alla magia nera. Lo stesso accade del resto un po’ in tutto il mondo: coloro che vivono nelle foreste, in isolamento o da eremiti, sono assai spesso sospettati di essere in lega con spiriti per lo più maligni, e per gli stanziali è fonte di meraviglia l’inspiegabile rapporto di famigliarità degli itineranti con una natura della quale sono alleati, mai nemici, mai prevaricatori. La foresta offre ai pigmei la sicurezza di cui hanno bisogno sotto forma di cibo, riparo, calore. Anziché dedicare tempo ed energie all’acquisizione di un’eccedenza di risorse, si accontentano del minimo necessario, e dedicano il resto del loro tempo all’arte di vivere.

Agli occhi delle popolazioni stanziate o più raramente nomadizzanti attorno o entro i margini della foresta, una delle ragioni del disprezzo-paura che nutrono nei confronti dei cacciatori itineranti — e ne sono scandalizzati— è che questi in pratica non lavorano. Si dedicano alla caccia a seconda delle necessità immediate, cioè poche ore al giorno o addirittura al mese; catturata una preda, ne affumicano le carni, pratica che permette di conservarle a lungo; il resto del tempo lo dedicano a uno stile di vita che è di pace con i propri vicini, con la propria famiglia, con gli animali della foresta. Costruire i ripari, cioè le capanne di fronde e foglie, e fabbricare i pochi manufatti necessari, sono attività che implicano, è vero, inventività e capacità fisiche non indifferenti, ma i cacciatori-raccoglitori hanno modo di dedicare quasi tutta la giornata alla socializzazione, quasi sempre con la famiglia, di solito monogamica, o visitando gruppi limitrofi, e collettivamente elaborando e raccontando i miti e le leggende che fanno parte della loro vastissima «scrittura orale», come viene detta dagli antropologi.

Quanto ai rapporti con gli animali, di cui mai si considerano superiori, i pigmei sanno che, forzatamente uccidendoli per nutrirsene, recano offesa alla foresta alla quale appartengono quali suoi membri inseparabili. Non appena abbiano abbattuto una preda, si affrettano a chiedere scusa al mondo circostante, cioè alla foresta, ponendo ritualmente sull’animale morto, di cui perdura il ricordo affettuoso, fiori, fronde, a volte statuine.

Non voglio dire che la vita dei cacciatori-raccoglitori sia idilliaca, ma nella penombra sotto la chioma degli alberi innegabilmente predomina un senso di partecipazione e sicurezza che non può non apparire ideale a quanti vivono una vita più frammentaria, di lavoro e produzione di oggetti, assillata da una molteplicità di problemi e con assai minore sicurezza e tranquillità d’animo. Ovviamente, i pigmei ignorano leggi scritte e verbali, non hanno capi ai quali obbedire, non conoscono sistemi penali. Ogni azione viene da essi valutata nel contesto generale e particolare, con l’intesa e la collaborazione di tutti gli interessati. Certo, non ignorano la violenza: per quanto rari, si verificano scontri tra singoli componenti un gruppo, e un atto di violenza è inevitabilmente l’uccisione di un animale che, come ho detto, richiede anche un atto di riparazione. Ma ignorano quella che noi chiamiamo guerra, ed è comunque il tabù a impedire che la violenza si trasformi in distruttivo conflitto.

Gli agricoltori che migrano nella foresta dall’esterno, portano con sé una tecnologia e un’organizzazione sociale basata sulla gerarchia; oltre a lavorare faticosamente il suolo, a temperature elevatissime, continuamente impegnati nel tentativo di impedire alla fitta vegetazione di riguadagnare terreno, devono provvedere allo scambio o alla vendita dei loro prodotti, e non c’è da meravigliarsi se guardano con invidia, oltre che con paura e rispetto, i cacciatori mbuti che vivono in apparente agiatezza all’ombra fresca di una foresta che li protegge almeno quanto aggredisce e spaventa e angoscia gli agricoltori. Con i cacciatori, gli agricoltori forestali instaurano spesso rapporti mutualistici, utilizzando i cacciatori come mediatori, quando però non tentino di sfruttarli come per millenni hanno fatto gli egizi che inviavano nella foresta, al di là dei Monti della Luna, predoni che si impadronivano dei piccoli pigmei. Ridotti in schiavitù, questi venivano costretti a scendere negli angusti pozzi minerari, per estrarne oro e altri metalli preziosi.

Di particolare ingegnosità è il metodo usato dai pigmei per abbattere un elefante. I pachidermi depongono le loro enormi feci quasi sempre lungo le piste forestali che seguono nei loro continui spostamenti. In questo caso è necessaria la collaborazione dell’intero gruppo. Un uomo particolarmente destro scava una buca sotto la grande cacca del pachiderma e vi si intrufola, portando con sé un palo affilato al fuoco. Nelle immediate vicinanze della deiezione, e quindi della buca in cui è nascosto il cacciatore, viene intanto collocata una robusta fune di fibre vegetali, munita di un cappio a un’estremità e legata all’altra a un grosso tronco. La distanza dev’essere tale che l’animale non subodori il tranello.

Al passaggio dell’elefante, il cacciatore balza dalla buca e gli pianta il palo acuminato nel ventre. Con la massima rapidità, lega poi il palo al cappio e si allontana di corsa per sottrarsi alla vendetta dell’animale infuriato. Per quanto piccoli — la loro statura non supera mai il metro e cinquanta — i pigmei sono robustissimi, e la forza del cacciatore è tale che il palo confitto nel ventre dell’elefante gli squarcia l’intestino. Il pachiderma cerca di liberarsene fuggendo, senza potersi liberare dall’arma che, piantata in posizione tale da impedire che riesca a svellerla con la proboscide, gli lacera ulteriormente le interiora. L’elefante finisce per morire dissanguato, e il gruppo che ha nascostamente assistito alla sua agonia, dopo aver debitamente chiesto scusa alla foresta con manifestazioni di cordoglio e coprendo il grande cadavere di foglie e fiori, e in questo caso sempre anche con statuine, procede alla macellazione collettiva e rituale. La carne ricavata da un elefante, e debitamente affumicata, basta a nutrire parecchi gruppi per interi mesi, esimendoli così dalla ricerca di altre prede.

L’economia dei pigmei mbuti richiede tecniche assai elementari, rimaste ancora al livello dell’età della pietra. Certo, usano ormai pochi o punti utensili litici. Scambiano infatti le prede che uccidono con gli abitanti peri-forestali in cambio di oggetti di ferro, soprattutto coltelli e punte di lancia e freccia; molto utili sono i chiodi di ferro o acciaio, che i pigmei riducono a lamine battendoli con grossi sassi.

Non domesticano le piante né gli animali. La raccolta di funghi, radici, bacche, noci e frutti costituisce il grosso della dieta, ma la caccia rappresenta il nucleo portante del loro rapporto col mondo. Nessuna comunità pigmea può aumentare di numero tanto da soverchiare le locali risorse di cibo, e ne consegue che raramente mettono al mondo più di un figlio, al quale dedicano attente e affettuose cure. Un’altra conseguenza della vita itinerante è che la fertilità delle donne varia in stretta relazione con i continui spostamenti nell’ambito della foresta. Infatti, i pigmei, che non hanno quasi mai villaggi, si raccolgono solo di tanto in tanto in gruppi più numerosi di poche famiglie, in tal caso costruendo assieme capanne di rami e fronde, disposte a formare un circolo con le aperture verso l’interno. Non vi soggiornano mai più di un mese di seguito.

Il ciclo mestruale delle donne pigmee è oltremodo irregolare, con intervalli di mesi; i pigmei oltretutto conoscono e impiegano pratiche anticoncezionali.

Per quanti praticano abitualmente la caccia con l’arco e le frecce, la dimensione di un gruppo difficilmente supera le due o tre famiglie. Durante la stagione del miele, invece, i cacciatori si radunano in orde di maggiore entità, per dedicarsi al begbe, la caccia di battuta comunitaria con l’impiego di reti e lo scavo di trappole mascherate con fronde. Perché sia fruttuosa, occorrono almeno sei-sette famiglie, ma è raro che il loro numero superi la decina. Nella foresta dell’Ituri c’è spazio sufficiente per una popolazione complessiva di circa trentacinquemila mbuti. Non esistendo il principio di proprietà, non ha mai luogo una rigorosa suddivisione e assegnazione dei terreni di caccia.

L’unità di base è la famiglia, ma l’intera orda si considera una sola famiglia. Quando appare opportuna una caccia alla rete, le famiglie che vi partecipano partono insieme, ma ben presto si suddividono in gruppi di età del tutto informali e senza che nessuno prescriva i compiti. Tra loro infatti non sussistono i rigidi gruppi di età invece tipici degli allevatori-nomadi delle praterie.

Gli uomini sistemano le reti e stanno di guardia tenendosi pronti con le lance; i giovani, armati di arco e frecce, si tengono dietro gli uomini, pronti ad abbattere gli animali che riescono a sfuggire alle reti o alle trappole, tentando di catturarli con le mani se non riescono a colpirli a distanza. Donne e bambini formano a una certa distanza un semicerchio contrapposto con il compito di attirare e spingere la selvaggina nelle reti, fungendo cioè da battitori. Adolescenti e vecchi molto spesso si aggirano soli nella foresta per abbattere uccelli e scimmie con le frecce avvelenate.

L’alto grado di mobilità dei pigmei comporta sempre raggruppamenti estremamente fluidi, cosa che già di per sé basterebbe a escludere funzioni direttive e l’esistenza di capi, con i relativi privilegi di costoro. I mbuti non hanno nessun sistema gentilizio, cosa che contribuisce a rendere anche solo inconcepibile la formazione di un gruppo dominante. L’età tuttavia svolge un ruolo importante, ma nessuno in seno alla comunità ne approfitta per reclamare privilegi. Gli anziani semplicemente sono ascoltati in quanto depositari di esperienza e sapienza. Il mezzo principale di cui si servono i pigmei per correggere una cattiva condotta (pigrizia, rissosità, egoismo), consiste, in assenza di qualsiasi sistema penale, nel ridicolizzare il reprobo, funzione nella quale i bambini eccellono.

Come s’è detto, le tecniche dei mbuti sono semplici, e ne deriva che sembrano poveri agli occhi di etnie che posseggono maggiori ricchezze materiali; ma una tale ricchezza per i mbuti itineranti sarebbe d’impaccio e svantaggio. Non si caricano di pesi inutili, non si gravano indebitamente di alcun eccesso; si fabbricano i pochi indumenti di cui dispongono con scorza battuta, martellata con un pezzo di zanna di elefante; usano pelli e viticci per fabbricare i supporti per i neonati, le faretre per le frecce, le sporte, le decorazioni e gli ornamenti.

Si costruiscono il ricovero in pochi minuti mediante vegetali che tagliano con i panga, i coltellacci forestali che si procurano mediante scambi con la gente dei villaggi peri-forestali. Non di rado si avvalgono di asce litiche, che sembrano preferire a quelle metalliche, e non mancano i gruppi che vivono nelle zone più interne della foresta, dove hanno minori contatti con gli agricoltori circostanti, e che si servono in larga misura di coltelli litici.

Il kakusu è un albero che fornisce una resina che, presa dalla cima, serve per cucinare e, ricavata dalla base, serve per illuminare le capanne di notte. Con la resina i mbuti sigillano anche i contenitori di scorza per il trasporto e la conservazione del miele. Un bambino impara molto presto a utilizzare il mondo circostante senza distruggerlo, prelevando solo ciò che gli serve al momento; la sua educazione consiste in un’iniziazione alla vita adulta. I suoi giocattoli sono duplicati degli oggetti degli adulti, e un ragazzo impara assai presto a servirsi di un piccolo arco per abbattere animali lenti e piccoli, e una bambina a distinguere vegetali utili e vegetali dannosi, in particolare i funghi mangerecci dai velenosi.

Sarebbe sensato sostenere che i mbuti rispondono a un ideale rousseauiano di serena obbedienza alla natura? Nella foresta, i pericoli non mancano, rappresentati da predatori, serpenti, scorpioni, incidenti di caccia, caduta di rami e alberi, impantanamenti, presenza di coccodrilli nei numerosi corsi d’acqua, ed eventuali, seppure rari, incendi forestali.

Oggi, però, le minacce derivano soprattutto dai processi di trasformazione che hanno luogo in tutta l’Africa, e che non risparmiano l’esistenza, sotto molti punti di vista ideale, dei piccoli cacciatori-raccoglitori. Pericoli derivano in primo luogo dagli agricoltori, che sempre più spesso si addentrano in cerca di nuove zone coltivabili nella foresta. Un’altra minaccia è costituita dalle aziende forestali in continua ricerca di alberi d’alto fusto e di legno duro da abbattere e portare ai mercati. A tale scopo devono aprire sentieri e piste, e ormai da qualche anno capita di vedere camion e trattori entrare nella selva, oltretutto spaventando gli animali. Il terzo pericolo, ed è il maggiore, è costituito dalla mentalità stanziale, intollerante nei confronti di qualsiasi forma di itineranza.

Accade abbastanza spesso, di conseguenza, che singoli pigmei si sottraggano a situazioni intollerabili unendosi alle missioni cattoliche o protestanti ai margini della foresta, e sempre più numerosi sono i mbuti che si accampano alla periferia di città e villaggi, come a Mambasa, principale centro alla periferia orientale dell’Ituri, dedicandosi a piccoli traffici o a lavori saltuari.

Ecco per esempio Ituri Ataleo, un ragazzo intelligentissimo che ha imparato un po’ di francese oltre allo swhaili e che lavora come infermiere presso l’ospedale di una cooperazione medica. Ha smesso il costume della sua etnia, un gonnellino di foglie o un pezzo di scorza d’albero, per indossare un paio di jeans e una maglietta da bambino (è alto centoquarantadue centimetri). È lui che guida medici e infermieri nelle loro periodiche puntate civilizzatrici nella foresta dove insegnano, o meglio impongono ai mbuti di difendersi dalle malattie endemiche, soprattutto infezioni di vermi e pian, come i pigmei chiamano la framboesia provocata da una spirocheta non a trasmissione sessuale, e che dà origine a eruzioni papulose vegetanti soprattutto sulle piante dei piedi. Ignorano, va da sé, l’uso di calzature.

Per millenni i mbuti hanno vissuto senza bisogno delle cure mediche oggi presentate come indispensabili. Sono “protetti” dalle autorità congolesi perché considerati «specie in pericolo», e l’Ituri dovrebbe essere una sorta di santuario riservato loro in esclusiva. Ma la civiltà delle macchine e della tecnologia incalza implacabile, e Ituri (che vuol dire “antenata”) Ataleo (“il veloce”) vive in una casa di adobe, ha due mogli, una che coabita con lui, l’altra che sta con un gruppo accampato fuori dalla foresta, alle rapide del fiume Epullu. Ataleo ha quattro figli, due “forestali” e due “cittadini”, e conosce il valore del denaro. I missionari locali, francesi, italiani, americani, cattolici e protestanti, cercano di convertirlo, ma Ataleo è irremovibile. Mi dice che la religione dei suoi antenati non è quella di un dio come la intendiamo noi ma è un “potere” diffuso ovunque, in pratica la foresta stessa.

Con lui ci siamo addentrati per chilometri e per giorni nella foresta. Divenuto stanziale, Ataleo, pur convivendo con i bianchi, non ha perduto l’agilità di un tempo. Segue, strascicando i piedi nudi, la pista che porta al margine della foresta immersa in un grande silenzio rotto soltanto da richiami lontani (si sentono a chilometri di distanza) di altri mbuti intenti alla caccia con i loro minuscoli archi e frecce, e dal grido di qualche uccello. Dove comincia il fitto Ataleo si mette a zampettare in tutt’altro modo, velocissimo, instancabile; a stento riusciamo a tenere il passo, e ogni tanto dobbiamo gridargli puno puno, piano piano, per non restare indietro, sperduti nell’intrico verde, tra ruscelli fangosi, enormi radici, sentieri quasi invisibili attraverso i quali passano in lunghe file formiche amazzoni, predoni dalle mandibole troppo grosse per potersene servire a scopo di nutrimento, e che devono dipendere dalle schiere di formiche schiave che guidano all’attacco di altri formicai per saccheggiarne i depositi alimentari.

A me e a Juliano Lucas a Mambasa si è aggregato un fotografo francese che con ogni evidenza è un “progressista”: tira infatti un sospiro di sollievo quando constata che i mbuti del primo gruppo che incontriamo si stanno civilizzando. A parlare per tutti — Ataleo funge da interprete — è infatti un uomo, mezzo pigmeo e mezzo bantu, che per rispondere alle nostre domande e farsi fotografare esige del denaro. Stanno dunque irrompendo anche in questo sperduto angolo del mondo i principi dell’universale reductio ad unum e le relative differenze gerarchiche. In una pentola di alluminio, non certo di fabbricazione “indigena” su un fuoco da campo davanti a una capanna, cuoce un pezzo di selvaggina; una vecchia ci decora braccia e fronte con uno stecco intinto in un liquido nero, carbone di legna e succhi vegetali, tracciando un disegno di benvenuto che ricorda da vicino i segni astratti delle pitture rupestri paleolitiche. A richiesta, il pigmeo-bantu esibisce, tutto fiero, una scatola di fiammiferi, ma poi si decide a dar prova della sua abilità conficcando un bastoncino di legno duro nella cavità di un pezzo di legno fradicio, e quasi subito la scintilla sprizza, la fiamma divampa. Però il fuoco, secondo la nuova visione pigmeo-bantu della foresta, è sacro, e quando lo si ottiene con questa pratica così “primitiva”, ormai “superata”, va religiosamente conservato in un ciuffo di muschio dove arde lentissimo e può venire trasportato.

È arrivato intanto, condotto da un’altra guida, un gruppo di medici bianchi. Sono francesi che dispongono certi loro cartelli dove, con figure, sono spiegati i metodi di prevenzione dalle malattie, che sono pochissime ma vanno civilizzatamente debellate. I mbuti sono molto resistenti alle infezioni, anche se i bambini (che crescono fino ai quindici anni al nostro stesso ritmo, poi l’aumento di statura cessa) presentano pance gonfie di vermi, e quasi tutti gli adulti mostrano, sulle piante dei piedi, le ulcere della framboesia. I medici procedono alla pesatura dei piccoli, e arriva intanto un gruppetto di cacciatori. Con le frecce avvelenate hanno ucciso una gazzella, e fanno il loro ingresso nell’accampamento danzando e lanciando lunghe grida che ricordano gli jödeln delle nostre montagne.

Continuiamo la marcia con Ataleo alla testa; dormiamo in un altro accampamento e all’alba ne vediamo partire alcuni cacciatori che, spiega Ataleo, hanno avvertito la presenza, a grande distanza, di un branco di gazzelle. «A quale distanza?», chiedo ad Ataleo. Risposta: «Circa venti chilometri». Il fotografo francese sussulta: non è possibile! Lui ha un’idea precisa delle comunicazioni tra esseri umani e animali. “Sentire” animali a grande distanza pertiene alla magia, quindi è disdicevole. «E se fosse frutto», gli faccio notare, «di facoltà percettive che lo stanziale ha perduto da millenni?». La risposta del francese, che è evidentemente un uomo colto, mi lascia a bocca aperta: «Non abbiamo avuto Cartesio per niente!».

Continuiamo la marcia, e nel successivo accampamento veniamo festosamente accolti con offerte di altre banane e una grossa foglia di agave all’estremità della quale è praticato un fornello riempito, dice Ataleo, di tambaca. Non si tratta però di tabacco, come interpreta il francese, bensì di “erba” che cresce spontanea nella foresta. E poco dopo, ripresa la marcia, il francese si ferma con un piede su un sentiero forestale, e guarda trasognato una lunghissima fila di formiche schiave guidate dalle amazzoni guardiane che si tengono ai lati della processione. Le formiche incontrano la desert boot del fotografo francese, vi si arrampicano, si apprestano a valicarle. La situazione si fa preoccupante: se salissero su per i calzoni del francese, questi verrebbe rapidamente trasformato in cibo. Per fortuna, le amazzoni e le loro schiave continuano la marcia lungo il sentiero dopo aver superato l’ostacolo del piede umano, e il francese sorride beato.

Adesso la marcia è a passo decisamente più lento: il francese è “fatto”. A un certo punto, ecco che si ferma, guarda sbalordito un albero in cima al quale si vede un ammasso verde in fitta agitazione. Sono mamba verdi, serpenti dendrofili, decisamente i più velenosi che esistano e che si raccolgono in gruppo per congiungersi intrecciandosi saldamente, e intanto saccheggiano nidi di uccelli. Il francese si esalta. Strilla: «Ma è un albero di Natale!», e avanza imperterrito verso il groviglio verde, scattando freneticamente con la sua macchina supermoderna. I mamba verdi sono molto sottili ma lunghi fino a tre metri, e basterebbe che uno di loro scattasse e mordesse il francese per spacciarlo tempo un paio di minuti. A salvarlo è Ataleo, che lo afferra per il collo della camicia e lo tira indietro con forza. Il francese è pesante e intontito, ma Ataleo è dotato di una forza straordinaria.

A questo punto si tratta di portare il francese fuori dalla foresta e lontano dai pericoli. Ebbro com’è di tambaca, non ci resta che preparargli una lettiga di rami e sobbarcarci, noi tre che ignoriamo gli effetti del presunto “tabacco”, la fatica di restituirlo alla civiltà.