I postumi di Werther – di Andrea Strazzoni

Nella vita di un maschio sono molte le lacrime che si conservano senza ci sia bisogno di trattenerle, che escono intatte dalle prove apparentemente più dure, dalle liti, dalle delusioni, o dalle emozioni più violente che fanno da contraltare alla perdita: l’entusiasmo, il possesso di un’altra persona, la temporanea vittoria sul tempo. Molte volte mi è capitato di voler piangere, lasciando invece passare indenne anche quello che secondo la misura dei miei valori doveva essere il momento più commovente: tanto che di questo, oggi, l’unico ricordo è legato all’assenza del segno che avrei voluto imprimervi col mio pianto, ed è diventato un istante come tutti gli altri, che non troverà memoria in nessuno, eccetto che nella circonvoluzione del mio pensiero. Se da esso sprigionerà qualcosa di intellegibile o di piacevole, eviteremo forse che si assommi all’innumerevole serie di momenti che ci rendono inutili.

Le lacrime maschili, così, sono come nascoste dietro una diga, che regge un lago di montagna limpido e calmo: perché queste sono le acque interiori che un maschio conserva e che riposano per anni e anni, in cui ogni sedimento si posa e calcifica quieto sul fondo. Così, come un corallo che ricopre le case in cui l’uomo è vissuto, i paesi sepolti dai laghi artificiali, nelle remote valli alpine, che abbiamo visto abbandonare dopo essere stati spogliati di ogni infisso, seggiola, tavolo, credenza, le posate, le fotografie, i ricordi di tutti i morti, i soprammobili delle sale dei vecchi. Di queste, ben che vada, troviamo oggi solo l’interesse archeologico, la meraviglia di una vita abbandonata che riemerge dalle acque fangose, quando la diga viene aperta e schiude tutta l’aspettativa che un bambino ha per un relitto del mare, sentendo il presentimento di un mondo ignoto, e che noi abbiamo per la reliquia di tutti i ricordi che, quotidianamente, cerchiamo di sopprimere, o che avviciniamo solo quando non ci riguardano più. Dietro la nostra diga personale, così, accumuliamo tutte le nostre lacrime, conservate dal giorno del nostro ultimo pianto iracondo, o, per gli altri, di quello di dolore o di gioia. In questa diga confiniamo la nostra esperienza, lo stimolo per tutti i progetti che vogliamo porre fra noi e il giorno della nostra morte, se già abbiamo iniziato a tenerlo da conto. Le nostre esperienze sono come le case dei contadini, che mano a mano abbiamo dovuto abbandonare mentre innalzavamo la nostra poderosa diga, e che da allora sono state raggiunte da quel lago sgocciolante dai ghiacciai, dalle vertigini di tutta la memoria della nostra specie, della famiglia, del paese, dei livori e delle invidie che abbiamo sentito toccarci fin da piccoli, e di noi stessi.

Queste case, peraltro, non sono andata perdute, e quel mare che le ricopre non è altro che il bacino che serba tutte le energie della vita futura: se di esse qualcosa verrà sprecato, sarà a valle, nel futuro, non a monte. E tanto più quell’acqua verrà ritenuta, tanto più conserveremo di noi stessi. A quale prezzo, però, riterremo quel lago senza dragarlo, senza lasciare che la marcescenza lo divori, senza vederci morire appena oltre la diga, come i soldati sotto le mura dei castelli muniti? Possiamo aspettarci di vederlo erompere, e di sopravvivere alla sua eruzione: si crede, in virtù di un pregiudizio, che ogni distruzione lasci spazio all’ordine, senza però che questo serva poi molto a giustificare ogni crisi, che, di fatto, ribadisce soltanto la nostra debolezza, e mangia come un serpente l’ordine regolare dei nostri giorni. Possiamo anche morire sotto quel crollo: per molti avviene così, e nessuno di questi lascia traccia, così come nessuno capisce mai di essere solo parte del rumore di fondo, o di essere nell’ora di una morte stupida e qualunque, che non lascia scampo a nessuna redenzione o conversione in articulo mortis, come un incidente stradale, o una vita in cui tutte le porte sono state chiuse e che richiederebbe come massimo coraggio quello del suicidio.

Possiamo, in alternativa, fare scolare quell’acqua: e non dovremmo avere troppa paura di aprire i bocchettoni, o di scalare l’altissimo muro che abbiamo messo fra noi e il cimitero affogato dei ricordi. Quale sarà l’occasione di questa eruzione, controllata o meno? Quale gesto improvviso ci darà modo di attraversare il pudore bambinesco che abbiamo in tanti anni affinato come una maschera ironica e stoica? Qualunque esso sia, sarà un incidente a cui andremo incontro volentieri, tanta è la forza delle pulsioni che sentiamo intervallare ogni momento occupato da affari più quotidiani o impellenti. Consideriamo comunque che questo non ci cambierà: non ritroveremo un nuovo ordine, una nuova umanità, non cadrà nessun velo di Maya, e ogni nostro gesto sarà affaticato come quello passato. Non esiste palingenesi oltre il mero decadimento corporeo, ogni mutazione è una decomposizione in cui nessun insetto si alza in volo dalla carcassa di quello vecchio. Non c’è altra vita che nelle iene o nei vermi, a seconda di dove moriremo.

Di tutti i gesti capaci di provocare quell’eruzione, non so prevederne uno che non mi abbia fatto pensare a tutte le mie lacrime, senza scatenarle. La mano di una nonna (e il ricordo che ne abbiamo avuto da bambini, toccando un essere che abbiamo visto solo da vecchio, e che ora ci ricorda due gioventù), il tepore di un gatto che ci ha riscaldato il grembo, la pena affaticata di un’amicizia di bambini che è morta allo spuntare dei primi seni, e che ci commuove quando sappiamo ritrovare l’antica intesa nel ricordo, dopo la perdita. Per il resto, non dobbiamo sentirci obbligati a niente: né ad aspettarci la già avvenuta catastrofe, né a concludere i nostri giorni nell’ossessione del ricordo e della conservazione, né, al contrario, ad aiutare la vita di tutti gli altri – che supponiamo innocente, noi che siamo nobilmente schiacciati dal peso delle idee – con il sacrificio della volontà di impagliare tutti gli animali e le mani che abbiamo toccato. Possiamo considerare tutto il tempo che intercorre dalla nascita alla morte come un ciclo in cui questa capiterà a caso, troncandolo in qualunque momento: esso verrà emendato dal suo essersi concluso almeno una volta. Oppure, possiamo ritenerla una crescita e un conseguente riposo, come vogliono in molti. Anche così, non vedo alcuna differenza fra il morire acerbi oppure marci e fradici: come nessuna delle figure che popolano la nostra memoria è stata ossessionata da quella che lei stessa ricorda, non commetteremo peccato nel non lasciare memoria di noi stessi.

 
 

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