Genesi della moneta – di Francesco Saba Sardi

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1.  La moneta come labirinto

Tutti sappiamo, o crediamo di sapere, cos’è la moneta, il denaro circolante, tesoreggiato, peso, accumulato in varie forme, alcune concrete, immediatamente materiali, altre simboliche, costituite da segni e simboli. Ma, al di là della mera constatazione della sua universale presenza e della sua funzione – mezzo di scambio economico per eccellenza – esiste la possibilità di una designazione più accurata, più specifica, di una definizione che, lungi dal limitarsi a contrassegnare una finalità, un’inevitabilità, chiarisca – o per lo meno alluda a – l’essenza segreta, originaria, della moneta?

Che d’un oggetto misterioso si tratti, è comprovato, non foss’altro dalla carenza di studi sull’origine della moneta. Ci si limita, da parte degli autori, a constatare che la moneta sorge e lentamente si diffonde e impone quando dall’originaria fase di baratto si passa a forme più complesse di scambio, quando in altre parole dallo scambio diretto di A contro B (il che significa che chi possiede A desidera B, e viceversa, e che A e B siano divisibili) si può scambiare A con C e C con B; il bene che per i suoi requisiti finisce per essere prescelto come intermediario per gli scambi è detto moneta e lo scambio stesso, così trasformato, compravendita.

È grosso modo, la  “definizione” preferibile in qualsiasi enciclopedia e manuale di economia, ma che a ben vedere è di tipo per così dire cronachistico, in quanto si limita a indicare, e con molte approssimazioni, come sono andate le cose, senza spingersi – e anzi guardandosi bene dl farlo . a una determinazione esauriente del concetto. È come se una divieto impedisse di spingere lo sguardo più a fondo, dietro l’evidenza – moneta, dandone per scontata la funzione, quasi ponendosi al sicuro al di qua della sua *astanza, dietro il vallo della sua indispensabilità. Un tabù proibisce l’accesso ai nascosti moventi, *all’originario mito fondativo della moneta; un tabù che trova espressione nel malcelato disagio con cui, ancora oggi, si parla di “soldi”; che ha avuto il suo specchio più eloquente nei fulmini ecclesiastici contro l’usura; che si è manifestato in epoca anticoclassica nella favola di Mida, il re di Frigia, eroe di varie storie popolari, la più nota delle quali è quella narrata da Ovidio nelle Metamorfosi; ed è nota l’identità, istituita dalla psicoanalisi, tra oro e feci: materia vile l’uno e le altre.

La storia raccontata da Ovidio servirà a chiarire con un esempio il carattere segreto, misterico della moneta nella sua forma più palpabile. Re della Frigia, Mida incontra Sileno, che, perduto, si era addormentato lontano dal corteggio di Dioniso tra i monti della Frigia. È stato trovato da alcuni contadini che non lo hanno riconosciuto, ma lo hanno portato incatenato davanti al loro re Mida, da tempo iniziato ai Misteri e che subito si accorge con chi ha a che fare. Lo libera, lo riceve con grandi onori e lo accompagna nel viaggio per raggiungere Dioniso. Questi ringrazia il re e gli offre, come ricompensa, di esaudire un suo voto. Mida chiede che tutto ciò che tocca si trasformi in oro. Tornato alla reggia, comincia a sperimentare il suo nuovo dono. Ma, portatosi alla bocca un pezzo di pane, non incontra che un pezzo d’oro, e in metallo si tramutano l’acqua e il vino, la carne e gli esseri viventi.

Affamato e morente di sete e di fame, Mida implora Dioniso di riprendersi quel dono pernicioso, e il dio acconsente: Mida, per sbarazzarsene, si lavò testa e mani nella sorgente del Pattolo. Il re lo fa, e subito il dono scompare, ma le acque del Pattolo rimangono cariche di pagliuzze d’oro.

Crattere sacrum, dunque, dell’oro-moneta: nella duplice accezione, di fas e nefas insieme. Di prodotto dell’aldilà, di elemento ctonio, originario dal profondo, che fa irruzione nell’aldiqua, accettato e accettabile nei limiti in cui sia per lo meno rivestito e travestito da un’immagine che lo decora ma insieme redime, che ne conferma l’autenticità ma che soprattutto assolve a una funzione apotropaica, togliendogli la pericolosità insita nel suo essersi imposto alla collettività come presenza inquietante, fonte inesauribile di nuovi desideri, sommovitore di aspirazioni deprecabili; causa di conflitti, simbolo dell’incolmabile disuguaglianza, emblema del potere e della gerarchia, strumento che è valso a sopprimere l’eguaglianza, presunta o effettiva, dei primordi. La storia di Mida vanifica di per sé le asserzioni manualistiche, le quali partono da un presupposto meramente utilitaristico, e da un pregiudizio profondamente radicato, reperibile a ogni livello, dotto o ingnorante che sia, quello che vuole una sfera dell’economico sempre esistita, sempre componente essenziale dell’esserci se non addirittura dell’essere. Quasi che lo “scambio” abbia sempre avuto il carattere di un do ut des, regolamentato e calcolabile. Il che fa il paio con l’idea della parola come mezzo di comunicazione e scambio, ignorando quel mormorio indistinto, impronunciato e impronunciabile,  che procede, accompagna e sottende la parola detta: voglio dire la parola allo stato puro, i pensieri allo stato grezzo, incomunicabile, al livello di flusso coscienziale, torbido fiume sozzo. Sozzo è tutto ciò che mi avvicina all’animalità, e la sozzura è investita da tabùin ogni cultura: sozze le deiezioni, sozzo l’erotismo, momento nel quale tace il linguaggio della ratio e imperversa il linguaggio dei corpi, eloquemente muto nella sua elementarità. Ovunque siano esseri umani, si ha l’eloquenza che prende il posto del flusso coscienziale. Il flusso del linguaggio comunicabile è sempre e comunque mediato, persino nella schizofasia dello schizofrenico. Il processo di raffinazione-traduzione è il nucleo della censura che interviene automaticamente, e nei gruppi umani privi di gerarchia è il tabù, il suo automatismo, a rendere possibile lo scambio (ma il tabù, e torneremo sul concetto, è solo l’altra faccia della medaglia-rivelazione). Nelle società organizzate, gerarchicamente, il tabù va sostituito con il divieto, la legge, la punizione per le infrazioni commesse. La traduzione si trasferisce su un altro piano: si dà regole, norme, dettate dai poteri. La censura non è più automatica, bensì decretale, legislativa, normativa, autorevole e autoritaria.

Lo stesso vale per la sfera “economica.” Lo scambio originario, spontaneo, si assudita alla regolamentazione nel contesto della società (diversa dal gruppo,a esso di norma successiva, sua dilatazione e negazione). Solo allora sorge l’economia – e solo allora si instaura il baratto, ben diverso dalla reciprocità del dono.

Del resto, l’etimologia, (e il suo stesso etimo, etymologia indica “la vera ragione” cioè “la ricerca del vero significato” risalendo alla genesi attraverso l’analisi formale delle parole), certo è più vicina alla poesia e al narrare che non alla scienza, ma proprio per questo tanto più illuminante lasci pochi dubbi in merito. “Barattare”, in italiano, indica probabilmente un prestito tratto dalla lingua provenzale baratar (antico francese barater), denominale da barate, lotta, inganno. Nell’antico sardo, barattare significa litigare. Il Barattiere è, nel XIII secolo, tenutario di banco da gioco, come il provenzale baratier. Baratto è, in Dante, permuta anche con frode. Si baratta per procurarsi un vantaggio: scambio essenzialmente ineguale, come indica lo spagnolo e il portoghese barato, “a buon mercato”, donde la necessità, avvertita già dal Codex Sulmonensis (XI secolo) di legiferare superbaractem onde evitare che il desideri di quell’oggetto spalanchi l’uscio all’irruzione dell’inganno e della prevaricazione da parte di chi lo possiede: all’aumento del “prezzo”, dunque. Non meno rivelatore l’etimo di economia, dal greco oikonoméō (il latino œconomus del Codex Iustinianus), da “eco” e némō, distribuisco equamente, il che presuppone un’autorità che provveda, decreti, esegua. Oikonoméō significa procaccio, amministro. E l’economo è, oltre all’amministratore, oltre al risparmiatore, anche (secolo XIXX voce zoologica) il topo campagnolo che raccoglie le provvigioni per l’inverno, emblema della saggezza previdente e raziocinante.

Moneta ha a che fare con munus ma anche con moneo. Moneta, «l’avvertitrice», era il soprannome della Giunone onorata sulla sommità nord del Campidoglio. Era stata così chiamata perché, durante l’invasione dei galli (390 a.c.) le oche sacre allevata attorno al santuario della dea dettero l’allarme con i loro starnazzamenti mentre i nemici cercavano di assalire il colle per un attacco notturno. Il tempio di Giunone Moneta si innalzava sul sito della dimora di Manlio capitolino, il difensore del Campidoglio, che era stato abbattuto dopo la condanna a morte del proprietario sospettato di aspirare alla monarchia: anche questo un “ammonimento” alle generazioni future. La leggenda voleva che, durante la guerra contro Pirro, i Romani, temendo che il denaro venisse loro a mancare, avevano chiesto consiglio a Giunone, la quale aveva loro risposto che il denaro non sarebbe mai venuto a mancare se avessero condotto le guerre con giustizia. In segno di ringraziamento per questo consiglio, era stato deciso che il conio della moneta sarebbe stato effettuato sotto gli auspici della dea, e nel tempio di Iuno Moneta aveva infatti sede la Zecca Romana. Sulle medaglie, la dea di cui si celebrava la festa il primo giorno di giugno, è raffigurata con la bilancia in una mano e il corno dell’abbondanza nell’altro.

Ma Igino (Hyginus) l’Astronomo, scrittore latino del I secolo d.C., dice qualcosa di più: nelle sue Fabulæ, manuale mitologico a uso scolastico, riprendendo Cicerone, De Natura Deorum, 3, 47, dichiara Moneta “madre delle Muse”, identificandola con  Ìíçìïóύíç (Mnemosyne). Memoria, mente mind, inglese hanno la stessa radice di moneo, far pensare, rammentare, ricordare, avvisare, ed è l’indoeuropea mn, donde il greco mythos (parola, discorso, racconto), affine al gotico maudjan (rammentare), paleo-irlandese smuainim (io penso), al paleo-slavo mysli (pensiero), al lituano maũsti (desiderare ardentemente); donde mnestico il mito lungi dall’esser favola o menzogna, è dunque un tentativo di cogliere i limiti del soggetto, della scienza, in altri termini, di collocarsi in un ambito dal quale sia possibile percepire il supposto soggetto nella sua interezza, una volta per tutte memorando il Grande Tempo in cui gli dei si aggiravano tra gli uomini. E, più ancora, gli antenati del Tempo-Sogno degli aborigeni australiani che percorrevano la terra denominandola, e tracciando “le vie dei canti”. Ma al mito è presente la vanità del tentativo, donde la sua costitutiva duplicità. Il mito è un giano bifronte che con una faccia guarda all’al di qua e con l’altra all’aldilà; è giano e limite, e come tale posto da noi, dalla nostra coscienza.

La moneta è inventata da questa ambiguità costitutiva. Il mito potrebbe riassumersi nell’espressione “passo” che, appena pronunciata, rivela tutta la propria inafferrabilità, la propria intraducibilità in termini logico-discorsivi. Si passa infatti in rapporto a un limite (porta, soglia, o altro che sia); e il limite a sua volta è istituito dal passare, dal moto che lo supera. È impossibile cogliere la situazione intermedia, quella del limite non ancora istituito come tale dal passare. Tra l’informe che si pone oltre la coscienza, l’inconoscibile, il non-nato, il morto, ma anche il luogo di ogni nascita, il non-luogo da cui sgorga la parola (e zampilla l’idea della moneta), e l’esistere sta entro il limite al quale la vita umana è precariamente sospesa.

Ora, su questo limite, oscilla la parola, e su questo limite si colloca, in bilico, la moneta che corre, passa, di mano in mano, molto spesso è disco, non di rado è una ruota (o reca, assai spesso immagini di ruote); è vano fermarla, nasconderla sottoterra, incamerarla, perché allora diviene “improduttiva”. La moneta è il circolante per antonomasia. Ma definizioni siffatte non sono per niente casuali: solo la pigra abitudine ce le fa sembrare tali; solo il millenario impiego della moneta, la sua indispensabilità, ci inducono a darla per scontata. Ma proprio la sua mutevolezza, il suo proteiforme apparire in varie fogge, metalliche, cartacee, elettroniche, puri segni, ne rivela l’essenza, ne denuncia il porsi oltre il linguaggio sintatticamente organizzato, la rimanda alla zona dei gesti simbolici di autoaffermazione, alla sua metaforicità, al suo esprimere l’aspirazione alla continuità che si sa impossibile. Nessun tesoro che non sia in pericolo; nessuna fortuna che non possa precipitare lungo la propria ruota. Nessuna oggettività della moneta, o un’oggettività che non trascenda quella della scrittura.

 

2 Moneta e città

La moneta non è concepibile senza la scrittà: città-scrittura, binomio inscindibile, e anzi non potremmo, trinità della quale noi appartenenti alla cultura urbana, fare a meno per nessuna ragione. La storia della città è storia della scrittura e della moneta-economia.

Narra Pindaro che un dio in sembianze umane parlò all’argonauta Eufemo, sbarcato sulle rive del lago Tritonio, e gli vaticinò che Tera, la sua città d’origine, sarebbe stata “metropoli di gloriose città”. Il dio porge a Eufemo, il suo nome significa «il ben parlato», un pugno di terra come pegno; dall’alto dei cieli Zeus, il Cronide, il dio che presiede al tempo, approva “con la romba del tuono”. Una voce preannuncia dunque la fondazione della città, ed è un vaticinio ex eventu, il suo decreto essendo inscritto nelle stelle, in ordine, un impulso irresistibile. La cosiddetta “stele dei fondatori” di Cirene documenta in forma epigrafica il rito e le modalità della fondazione: è stato Apollo a ordinare a Batto e a gli altri abitanti di Tera di partire per fondare Cirene; i coloni sono volontari, ma chi rifiuta di imbarcarsi sarà passibile di morte e confisca dei beni.

Sicché, subito la città si sdoppia: è una forma simbolica ma anche un insieme di norme e regole, si avvia a diventare organismo e manufatto. Da questa schisi originaria deriva l’occultamento e l’eclissi della città come reticolo di desideri mentre sul proscenio, occupandolo in apparenza senza residui, si fa la città-macchina. Ma è solo un’illusione ottica. La città non cessa mai di essere il non-io che parla e decreta la crescita, che impone le vicende storiche e l’estinzione con la conquista – di questa o altre città. Il potere ha un volto enigmatico, e la città è il potere. Lo sapeva il tardo romanticismo, e basti pensare alla descrizione del ventre di Parigi nei Miserabili di Victor Hugo. Nella storia babilonese di Gilgamesh, l’amico dell’eroe, Enkidu, viene sedotto dalla città-prostituta. La città sarà la sua perdita. Enkidu, che prima beveva alle pozze d’acqua con le fiere, mangerà pane e dormirà in un morbido letto. Ma morirà, e Gilgamesh, nel suo viaggio alla ricerca dell’immortalità, lo troverà nel mondo degli inferi; qui Enkidu, l’inurbato, che ora non ha più calore umano, ma appare “come fango”, gli rivolge un’esortazione che sintetizza il destino della città, del borgo, della borghesia: “mangia, bevi, spassatela, la vita è breve, Ghilgamesh, la vita è priva di significato al di fuori dell’attimo”. Enkidu proclama il carpe diem antelitteram, rivela l’altra faccia della città, diventata desideri realizzati, tutto e  dappertutto, nella quale non c’è posto per nessun’altro cosmo. Enkidu ha perduto: è fango. Perderà anche Gilgamesh: in nessun luogo si ritrova più l’immortalità. Il Grande Tempo del mito è finito, la cacciata è definitiva.

Ma nella sua duplicità, la città contiene in se le ragioni dell’oblio: al pari della moneta che è in origine forma simbolica e si è ridotta oppure elevata a indispensabile mezzo di scambio; al pari dell’oro, metafora della regalità divenuta metro della ricchezza che tutto acquista, tutto può far suo, tutto ridurre, assoggettare e corrompere, la città dimentica le proprie origini, si presume luogo della salvezza, mappa dei tentativi di non perdersi nel mondo. Ma ecco che ci si perde nella città. Vicoli, cunicoli, strade contorte, viali sterminati, sentine del vizio, crescita in senso verticale e dunque vertigine, alloggi da capogiro e luoghi panoramici dei quali si tenta di ricostruire la topografia urbana: la città è una moltiplicazione dei pericoli che vorrebbe escludere. La città, che si suppone esorcismo contro l’informe, l’insensato, il proliferante che sgorga improvviso, che fruscia subdolo, che non ha confini; la città chiusa da mura o descritta e inscritta in un plan de ville  che è un plan de vie; la città che pretende di rifare il cosmo all’interno di limiti scelti, che si propone quale riassunto, specchio rassicurante del cosmo, è in effetti uno specchio frantumato: mille specchietti, mille cosmo rovesciati. Il labirinto con il filo di Arianna contrapposto al labirinto senza il filo di Arianna, tale vuole essere la città. Ma essa non sfugge alla labirinticità, anzi la moltiplica ed esaspera. A mano a mano che la città cresce, con il progressivo aumentare della sua funzione esorcistica, la città-apotropaion si pretende sicura, si dà a vedere certa del proprio destino. Diventa un “insieme ordinato di isolati e quartieri disposti con ornata simmetria, di strade e di piazze pubbliche che si aprono lungo tracciati rettilinei, ordinati in modo gradevole e salubre, con pendenze sufficienti per lo scolo delle acque” (Charles Davilier, teorico francese del 700’). Non più organismo, la città aspira a diventare “una realtà fisica, un raggruppamento più o meno esteso di case e di edifici pubblici… la città ha inizio solo quando i sentieri si trasformeranno in vie”, afferma un autore francese moderno, Lelièvre.

La città, luogo della sicurezza, luogo della scrittura, luogo del testo. È città come sede della nevrosi e culla della follia. Nulla deve sfuggire alla programmazione, e quando non è programmabile viene relegato fuori dalla sua cerchia. La città medievale è chiusa, serrata dentro mura che tengono lontani i nemici ma anche, e soprattutto, la campagna, la gozzuta deformità montana, i residui pagani, i culti agricoli della fecondità, Bertoldo e i bietoloni suoi pari, e se il campagnolo è ammesso a corte, lo è quale buffone, clown (cioè ”contadino”) per antonomasia. La città contiene il carcere, sua l’immagine esasperata, così come lo è il manicomio, preciso specchio di una fase di sviluppo della città. Uno spazio rigidamente organizzato impone un gravame. La città è un immenso, perenne rituale. Lo stesso vale per la moneta, sua espressione, simbolo della differenziazione gerarchica. Ma la città è anche conciliazione e integrazione; e la moneta assolve a questa stessa funzione. Se il “disagio della civiltà”, di cui parlava Freud trova primaria esplicazione nella convivenza urbana, esiste anche un “disagio della moneta”: anche la moneta è un labirinto, indispensabile flusso vitale, “circolante” nelle vene della cultura urbana, che ormai investe di se stessa tutto il mondo salvo sparuti residui “selvaggi”; l’indispensabile apparato ortopedico, ma anche diventando fine a se stessa, fonte appunto di disagio. Labirintica, la moneta è, non più la componente di un organismo ma una machina, un artificio che avoca a se buona parte dell’immaginario, assurge a demiurgo della propositività e positività, della preveggenza, veggenza e reggenza, a veicolo della utopia e del riformismo, all’oscuro ormai del pericolo insito nella creazione parallela a quella originaria. Il monetarista, il “mago della finanza”, diventano architetti, ipostasi del codificare, erigono quelle opere titaniche che sono i templi del denaro e le sedi in cui con il denaro si moltiplica e distrugge, continuazione dell’orgoglio del fondatore e del sovrano. La moneta fonte della sicurezza e sorgente di inquietudini, di incubi, di patemi: l’Avaro di Moliere insegni.

Bisogna dunque imparare a convivere con la moneta, con la sua duplicità, con il suo autonomizzarsi in una faccia fas  e una nefas. Come tutte le cose che hanno stretti legami con la sfera mitica.

Affiorata da ciò che si è deciso di chiamare inconscio, la moneta ha occupato la fera del conscio, vale a dire quella che oggi mette al bando il mito e si concede interamente al calcolo scientifico volendo ignorare che, per dirla con Hegel, “quanto più solide sono le prigioni che l’intelletto costruisce, tanto più impetuosa è la pressione della vita per fuggire via, verso la libertà”.


3. Dono, scambio, baratto

È sufficiente ricostruire in noi stessi la vicenda che ha portato alla nascita della moneta. In altre parole, ricercarne la semplice essenza in termini empatici anziché di ragione, le ragioni venendo sempre dopo le esperienze vitali, il mito essendo, non solo momento espositivo, interpretativo, ma anche in primo luogo, un “vivendo” un Erfahrung. Prima parla il subconscio, poi i ragionamenti tentano giustificazioni, razionalizzazioni.

Ed è facile allora rendersi conto che il dono non è lo scambio, né tanto meno il baratto. Il dono attiene alla prodigalità e al sacrificio. La nozione di donare sottintende la gratuità del gesto: un atteggiamento che si censura nella regalità arcaica. Una delle funzioni del sovrano, il «capo degli uomini», che disponeva (relativamente), di enormi ricchezze (torneremo in seguito sul concetto), era di dedicarsi allo spreco ostentatorio. Quasi sempre, «giunto il suo tempo», doveva acconsentire alla propria immolazione, se non soggettivamente, per lo meno tramite il popolo che incarna. Va, culmine estremo del ciclo dei sacrifici, Bernardino de Saha, gurù, missionario francescano, in Messico nel 1529, nella sua monumentale Historia de las casas de Nueva España riferisce che «i re cercavano l’occasione di mostrarsi generosi e di procurarsene la reputazione, ed era per questo che facevano grandi spese per la guerra e gli areytos (danze che precedevano o seguivano i sacrifici). Rischiavano al gioco cose preziosissime, e quando un umile suddito, uomo o donna,osava salutarlo e rivolgergli qualche parola che lo rallegrava, veniva fatto loro dono di alimenti e bevande, nonché di stoffe per vestirsi e dormire». Ma, soggiunge il dotto frate, «se qualcuno componeva canti che riuscivano loro gradevoli, gli facevano doni proporzionati al merito e al piacere che ne avevano avuto» (libro VIII, cap. XXIX). In altre parole il sovrano, erede e interprete delle origini, monopolizzatore del mito, continua la tradizione del dono, ma già lo elargisce in proporzione.

I Pigmei Mbuti dell’Ituri fino a pochi decenni fa, come ha potuto constatare a suo tempo Colin M. Turnbull che ha vissuto a lungo tra loro e li ha accuratamente descritti in De forest people, New York, 1961; non procedevano a baratti ma donavano, ai loro vicini o ai componenti dell’orda i prodotti della caccia: spartivano, non scambiavano. Ovvio, del resto: vivendo in stretta intimità con la foresta, che consideravano genitrice, più esattamente “norma” (è questo il significato di Ituri), alla quale si adattano senza cercare di controllarla, e nei confronti della quale hanno un atteggiamento di totale fiducia (ben diverso da quello di altri abitatori della foresta, coltivatori e pescatori che la temono), ne ottengono doni gratuiti e hanno un atteggiamento ambivalente verso la caccia: «questa li colma di eccitazione e piacere, e la carne è un cibo molto gradito, ma… ritengono anche che sia ingiusto togliere la vita a creature» create «da Dio (ma l’espressione usata qui da Turnbull è impropria: piuttosto, dal tutto) come ha creato il popolo della foresta».

Anche altri primitivi ignoravano il baratto a esempio gli Inuit (eschimesi), gli aborigeni australiani e i Coisan (Ottentotti e Bscimani) del Calahari. È semplicemente buona educazione, atto di gentilezza, ricambiare il dono – ma c’è una differenza di ordine temporale tra lo scambiare e il reciproco donare. Il donatore non esige, pure aspettandosi riconoscenza che si esprimerà, al momento opportuno, in un contraccambio. Neppure conserverà rancore se questo non ha luogo.

Lo scambio e tanto più il baratto, esclude questa dimensione psicologica, la sostituisce con l’immediatezza e la doverosità.

Lo scambio è un momento che anticipa il baratto, è una fase intermedia che può trovare esemplificazione, per ricorrere ancora a Bernardin de Sahagún, nell’attività dei «mercanti» Aztechi. Al pari dei guerrieri, i “mercanti” procuravano le vittime dei sacrifici, «la festa essendo uno ruscellare, non solo di sangue, ma anche di ricchezze, allo spreco delle quali ciascuno contribuiva nella misura del proprio potere. I “mercanti” conducevano spedizioni in paesi tutt’altro che sicuri, spesso dovevano combattere, non di rado preparavano una guerra, ma soprattutto si acquistavano l’onere di provvedere oggetti (esseri umani, cose) da donare agli dei, in una fase in cui il mito aveva ceduto il posto alla religione, e l’atto del dare aveva cessato di essere gratuito, ma era inteso a procurarsi il beneplacito degli esseri sovrumani. Sacrifici compivano anche gruppi di cacciatori-raccoglitori “primitivi”, ma avevano uno scopo riparatorio: sottratto un animale al tutto ambiente circostante, lo risarcivano con lacrime più o meno sincere, danze, canti di ringraziamento e di richieste di perdono, ponendo sulla salme dell’animale foglie, frutta, amuleti apotropaici per tenere lontana la “vendetta” dell’aldilà.

Il sacrificio per acquistarsi in esclusiva la gratitudine degli dei o indurli minore ferocia, voluto e programmato dai sovrani arcaici, era già uno scambio, nel senso che regole precise, fissate dagli interpreti della volontà divina, aruspici, stabilivano l’entità del sacrificio stesso. Era insomma già un do ut des.

Un passo più in là, e si ha il baratto. Agli occi degli spagnoli conquistadores, l’opera dei “mercanti” Aztechi apriva ignobile. Il loro giudizio atteneva al principio del commercio, fondato esclusivamente sull’interesse, nongià sull’aquisizione di prestigio. Ora, i “mercanti” del Messico non seguivano esattamente la regola del profitto, il loro traffico aveva luogo senza mercanteggiamenti, assicurava gloria a chi lo praticava. Il “mercante” azteco non vendeva, ma praticava lo scambio mediante il dono: riceveva ricchezze dal «capo degli uomini», e faceva dono di queste ricchezze ai signori dei paesi dove si recava ricevendone a sua volta donativi, come piume di vario colore e forma, pietre tagliate di ogni genere, conchiglie, ventagli, palette di madreperla per mescolare il cacao, pelli di animali feroci conciate e ornate di disegni.

La differenza con i selvaggi è però già palese: gli Aztechi ormai saccheggiavano il mondo, non prelevavano da esso esclusivamente in proporzione ai loro bisogni: il bisogno si è insomma trasformato in parte in desiderio, sia pure non senza residui dell’atteggiamento primitivo. Non si chiede perdono al mondo per la sottrazione effettuata, ma si tratta con essi quasi da pari a pari, “pagandoli”.

La fase ulteriore è quella del baratto, da cui la manualistica fa partire la genesi della moneta, ignorando quanto viene prima. Non va tuttavia dimenticato che gerarchia e potere sono sorti contemporaneamente o almeno nel contesto della rivoluzione neolitica avvenuta circa dieci o dodicimila anni fa, e che l’uomo è sulla Terra da epoche ben più remote, almeno due o tre milioni di anni, e che per tutto il Pelolitico com’è comprovato dall’assenza di figurazioni parietali di scontri tra uomini, ignoravano guerra, potere, gerarchie, seppure praticavano la violenza nella caccia. Bisogna insomma supporre l’uomo di Crô-Magnon mentalmente assai più simile ai pigmei o ai Coissan che non agli Aztechi e all’odierno Homo œconomicus.

Con questo non si vuol certo celebrare la saga del “buon selvaggio”, né ripetere la favola dell’età dell’oro sostituita dall’età del ferro o dalla maledetta aurisacra fames. Si vuole semplicemente ipotizzare, nei limiti in cui è possibile inferire i comportamenti dei nostri progenitori da quelli dei superstiti “primitivi”, che con ogni probabilità prevaleva – o forse si praticava esclusivamente il dono – ignorando ancora il baratto e il “pagamento”, propiziatorio dapprima, e mercantile poi. È lecito anzi supporre l’inesistenza dell’economia: rivoluzione neolitica, cioè avvio della produzione di alimenti e di una tecnologia evoluta, ed economia intesa quale organizzazione e gestione della produzione (cosa che, come si è detto precedentemente, presuppone un centro direttivo e un programmatore: un calendario, un sacerdozio, una struttura gerarchica), vanno di pari passo.

Solo in questa fase, durante la transizione dalla fusione con il cosmo al distacco e alla contrapposizione a esso (la “cacciata dall’Eden”), si può ipotizzare la nascita del baratto e successivamente la genesi della moneta.

Solo a partire dal Neolitico è lecito parlare di ricchezza e di accumulo e di spreco.