Sta per venire la rivoluzione e non ho niente da mettermi – di Silvana Galassi

Sta per venire la rivoluzione e non so cosa mettermi

 

 

Nel ‘ 73 Umberto Simonetta mise in scena un monologo recitato da Livia Cerini “Sta per venire la rivoluzione e non ho niente da mettermi”; questa frase divenne molto popolare nella mia generazione perché connotava di autoironia un certo modo di essere di sinistra.

Rivisitata ora, la preoccupazione di arricchire il guardaroba di un capo da indossare per un avvenimento importante, può essere letta come una metafora di un principio fondamentale dell’evoluzione naturale e culturale, quello della ridondanza.

In natura esiste un’ostentazione di bellezza e un’abbondanza di forme di vita che non sembrano strettamente necessarie. Poiché la ridondanza contraddice l’ipotesi della selezione del più adatto, che sta alla base della teoria dell’evoluzione, sono state avanzate alcune tesi per giustificarla.

La rivet hypothesis, letteralmente “teoria del rivetto”, sostiene che tutte le specie anche le più piccole e poco appariscenti contribuiscono all’assemblaggio e al funzionamento di un ecosistema come i rivetti che tengono insieme le componenti di un oggetto metallico e che, una volta applicati, è difficile rimuovere pena la rottura dell’oggetto stesso.

Altri pensano, invece, che l’ecosistema si regga su un numero limitato di specie chiave e che quelle ridondanti rappresentino una forma di assicurazione contro gli infortuni. Nel caso di scomparsa di una specie chiave, un’altra, rimasta in panchina fino a quel momento, come un giocatore di una squadra di calcio, prenderebbe il suo posto.

In ogni caso, la ridondanza, che potremmo definire un lusso della natura, assumerebbe un valore funzionale e non semplicemente estetico.

Se trasferiamo queste considerazioni all’ecologia umana, ci viene da pensare che il lusso non rappresenti semplicemente un’ostentazione di gusto e ricchezza ma una forma di ridondanza che permette al possessore di molte cose di affrontare in modo più adeguato le mutevoli situazioni della vita rispetto a chi ne ha poche o nessuna, rievocando e contestualizzando la frase di partenza.

Ma se da un lato possedere due automobili ci evita di restare a piedi nel caso in cui una si guasti, avere un parco auto è un lusso che pochi possono concedersi perché comporta un dispendio eccessivo di risorse economiche. Esiste, dunque, un limite di convenienza al possesso e al mantenimento delle cose, come esiste un limite per la Natura all’espressione delle forme viventi. Ma qual è questo limite?

La risposta ci fa addentrare in campi di indagine che gli ecologi da un lato e gli psicologi e gli antropologi dall’altro stanno esplorando con molto interesse: quanta biodiversità è necessario difendere rappresenta una delle sfide più grandi dell’ambientalismo mondiale e distinguere tra lusso e consumismo potrebbe segnare un passo importante per la comprensione del comportamento umano.

Il discorso si fa ancora più complesso se dagli oggetti materiali si passa alle diverse forme della conoscenza. Appare ovvio che la nostra società offra maggiori opportunità ad una persona erudita e che la conoscenza sia un valore per l’essere umano ma l’erudizione finisce per impoverire le difese istintive caratteristiche del “buon selvaggio” che ha maggiori probabilità di sopravvivere in situazioni primordiali come quelle che si possono verificare in seguito ad un naufragio su un’isola deserta.

Esiste un termine che penso sia stato preso a prestito sia dagli ecologi sia dagli psicologi dallo studio dei materiali; la resilienza. Per gli ecologi rappresenta la potenzialità di un ecosistema di riportarsi nella condizione originaria dopo aver subito un disturbo e per gli psicologi è la capacità di reagire positivamente alle situazioni avverse. In entrambe i casi la resilienza misura l’elasticità del soggetto rispetto a una perturbazione che viene dall’esterno.

La ridondanza intellettuale generalmente aumenta la resilienza di un individuo, aiutandolo a superare i traumi subiti più o meno come la biodiversità della natura assicura la stabilità degli ecosistemi.

Tuttavia per valutare quanto la ridondanza possa influire sulla resilienza di un sistema è necessario considerare un’altra variabile che finora è stata ignorata in questo ragionamento e sottovalutata nelle discussioni scientifiche: il tempo.

C’è una grande differenza tra potenzialità di adattamento e capacità reale. Se il disturbo è troppo rapido i tempi di risposta potrebbero essere troppo lunghi per consentire di ristabilire l’assetto di partenza o un altro assetto che permetta al sistema di essere ancora in grado di svolgere le sue funzioni più importanti.

Lo sviluppo delle società tecnologiche, accelerando in modo vertiginoso la velocità con la quale le condizioni climatiche vengono modificate, le risorse naturali vengono consumate, nuove molecole vengono immesse nell’ambiente mette in difficoltà la Natura per la quale i tempi di adattamento possono essere molto più lenti rispetto a quelli del cambiamento.
D’altro canto, le conoscenze scientifiche sulle quali poggia la speranza di porre rimedio ad ogni eventuale danno prodotto all’ambiente e alla psiche umana vengono diffuse e assimilate con difficoltà perché esiste un limite biologico e sociologico all’acquisizione dei nuovi saperi.

Queste riflessioni o, più semplicemente, il senso di insoddisfazione e saturazione prodotti dal consumismo hanno portato alcuni economisti a proporre la decrescita felice [1] che trova una sua applicazione pratica in una modalità di comportamento definita downshifting.

Il downshifting impone di rallentare quello che attualmente viene definito progresso, di ridurre le spese, le ore di lavoro, i consumi e gli sprechi e aiuta a costruire una società del risparmio, dell’attenzione e della consapevolezza. Riducendo le situazioni di stress, questi comportamenti, semplificano l’esistenza di ognuno di noi e quella del Pianeta che ci ospita.

[1] Latouche S. Breve trattato sulla decrescita serena. Bollati Boringhieri. 2009.