Mediolanum, luci al neon e vetrocemento – di Lisa Rampilli

Tratto dal celeberrimo Le città invivibili

Mediolanum

luci al neon e vetrocemento

Questa è una città di ultrasogni. Una città dalle gambe lunghissime e dagli alti stivali, capace di trasporre il naturale al di là dell’umano limite, una città il cui arco di trionfo è un enorme sorriso dal rossetto rosso Marlboro, che una volta varcato comincia una festa, che per alcuni non è mai finita. Questa è una città di grattacieli e balconate, dove si affacciano spettatori perenni e silenziosi: piccioni, che con la curva dell’ala, indicano solitari e tristi supereroi.

Il presente era come ci si immaginava il futuro: superfici lisce, spigoli appuntiti, legno che si trasformava in lacca scura e riflettente, sfilate di lampadari, mosaici neri. Le piante si arrampicavano dappertutto; ancoravano i loro steli a spirale a pareti imbottite, a carte da parati, a gigantografie di spiagge, giungle e foreste o prepotenti cascate. Una realtà sostitutiva, ma sostitutiva di niente, perché quella era l’unica realtà che si voleva disegnare, purché fosse illuminata di taglio da un neon rosa tubolare.

Qualche capitello ionico in polistirolo si sbriciolava sulla sabbia di un deserto sintetico, e una ragazza prendeva il sole quasi immobile; quasi, perché la sua testa ciondolava ritmicamente da sinistra a destra, cadenzando un tempo cosmico di ripetizione angolare.

Ci poteva essere vento, e quando soffiava, portava odori di fritture d’oltre oceano, o di pachuli; la naftalina permaneva ma era sovrastata senza dubbio da ondate etiliche di salsa cocktail. I cubetti di ghiaccio erano in plexiglas e la cioccolata calda in polvere; i polli arrosto trionfavano, le carni in scatola roteavano. Su sterminati prati di ghiaccioli erano chini a raccoglierli giapponesi travestiti da eschimesi.

A quei tempi le caramelle abbandonarono la loro forma oblunga e la carta velina: ora saltellavano nude e gommose o scattavano da scatolette in plastica in cerchi di mani, che se le distribuivano negli ascensori.

La densità umana sembrava aumentata, come tutto il resto, una sovrabbondanza di elementi lampeggiava a ogni angolo. Tutti si preoccupavano di coprire le screpolature delle pareti, di soffocare marmelle con moquette, di foderare cassetti o interni di pellicce; ogni cosa andava imbottita, circondata, ricoperta, riapparecchiata, ravvivata.

Ogni centimetro libero era misurato da quelle lunghe gambe con stivali altissimi dai tacchi a spillo: tacchi a spillo nella neve sporca ai lati delle strade. I piedi erano importanti, le unghie, le orecchie, tutte le estremità, come i capelli, venivano acconciate. L’importante era scolpire e colpire, graffiare e bucherellare, incidere, lasciare solchi a mezzaluna, squarci nell’asfalto e nei vestiti, dai quali filtrava luce al neon.

Il rimbalzo sopra cose morbide, molle giganti o palloni in gomma e in chewing-gum, si contrapponeva agli spigoli di certe scrivanie, spalline di giacche o penne stilografiche. Con questo rimbalzare continuo si potevano percorrere chilometri lungo le circonvallazioni: un balzo su un panino al latte, su un hamburger, su un divano a forma di labbra, atterrando poi su tappeti elastici, con un piede che prendeva lo slancio da un letto matrimoniale circolare e l’altro che finiva su un materasso ad acqua. Le stanze dei bambini erano ricoperte dal pelo azzurro, rosa e giallo tenue di animali mutanti: orsi dal cuore rosso lampeggiante, conigli sovradimensionati, e pantere detective col papillon.

I sedili in pelle delle auto, inframezzati da dettagli in radica, sostenevano valigette porta documenti, sigarette, occhiali da sole,  pacchetti di fazzoletti, orologi. Spesso si incurvavano sotto il peso di marmorei deretani o gambe accavallate.

Dalla vetrina di un bar un braccio di donna. Una mano dalle unghie rosse e affilate accarezzava lo stelo di un bicchiere alto e sottile.

C’era molto da fare, da bere, da mangiare, ma non sto parlando dell’utile, ma di quello che l’essere umano ama più della sua stessa vita per il quale è disposto ad autodistruggersi; parlo del surplus. È come uno sporgersi di tanto così in più da ciò che fino a quel momento il sistema aveva propugnato come “senso della vita”. Ciò che è giusto, ciò che è sbagliato, verità e menzogna, giustizia e illegalità. Quel dualismo aveva vacillato, era stato attaccato da particelle emotive e spaziali da tutti i fronti, che lo avevano corroso. Erano entrate da ogni fessura impadronendosi man mano della struttura del sistema fino a creare un ammasso informe di animalità sublimata. Era crollata la piramide delle ideologie totalitarie e dalle sue austere ceneri erano nate palline gommose rimbalzanti. Dall’uno si era passati al dodici, al tredici, al duemila, al quattro milioni, a sei miliardi.

Niente era considerato più utile dell’inutile per cercare di dare senso, per scalfire quei polverosi meccanismi che da quel momento in poi vennero avvertiti come disumani e costrittivi.

Le palline continueranno a rimbalzare dappertutto, contro i teatri, contro muri di piastrelle, nei residence, nei club sportivi, negli appartamenti, nei musei, negli uffici, negli alberghi, nelle gallerie d’arte, e nei negozi di giocattoli, fino a che un nuovo ordine, un nuovo assetto le aspirerà e ne farà di nuovo piramidi di vetrocemento.

©Lisa Rampilli