La Melissiade – di Francesco Saba Sardi


 
 

 
 

Antichi splendori

Ne conserviamo preciso il ricordo, noi che abitiamo una casupola in cima alla piramide dell’esperta povertà.

Noi che andiamo a svellere finocchi selvatici per arrostirci carni o pesci. Noi che ormai telefoniamo perché vengano a riparare la condotta dell’acqua, ora che le sorgenti si sono esaurite perché nessuno pulisce più i terreni. Noi che saliamo il monte con il nostro cane, e c’imbattiamo nella favola-Volpone. La favola-Volpone si siede su un gradino —il monte lo si arrampica per un’esigua, erta scala di sasso costruita dagli stessi artefici di cui più avanti— sbadiglia, strizza gli occhi, orina ironico, caca strafottente. Il nostro nobile, civilissimo mastino con i suoi ottanta e passa chili di muscolacci e pellaccia grigia non può tollerare scortesie così grossolane. Si slancia: castigherà Volpone con un morso, uno solo ma più che bastante, delle terribili mandibole guardiane, sbarazzerà il monte di quell’insolente. Volpone si sposta compiacente, si risiede due gradini più sotto. Leone Isaurico in greve corsa gli passa accanto, Volpone si scosta di un ette, il cagnaccio inciampa, rotola, Volpone gli ride addosso contemplandolo dall’alto, se non lo impiscia è perché gli fa un po’ pena. Leone Isaurico piagnucola, Volpone se ne va scuotendo il capo.

Viviamo da secoli in questo corollario del locus vero che sono le litee mûage e le fascie da cui risultano le terrazze agricole. Non coabitiamo però più con la vaccherella smunta e le capre nel fondo ai nostri piedi. Noi non sovesciamo con il bidente che nello scarso spazio di quassù ha funzioni di aratro; non seminiamo; il da mangiare ce lo compriamo. Stiamo per lo più col culo incollato alla sedia, per esempio a indicare, mediante segni neri tutti bene in fila sulla carta, le modalità onde spazzar via il viluppo del trattatismo, che vorremmo intristito ma che furiosamente prolifera. E quando ci concediamo una sosta, una boccata d’aria, contempliamo il mare, a volte però senza vederlo, il mare è sparito, e noi avvolti da nebbie e piogge. La casa allora ci si popola sparsamente di scorpioni e lucertole in visita, richiamati o fuggiaschi dall’umido e dal calore. Bisogna dunque salvarli dal topino ospite fisso e dai gatti commensali. I primi, gli artropodi metamerici bilaterali, secondo la definizione datane da von Siebold fin dal 1848, infilando un foglio di carta sotto l’itipungifallico incazzato: quindi di sorpresa imbastigliarlo in un bicchiere e, con una scossa, restituirlo alla frondosa natura, suo legittimo habitat sotto la finestra; né si fa alcun male, compatto chitinoso che è, neppure una stortarella a una delle tante gambette: un vero atleta.

Diverso il trattamento da riserbare a Lucertolin verdino, pur sempre rettile con i suoi bravi dentini. Eccoci allora ad acchiapparlo e, tenendolo con il capino libero, porgergli un dito-esca, di preferenza l’indice come il più destro, ma può andar bene anche il pollice, e Lucertolin verdino allora si avventi, morda, e noi lo si sospenda a mezz’aria come il noto cadaverino dei ben noti, sconfortanti crocifissi, ma senza cruenze lo si porti all’uscio, lo si congedi. Torna pure, Lucertolin verdino.

Öli, oiva, oivâ

Fummo il bidente che apriva e richiudeva la terra tra i pedali degli ulivi. Poiché le macchine, le formidabili macchine, quassù erano schiene di vetro, essendo che sono snobbine, hanno paura di farsi la bua, le macchine, e portarle al pronto soccorso costerebbe un casino di soldi: spazio misurato a pollici, ecco la ragione. Altro non eravamo che quell’ora, quella mala fatica, il primo o ultimo sole ancora o già pallido nella sua danza attorno alla terra immota, poiché ogni vita è senza mutamento, ma può darsi che la nostra fatica non fosse poi opera perduta, anzi felice, e sapevamo che poca è sana, ma anche che il primo che ha lavorato è morto. E noi, piegati a squadra, ad alzare il bidente ben sopra il capo, eravamo quei giorni di marzo o d’autunno, eravamo la botta che doveva essere esatta a chisciare il terreno immattonato, e che fosse un poco più debole che il lavoratore. Erano fusti di taggiasche, ed eravamo noi, i curvi raddrizzatisi, a bacchiare quelle coccole verdine che nel maturare nereggiano, e sono cuticole tenaci che ospitano un nocciolo —serve anche quella similpietruzza per farne sansa— e una vescicola di grasso liquido. Ci provavamo in definizioni, noi i culi di pietra. Etereo? No, no. Agliaceo? Ma dove. Ci riducevamo ad aromatico, a balsamico. Membri d’un popolo misero e tenace, non avevamo il tempo di tentare un lessico, già solo i gesti propedeutici esigevano premurosa dedicatoria al da farsi. L’öli insomma era travaglio, sudore, tenacia, cose che poco attengono al diventare amanuensi, mestiere che confina con gli ozi fecondi.

Salivamo dunque con Leone Isaurico —l’iconoclasta, guai a lasciarlo solo in stanzette traboccanti di fogli a volte persino illustrati e a portata di denti—: andavamo in cresta. Lassù si vedevano bene, oh, quanto bene, le rovine apportate dai crudi inverni, bestie danníe col loro corteo —bellissimo a vedersi, fenomeno privilegiato a starne lontani, spettacolo ultravivente, origine e modello di ogni pirotecnia, calidum innatum, odio e vendetta, violento e tumultuoso, trasformatore del crudo in cotto, piovra di mille artigli arancio e rosso, acrobatici, inafferrabili, indomabili (facile allora provare una contraddittoria ammirazione e invidia per l’incendiario con la tanichetta e i suoi stracci: che farne? Mettersi alla posta, catturarlo, legarlo a un tronco nero, ai cui piedi tuttavia spuntassero ramicelli e fogliuzze glauche, e lasciarlo all’ira dell’acuminato vento appenninico che piombava latrando, la lingua di fuori, a pervadere di una frenetica agitazione gli strati successivi della china?). Sopra stavano i monti, assalitori calati dal nord, affacciatisi, volti severi, occhi glauchi di neve, a controllare che la sizza facesse il suo dovere che era di continuare implacabile l’assalto: facili vittorie, le sue, registrate in cronache sui sassi anneriti da fiamme ormai gelide.

Vittorie sì, non però ancora definitive, sulla schiera ormai orfana, arruffata e martoriata, dei dolci, tuttavia impavidi olivi confinari, sui quali tremolavano al vento, è vero, olive da corredo funerario, ma sotto quell’improvvida furia pure mostravano ora una faccia smeraldina, ora invece una color di lama affilata. Specie in pericolo, e nessuno che più venisse al soccorso, e si vedrà perché. Molti i caduti in difesa dell’ultimo strato, questo composito di palme, edere, agghindate siepi, cascatelle di sciocchi fiori da ridicoli muretti di demenziali giardinetti, giusta compagnia di bianchi sporchi, giallini paperotteschi, rosellini da golfini, ed erano i cento e cento comboomini, tali definiti dallo sprezzante Giovanni zoppacchione che saliva dalla sua grotta vinaria e salamiera (ci coabitava col suo porco) di assai più in basso, quasi gomito a gomito con quegli esemplari della new architecture che, sempre a suo dire, erano gendarmi doganieri a segnare il limite fra terra desolata e mare impestato, pur sempre minuziosamente iscritto, bisognava riconoscerlo, da ochette frangiate ma sempre più spesso sbuzzato da scafi sportivamente foggiati in guisa di ferri da stiro, né mai che ci mancasse il seggiolino da combattimento, e altro che alalonghe e tonni pinnagialla tirati su dal motoscafiere: checché, alghe e sacchetti di plastica, e spargere motoristici vomiti iridescenti a pittare un pelago-natura morta.

Questo, da quando era parso via via più vano quel durar fatica che più non meritava premi. E loro giù, a rotta di collo, «pe mettes a servixi», Giovanni delucidante, cioè farsi garzonetti ultraquarantenni di fornai o salumieri, posteggini, spesso bagnini, essendo che ultra i comboomini stavano concatenazioni di bagnarole sudicette contrassegnate da palloncini rossi a reggere reti a difesa da presunti squali, da un pezzo morti di mal di fegato, intervallate da porticcioli turistici sempre intasati come un marciapiede di città.

Proseguiva Giovanni, storico dei dirupi, né noi traduciamo, convinti come siamo che i dialetti abbiano una rabbiosa muscolarità assicurata da subitanee intuizioni dell’istante sottratte loro dalle lingue psicoanalizzate, cioè scolastiche, tribunalizie e giornalistiche: «I dixen che i ulivi nu servan ciù. Nuîatri femu u racultu de oive, femu ratâ ‘e maxine di oivâ pe i comersanti a u mâ che sun in quee caa a u caudu, in ti scagni», e a volte chiosava, in similetrusco: «E nuîatri a fatigâ pe quea pigoggíaja che non conoscono il puzzo acido del sudore» (chissà da dove gli veniva questa), e poi, nota a margine: «La Liguria diventa calva, ci cascano i uliveti, e zucca pelata non porta ventura».

Orbene, raccolte le drupe nei grandi teli di tela ma per lo più plastica —sempre ciù muderni, tutti noi—, le portavamo trenta terrazze e un sentierucolo più giù, dove un filo d’acqua un tempo scolava, pronto però a ingrossarsi a ogni diluvio, per un borro ad animare l’oivâ per la causa efficiente di una ruota munita di pale azionante una coppia motrice tra due assi, uno concorrente l’altro sghembo, ovverossia conico, e ruota lentissima armata di denti era l’orizzontale per cui —guarda un po’ l’umano ingegno— ne rotava un meno prudente travone verticale il quale, infitto nel pavimento d’una vasca di granito, trasmetteva il moto a due gemelle pietre colombine sul grigio —ne saggiavamo l’idoneità con il battere delle nocche. Stanzone tutto di sasso, di pietre incuneate di sghembo, l’una accanto all’altra, a formare una volta, sotto la quale abitava, uh, uh, ormai solo l’eco. Stando a Giovanni, le ruote erano forse monete di giganti, cadute loro di tasca: altrimenti, come spiegarne dimensioni e messa in opera? Ne derivava una pasta, olistica in quanto non somma delle componenti, bensì consistente di barchettine di oive secate, frammenti di preziosi botticini, connettivi di riempimento, duri noccioli particolarmente striduli: violacea fanghiglia dei primordi agricoli, e se ne diramava, per una cannella, il primissimo olio nostro buono, l’öli che vien su da vetuste radici, chi ti avrà mai inventato? Öli sapiente e sappiente, della buona ventura, delicato e possente; öli che purifichi e scacci il demone intasator di arterie; öli che sei puro quando sei puro, ancorché tanto spesso maltrattato, bistrattato, sofisticato in esperti laboratori ma che pure a tutto resisti; öli dell’antica saggezza e dell’odierna furbizia omologata alla variopinta buaggine dell’individualismo di massa; öli magico che nulla può sostituire per quante stronzate chimiche ti aggiungano goccia a goccia; öli delle oliere d’argento, oro, cristallo, ceramica, delle bottigline votive rinserrate in preziosi tabernacoli; öli che stai nei grandi orci di pietra carsica e riecheggi la voce del bambino curioso che s’affaccia a scrutare il tuo mistero e il proprio riflesso nell’imperscrutabile liquosità, altrove in dogli, giare, ziri; öli che condisci le salse e misuratamente santifichi le insalate; öli celestiale, öli dei faraoni, di mille paesi della fascia in cui convivi con la vite e i caci fermentati (confine al di là del quale vigono solo formaggini freschi, burrini e latticelli), dei pastori che condividono con fraterni animali ricoveri anch’essi di pietre a secco, dei frantoiani nei loro fragranti sotterranei in cui gira, come girava qui a Sexi, la ruota di pietra immagine del cosmo che è tondo dal momento che tondi sono gli astri, e dunque!; öli che alimentavi, mescolato a palline di farina cruda, l’impavida furia degli ospiti; öli dell’atleta, lavacro del nomade; öli che hai il colore del simbolo regale: che altro potremmo dire a tua lode?

Ma sì, che non era mica ancora finita. Poiché la pasta in questione, prelevata dalla vasca, dovevamo zepparla in cesti di fibre intrecciate, detti fiscoli, atti alla torchiatura, e pigia pigia girando la manoèla dello strettoio, ed era allora l’olio di prima spremitura. L’oivâ è morto, defunta Sexi senza più suoni, derelitta dagli emigrati. Dimenticavamo: ora non di rado camerieri di ristoranti di pesce molto spesso strappato, forse già congelato, a remotissime acque, Mar delle Andamane, Bacino Medio Indiano, Mare di Weddell, Dorsale di Coco, Bacino del Labrador, Piattaforma di Arafura, Bacino orientale Orne, Corrente del Golfo, el Niño, e quasi mai invece al Mediterraneo i cui abitatori erano stati condannati a morte —pochi i clandestini superstiti— mediante PVC e strascichi da sirene misoittiche. Un gran bel mangiare, sì, tra lamiere sgommanti, bar squillanti di luci psicoedeniche, passeggiate a mare travolte da motorini e motorotti, e «Öli de semensetta, un’estrema unzion, che sun tant muderni», soggiungeva Giovanni, memore di antiche pestilenze.

Su una riva altrimenti importuosa, avvantaggiandosi di una cerchia di scogli a protezione di una breve spiaggia ciottolosa, i fenici ne avevano fatto un koton, rifugio per i lor fragili legni ammarrati, e alle spalle di quel mandracchio, quattro case, e in luogo elevato, sopra Sexi sorta qualche secolo dopo (stesso nome di un porto-città fenicio sulla costa di Valencia: leggasi Seji, alla francese), in vetta al monte precipite, la fortezza, inquietante maceria ove peritosi anonimi ancora si ostinavano a deporre offerte di tralci e cicute agli innominabili: un temenos, in altre parole, che poteva diventare, in certe occasioni, un mercato clamoroso di mugghi e belati.

Mai stati battezzati una volta per tutte, noialtri, sebbene non mancasse, al limitare di Sexi, una chiesetta con campanilino parafulmine e scacciadiavoli, luciferino nel senso che scorgeva per primo la luce quando il balenio di una coltellata squarciava il sacco nero e illuminava il prete e il villico, caricava il gallo, toccava la campanella. Venivano a cercarci esattori, reclutatori di assoldati di terra e di mare ma soprattutto di servi della gleba: tutta gente, quelli, che avevano avuto accesso, forse non tanto volontario, ai fonti battesimali ed erano santamente e vendicativamente decisi a redimerci, sottraendoci al vizio della rustica superstizione, l’obbedienza agli arcani della selva e all’impertinenza endogamica —a riprova, questa, che le fole sull’incesto, fole sono e balle restano— e noialtri a darci assenti infrattandoci tra bricchi, belladonne e mortelle, e a cavarsi d’impiccio pagando in natura erano i pochi benestanti, ricchi cioè di fichi (piccoli, neri, contesi alle cetonie dorate, alle vespe e ai cardellini) e di castagne.

A lungo abbiamo continuato a frequentare le presenze agresti: in segreto, dopo le lunghe cacce alle streghe, povere zappaterra dedite all’imperdonabile vizio di prediligere le gatte nere, le migliori sterminatrici di topi e pantegane. Giovanni, per esempio, sosteneva che a inventare l’olivo è stata la scignöa Minerva. Fonte: il Dizionario delle favole di A.L. Millin, trasportato in italiano da Celestino Massucco, Piacenza, dalla tipografia del Majno, 1807. Il secondo libro —e fonte— in suo possesso. Minerva anzi era andata a trovarlo. Aveva deposto la lancia in un angolo, si era tolta l’elmo di bronzo —«se ti savesci quanto ö peisa»— aveva detto «uffa!» come una scignöa qualunque, aveva dato un colpetto sul becco della civetta che portava sulla spalla e che non stava zitta un momento, squittiva garrula, disturbava persuasa di saperla lunga, una scrollata di chioma (Giovanni la supponeva fulva, fresca di olimpico parrucchiere).

Inutile dirle di accomodarsi. Aveva semplicemente chiesto, «Permette?», perché a Giovanni dava compitamente del lei, e del resto aveva già con sé uno sgabello, di quelli pieghevoli con zampe leonine, e intanto con il terzo occhio (a quanto risulta parte integrante della dotazione degli dèi, come altrove lo zucchetto dei cardinali) si era messa a proiettare un’immagine a colori di satiri che pigiavano l’uva, non tutti, però, perché uno suonava la siringa, un altro sbafava grappoli interi come nei film in costume antico, e il più grosso —gobba, avevamo dedotto, da bisonte, orecchie da lupo, panza, deducendo ancora, da gorilla, un belino da asino, coda da mulo scacciatafani— più che pestare sballettava sghignazzante nel tino. Minerva, aggiungendo che lei era anche Atena (Giovanni non le aveva chiesto la carta di identità, figurarsi, una scignöa così distinta), gli aveva spiegato: «Vede, sono i compagni di bisboccia di quel mattacchione di mio fratello (tutto in perfetto italiano, Minerva poliglotta). Sa, la pecora nera, Dioniso». Giovanni le aveva chiesto se lei si riteneva tutta giusta. Minerva si era guardata le unghie ben dipinte e aveva risposto: «Mais ça va sans dire». Di giorno, Giovanni non sapeva il francese, ma di notte ne succedono… «Vede», aveva ripreso Minerva (inutile dire che noi abbiamo riequipaggiato il racconto, a vero dire un po’ smozzicato, dell’aedo dei crotti), «bisogna essere in due perché il mondo stia in bilico sul proprio asse: una che vigila, anche sull’olio, che insegna a farlo, che misura, conserva, calcola, e uno che sbevazza, danza, si butta via, si dedica all’orgia, trasforma i poeti in delfini, scende agli inferi e ne torna su senza una scottatura, insomma un buontempone. Io invece», ha spiegato la scignöa Minerva, «sono la raxön», così aveva inteso Giovanni, ma a quanto sembrava la scignöa Minerva aveva usato un altro termine, forse lögia o lömbo, magari lotto o löu o lonza addirittura. «Logos?» abbiamo chiesto. «A propoxitu!», aveva annuito Giovanni.

Gli avevamo fatto osservare che la signora Minerva esagerava un tantino. L’ulivo, gli avevamo spiegato, non è soltanto raxön. Tanto per cominciare, è un vegetale mammifero. Il frutto, l’oliva, matura in esatti nove mesi, quando dicesi invaiata. A strapparla prima del ramo, mediante bacchiatura o altro che sia, si compie dunque un aborto. La signora Minerva dirà che son tutte fantasticherie. Ma, avevamo chiarito, noi non avevamo proprio niente contro l’aborto, dipendeva dal periodo in cui compierlo. L’oliva immatura, ancora germe o poco più, e va bene: venti e piogge ne staccano tante; ma con quella matura, eh no, la si difende e protegge. L’olio, l’oliva e l’ulivo sono coperti da tabù (beh, non ci eravamo espressi proprio così, abbiamo dovuto accondiscendere a lunghi giri di parole, ma Giovanni, occhio furbetto, aveva afferrato il senso, «A l’è cuscì»), e il tabù è certo lì per essere violato, ma si supera la barriera di confine, e zac!, quello ti ripiomba alle spalle. Insomma, si paga un fio, un dazio, se vogliamo. Perché l’ulivo (avevamo proseguito, ormai presi dal gioco del cattedratico) ha un grandioso significato simbolico. L’ulivo è la madre Terra, è eterno, è «l’albero invitto che da sé rinasce, né mai condottiero nemico riuscirà a distruggerlo», e questo lo proclamava Sofocle, uno degli allievi prediletti, avevamo azzardato, di «Atena dagli occhi cerulei». Se l’olivicoltura è nata, non è stato certo per mere ragioni pratiche (Giovanni guardava sbalordito, ma seguiva, e «chi ha ciù giûizio ö deive»): c’era qualcos’altro di mezzo. Perché le scelte umane sono dettate dal mito, dalla poíesis, abbiamo azzardato. E poi, a chiarimento: così come curiamo mûage e fascie, e facciamo la toeletta alla montagna. Chiaro, Giovanni? «Ma scì, ma scì!».

Poi qualcosa si era aggiunta, qualcosa era venuta a mancare. Un bel giorno, si erano accese le lampade elettriche, e quasi insieme spente le lucciole. E con le lucciole che volano, si posano al richiamo luminescente delle femmine, caiscono, si nutrono succhiando le chiocciole previa loro trasformazione in schiuma mediante appositi enzimi, avevamo perduto anche quelle che riempivano il mare al quale scendevamo a esercitarci al remo e al nuoto, le noctiluche che, noi passando, diventavano lampi e filamenti forse azzurri, forse rosati, comunque impalpabili costellazioni senza coerenza, senza meta, però onnipresenti.

Come costruivamo

Eravamo fedeli al modulo poligonale. La maniera a corsi sarebbe di certo risultata più facile. Le mûage, così chiamavamo le muraglie di contenimento andanti vale a dire senza interruzioni né di vani né di aggetti salvo i gradini infittivi, sostegno delle fasce, la scarsa terra coltiva che colmava quell’intelaiatura, spesso portata dal basso a spalla o a dorso di mulo (erano pochi, preziosi, usavamo prestarceli l’un l’altro all’occorrenza: preziosi anche per le sostanziose fatte che cacavano). Muri che dovevano rispondere ad alcuni principi: essere sodi più d’un masso, non essere parlanti, come dire non avere un delatore nel seno (non eravamo molto amici dei gabellieri e reclutatori di cui s’è detto), a secco, cioè non collegati con calcina o altro cemento, di pietra concia; non fare corpo e non uscire dalla propria dirittura; e avere un loro repertorio misteriosamente evocativo. Una sorta di puzzle, insomma. Massi spesso giganteschi, con le asperità appena corrette, da inserire in un complesso coerente, nella configurazione della maestosità che è sempre lusso.

Non alzavamo infatti menhir, dolmen, cromlech: mancava l’agio per elevare onoranze e suppliche a divinità comunque avare di ricompense. Volevamo però che il monte apparisse sublime macchina agricola, certo ridotta all’osso della terra che è il sasso, ed era il nostro modo di elaborare l’ambito dell’eterno ritorno, la nostra immobile migrazione verso l’informe, manifestato da nascita e morte, sorgente e fonte atemporale dell’esistenza: il poco grano, lo scarso fieno per i rari animali da pascolo, la fava, il carciofo, il basilico, la crescita spontanea del finocchio, del rosmarino, di quel misto d’erbe di campo, ivi incluso il rosalaccio non ancora vegetante, il prezzemolo, i capucci primaticci, le borraggini e altri comangiari: quello che denominavamo prebôggiôn, componente essenziale dei pansôuti, col che si venivano a indicare i ravioli di magro riempiti di quel trito, aggiuntavi al più la prescinséua, che è poi latte cagliato, e conditi con salsa di noci o pesto, talché mangiando contemplavamo la nostra fonte di sussistenza alimentare.

La pietra, dunque. La cratofania litica, s’intenda: come dire l’apprezzamento del masso con la sua durezza, permanenza, scabrosità, da millenni (non molti, quattro, forse sei) vicariante l’ombrosa partecipazione all’essere tramite gli ossami:  l’animale da cacciare, spolpare, ridurre a scheletro quale immagine dell’unica verità-nonverità attingibile. Unità temporali, quant’erano bastate a rassegnarsi, magari odiandoli, ai nuovi dèi stanziali, essendo che le produzioni fantastiche sono infinite ma la loro traduzione (in atto, in parola che comunica, gesto o cosa) risponde al principio delle possibilità limitate. Ed eravamo passati per la dendolatria —che è l’immedesimazione con piante a fusto ligneo, dapprima l’olivastro, poi l’ulivo o l’elce—, per il colloquio con la vipera e il falco; e, prima che i giorni si volgessero in passato, avevamo rinunciato (e lo avevano imposto i messaggeri degli dèi ormai saldamente radicati a terra, al più sulle cime) alla capanna a pianta circolare. Eravamo entrati nella quadratità, nell’universo dell’imperioso spigolo, rinunciando alla circolarità che torna su se stessa, che non indica punti cardinali, non ha limite se non dilatabile all’infinito. Ah, ogni cosa diventa vana al vaglio della memoria, che tuttavia lascia incancellabili residui.

Un puzzle, dicevamo. E poiché il monte era tutto testualizzato in gradoni, bisognava supporre che l’opera ne fosse stata iniziata da giganti, Nelifim li chiamava il vivente baedeker Giovanni che possedeva una Bibbia —il suo secondo, divertentissimo libro— e spesso se ne abbeverava, attingendone le vicende più oscure e turpi, che è quanto si può legittimamente estrarre da un testo sacro. Ciò è a dire, il mondo intero. Gli stessi Nelifim (Genesi, da qualche parte) probabilmente autori delle pietre colombine, gentaggia sbraggiona sempre in cerca de breiga, che ci piacevano le figgie degli uomini e le sforsavan e ingraviavan, e ne venivano fuori (recitando) gli eroi da-a antighidâ, ommi famóusi. Un puzzle che era in apparenza almeno un lavoraccio infinitamente tedioso poiché, onde ottenere che le pietre si integrassero nella struttura, bisognava alzarle e abbassarle senza posa ed esattamente commetterle. Tedioso? Sì, ad ammettere che ogni opera umana fosse solo tale, anziché ripetizione del gesto sacralizzante della fatica, certo improba, massacrante, ma infitta nel ricordo d’un Grande Tempo, quello dell’indistinzione: qualcosa più del mero edificare autoimposto: una cratofania certo domata, impastoiata, ridotta al servizio della mangiatoria e del dominio sulla silva senza sintassi: e tuttavia più tardi avremmo scoperto che quel modulo lo avevamo in comune con gli egizi e i peruviani preincaici.

Times are changing

1. L’autostrada è più che violenza: è guerra. Sistematica. Al suo passaggio sono crollati i paesi, le antiche mura hanno perduto ogni significato insieme con la stabilità e con lo scopo, sotto il monte si sono insinuati sterili vermi-gallerie, ad abitare le rovine restano solo fantasmi in cui nessuno più crede. A terrorizzare l’utente dell’autostrada, operaio di un’infinita catena di montaggio che gira più volte attorno al globo, sono ben altre minacce, mancanza di impianti igienici, per esempio, oppure chissà se arrivo alla prossima pompa. Uno spazio che non è mai immobile —ma non lo avevano inventato proprio per avere salde dimensioni?—, che fluttua, è proteiforme, curvilineo, sospeso su esili piloni. Gli ultimi abitanti delle valli travalicate dal suo volo devono essere ultracentenari, forse immortali che tengono in casa, a rallegrarne le giornate punteggiate dai fragori di continui disastri, crolli, negrumi e sporchizie all’ombra dei cavalcavie, vampiri in rugginose gabbiette di fil di ferro. Con pazienza, dopo averli accecati, riescono a farli cantare, esibizioni sonore che si ottengono però solo d’inverno; d’estate, le bestiole umanizzate (sorte del resto comune all’intero repertorio zoologico) vanno tenute in cantine o grotte, al riparo dai raggi del sole. (Devono essere state abolite le trenette al pesto, esuberante di aglio.) Li nutrono con le vittime dell’autostrada? Con il sangue degli autisti di camion rovesciati? Dobbiamo supporre che questi venerandi siano dediti a forme di pirateria emofila? E non è giunta l’ora di una salutare crociata per redimerli radendone al suolo gli abituri e consegnando i terreni così ribattezzati alla speculazione edilizia? Ipotesi: ripiombati nella religione del pagus i deboli vegliardi, non più capaci di drizzare tra le macerie il fallo, liteo o ligneo che sia, magari adorano il camino della fornace in disuso.

2. I santi che nell’Era Intermedia davano nomi ai paesi e, di fazione sulle vette, difendevano la terra ferma dai barbareschi venuti dal mare come le rondinelle, hanno ceduto il posto alla religione della sopravvivenza a ogni costo, al di là di ogni limite accettabile. Accompagnati dai loro fedeli pets, Infarti, Paresi, Ulcere, i nuovi fedeli abitano bilocali con cucinotto e bagno acquistati con la Pensione e la Liquidazione, incistati in edifici dai nomi suggestivi, il Gabbiano, la Caravella, la Conchiglia, non di rado con vista su fogne o cimiteri. Frequentano parchi, cacatoi di altri, più miti quadrupedi da soprammobile, nutriti, al pari dei loro affezionati titolari, con le buone cose offerte dall’industria alimentare; e nelle loro tuttavia lunghe fasi preagoniche  costoro frequentano panchine, caffè, supermercati, luoghi questi di particolare attrazione, dotati come sono di scaffali alluminati di scatole policrome; hanno fatto il loro dovere, possono riposarsi: oh, gloria d’esser uomini e aver dato frutto, le gonadi essendo, in un certo senso, eterne.

3. È il maggiore d’Europa, in Italia ce ne sono altri quattro o cinque, ma forse meno suggestivi. Sorge entro il recinto dell’ospedale San Martino. Recinto nel recinto. Attorno ha un cerchio magico. Ribrezzo, orrore. La lebbra resta endemica in certe remote zone, per esempio nell’entroterra di Albenga. (La facies della lebbra è pallida assai. Anche le maschere africane della lebbra sono albe.) Agente patogeno, il bacillo di Hansen, fratellastro di quello della TBC, il celebre e resistentissimo, forse imperituro bacillo di Koch. È caratterizzata, insegnano i testi di patologia medica, dal leproma cutaneo, mucoso od osseo, con tendenza a ulcerarsi. Ha decorso lento e progressivo, alternato a fasi di apparente guarigione. L’incubazione dura da uno a vent’anni. Le parti colpite divengono insensibili e cascano a pezzi. Ogni tanto il lebbroso, febbricitante per l’assorbimento, da parte dell’organismo, dei tessuti necrotici, va all’infermeria dove gli tolgono ora una falange, ora un pezzo di naso, ora un orecchio, un arto intero. Il lebbroso, scoperto tale dal medico condotto, è denunciato all’Arma dei carabinieri. Questi lo arrestano, gli mettono le manette, lo traducono al lebbrosario. (Le manette servono anche per altre «traduzioni». Lo  stato è conservatore e parsimonioso.) Il lebbroso può persino andare in licenza: quand’è «negativo», beninteso, quando cioè gli esami dimostrano che il bacillo di Hansen è in stato di quiescenza (come i vulcani). Un tempo al lebbroso spettava una funzione: negativa, ma ben precisa. Era un «memento mori» ambulante, un morto che s’aggirava tra i vivi, ricordando loro la fugacità dell’esistenza. Il lebbroso era in contatto con il mistero. Narra Xavier De Maistre (Le lépreux de la Cité d’Aoste, 1811), che all’epoca sua ad Aosta viveva, in una torre ai margini della città, un lebbroso; veniva nutrito dalla collettività. De Maistre, e altri con lui, andavano a interrogare quella tragica Sibilla, a discutere con il lebbroso il destino umano. I fanciulli accorrevano a trarne insegnamento. Romanticherie. Oggi, igienicamente, il lebbroso è un isolato, un reietto, un oggetto improduttivo nel deposito dei rottami. Come il pazzo, del resto, altro parlato dagli dèi. Per questo il cancello del recinto (castello delle streghe o tunnel dell’amore?) non è serrato. Idealmente, il lebbroso potrebbe uscirne, andare a spasso per Genova. Lo riacchiapperebbero in quattro e quattr’otto, ma ve lo figurate che scandalo? Roba da interrogazione al Parlamento: ma che fa il ministero della Sanità? Vigila o non vigila? Vigila. Privo di funzione, non più maschera dell’aldilà che abita in noi, dell’alterità che prolifera nel nostro organismo, il lebbroso passa giornate stolide e neghittose, assai prossime alla catatonia. Non fa niente. Vegeta. Per sua fortuna, a volte è cieco e sordo. E poi, ci sono i sanitari. Samaritani, dovrebbero chiamarli. Consolano i lebbrosi affidati alle loro attenzioni, li curano, l’atmosfera che istituiscono e conservano è una via di mezzo tra la caserma, il lager, l’ospizio per vecchietti, la latrina (la piastrella, sintesi del vivere civile, trionfa onnipresente). Il lebbroso soffre? Sta di fatto (statistiche alla mano) che i lebbrosi non si suicidano. O, se lo fanno, mai qua dentro, in quest’edificio di stile fascista, dove sono ben vigilati. E poi c’è la cappella: preghino! Mutilati, hanno diritto a una carrozzella. Mantenuti dalla pubblica assistenza, possono tenere con sé il coniuge (purché lebbroso) e godere del conforto di camerette singole o doppie, con bambole, orologi a cucù, radioline, lavatrici e panorama della città. Al posto dell’edificio di stile fascista e con tanto di reticolati che lo contiene, sorgeva una grande villa, abbattuta in epoca del pari fascista. Il viale d’accesso, rimasto integro, è fiancheggiato da marmoree, solenni statue, di statura più che umana, dei padri della patria genovese: avvolti in tuniche dalle ricche pieghe barocche, quei grandi tengono in mano i tomi della giustizia, gli scettri della legittimità, hanno i volti severi che si convengono a inflessibili ma benefici reggitori. Nicola, cieco, sordo, mutilato (le sue mani sono frammenti geologici) sta al sole ai piedi del Doria. Dondola, si sfrega la gamba con un moncherino. Arido pianto.

4. «E tutta la terra meravigliata andò dietro alla bestia; e adorarono il dragone perché aveva dato il potere alla bestia; e adorarono la bestia dicendo: Chi è simile alla bestia? E chi può guerreggiare con essa?» (13,3-5). Dormivo, dal mio di sotto salirono pensieri al mio di sopra. Ed ecco, il mare si era gonfiato a coprire il monte fino a mezza costa. Dalla mia casupola potevo raggiungere in barca la grotta di Giovanni, sepolcro della resurrezione dell’uva. Il mare era grigio, pioveva piano, le ultime gocce della catastrofe. La donna sedeva a poppa con la lenza. Bastava che la calasse per tirar su grassi pesci scivolosi come di bava, lustri, e avevano occhi manigoldi. Il cibo non gli mancava. Qui sotto, diceva lei pescando imperterrita, sorgeva —e ne diceva il nome, e poi un altro e un altro ancora. Credi, le chiedevo remando, che mangino la carne dei pensionati? Dei bambini nutriti a merendine?

5. Anche questa estate, come le altre, come sempre tutte le cose, è agli sgoccioli. Lo dice il derelitto cimitero marino. È però una facile menzogna. I nomi sulle tombe, è vero, sono indigeni, endogamici. Marinai spolpati da acque feroci, più spesso defunti al ritorno da viaggi sempre uguali. Colombari definitivamente vuoti attendono beanti,  imparziali, ormai improbabili ospiti di pari livello. Calcarei angeli si provano in sterili svoletti. E il mare? Beh, scintilla, puntillistico, com’è ben noto matematicamente uguale a se stesso, impartecipe. Separati da un muro, isolati dai papisti, nell’ombra dei sempreverdi mediterranei , i nostalgici alberi della ruée au soleil, i protestanti, i Freïherren e le Freifrauen della fuga dal nord. La tenace conservazione delle ossa e dei frammenti marmorei non troverà ricompensa. Lo rivelano le presenze agitate, distichi e neurotteri, coccinelle e lombrichi, imenotteri faticanti tra le macerie del vialetto, alcuni anzi pronti ad accedere al banchetto ipogeo per sottili pertugi. Quanta vita attorno a voi, nevvero, defunti? Meritevole, dunque, è da considerare l’umiltà, la rassegnazione? Basta girare lo sguardo tentato, umano, per l’ampia distesa oltre il muro di cinta, alle coste, alle ripe, alle vette appena grafite sul cielo barocco (potrebbe non esserlo?), e ancora ai tetti, alle guglie per cui giustamente si loda chissachi. Esemplificativo, un Cristo grassotto con una mano mutila, pudica, all’altezza delle vergogne a chiudersi inconsutile, l’altra arrovesciata, lunghe, equivoche dita da inanellare, e un’agnella ai suoi piedi, mansueto micio di casa. E di dentro il cipresso, qui e ovunque, con settennale viaggio emerse dal ventre dell’orbe , le abissali, querule cicale, chiacchilanti coreute, dicono le lodi della più bella tra le umane sedi —questa e mille altre invero; e semprevergini al sole. Ma il sinistro monito di Apollo, il ronzante, vi espone, o defunti —o quel che ne resta—, sicuramente a vostra edificazione, a frecce ormai crepuscolari ma pur sempre apportatrici di peste e levatrici di messi. Ingenti infatti crescono nugoli su da Libeccio, profluendo con tempestosi ingranaggi l’uno addosso all’altro. Un altro vento ha trasfigurato la Liguria, la sommerge nel suo fiato forte, mitomane racconta alle cime dei cipressi di essere passato su squadre di orate, manipoli di verdesche di erettile pinna, sopra torte pasqualine e baccalà alla genovese. Ah, fossi in pace e fratellanza con l’olio, con l’ulivo, con gli uomini. Ma non posso. Con i loro viscerami rigonfi, i nugoli minacciano infatti automobili e pensioni famigliari, e già mediante lividi tentacoli pazzi, pesi, flagellano di foschi svescicamenti qua e là i quattro punti cardinali, e con bieco furore ecco scorrere, incepparsi, riaccendersi lungo le buiose più basse, la saetta mietitrice, dannato fuoco di fila fratello di demoni, anticristi e cristacci, illusoriamente spegnendosi in fondo a quelle caverne ma subito tornando a rimestare nel tenebricore, accendendo fauci spalancate a inghiottire colli minuziosamente ingombrati da sbattacchiate verzure, con mille cure annaffiate giorno per giorno a rallegrare quadri, penta, esa, eptapiani tutti di incoercibile rettilineità, qua e là tuttavia gli accenti neri di ammonitori cipressi, e forse la saetta rispetterà le abbondanti case delle divinità maggiori e minori con le loro faradaiesche cuspidi, boe ontologicamente inaffondabili nel flagello della tempesta. Presto, presto, prima che l’acquazzone venga a irrigare e fecondare le lapidi, che tanto sperano nelle proliferazioni.

Quant’è bella giuvinessa

Vento: Di poppa, idrovento lavandaio intrufolatosi per la Porta delle Saline, protestone, fracassone.

Locale di Ciarli: Di tovaglie immacolate, di pinto vasellame, polite posate, legni protettivi.

Ciarli: Una leggenda, uomo cult, non per niente detto Maneggia. Insospettabile dote oggigiorno, chè passò quel tempo, Ciarli. Non resta allora che narrare l’inenarrabile.

Parola di Ciarli: Ero ancora un ragasso, o poco più, e Maneggia mi dicevano, e Maniglia ero.

Nicola (Vecchio cameriere-celebratore, fan truccato da pinguino, in piedi accanto al portento): Un miracolo della natûa, un miscionaïo, un diao descadenôu.

Compiaciuto: Ero il braccio destro del proprietario, non faccio nomi, a, non faccio nomi. Me lo sono sudato, questo locale, palanca per palanca. Come rende di servixi ä patria, ese de settemann-a sempre, e sgobbare duro.

Nicola: (risatina entusiasta): Ommu de fadiga in tutti i sensi!

Memore: E non mi facevo certo pregare. A calamita a tïa o foeru, e de musse ne venivano, scignurinn-e, scignuette, già avansate in età, dico, e scignöe ancora di bönna voentea, di quelle che fân da scignöa, la ruota, dico, co-a testa dûa, ben decise a beccassene quarche prima de avèi o cû moggiu e a caghetta.

Ciarli Maneggia descritto da testimoni attendibili

Spente le lampade della grande sala. Solo candele, atmosfera debitamente romantica (romantica?). Silenzio, poi musica. Allusiva, insinuante. Ciarli in attesa nell’anticucina. A prepararsi, concentrarsi. Unico uomo al mondo capace di tanto, di cavarsi cioè dal cuore l’indispensabile energia molecolare, immaginifica, autarchica. Venivano da tante parti, fin da luoghi lontani, debitamente informati, attratti dalle instancabili ali della Fama in perenne palpito. Gente che viaggiava, conosceva il mondo. Che aveva avuto per esempio accesso al banchetto dell’anguriaro di Kavala, e mangiavano i cocomeri da costui a quel modo spaccati e fors’anche insaporiti;  che mai si stupivano né prendevano ombra; che non avevano rossori o, se sì, nella penombra diventavano puro stupore; che erano stati a Bujambara, ah, i lunghi, esili Tutsi con le loro disinvolte lance. Come non pensare al portinaio del Tuatha Dé Danann, custode di chi sta nel Di-fuori, che non consente l’accesso a Lug se prima non dà prova della sua abilità, facendo erompere da se stesso il fuoco capace di incenerire una foresta e di accendere desideri, languori e umidori in maschi e femmine? Gli antichi, teste Ovidio, lo chiamavano chaos, cioè abisso, poiché esso è la res prisca,la stessa che, impalata, monta la guardia ai campi. Si era dunque alle radici della mitologia indoeuropea? Rivelazione imbestiata, che erroneamente si supponeva defluita per sempre con la sabbia delle clessidre. Racconto da tramandare ai figli, ai nipoti. Ma la res prisca non è per caso quella che il primo sacerdote, rivolgendosi a Jupiter O.M., appellava sive quo alio nomine volueris? Poiché qui non si trattava di individuo, soggettualità, persona, bensì dell’Eloim sospeso a mezz’aria, a sfiorare, fluttuando, le acque che sono elemento femminile, a esse unendosi, ed è allora che lo Sconcio originario, l’Immondo senza il quale siamo capaci solo di produrre e consumare (e arrivare fin qui con automobili piene di risatine e di oh, ma è incredibile): capaci solo, dicevo, di guadagnarci il pane in attesa della spada dell’angelo che vien di notte a cercare primogeniti, ultimogeniti e intergeniti,  e di perpetuare infine la catastrofe dell’angolo diedro, dell’agglomerato di cause concomitanti, della conclusiva aritmia, dell’ictus salvatore, ma quante belle fighe Madama Dorée, l’angelo ne chiede una, le chiede tutte, non transige. E Ciarli indossa il suo giubbino rosso clownesco alquanto, Ciarli nella parte di sotto è tutto biotto, un nudo da primato. Ed è un magrone di quelli che mai si stancano, mai si smontano; e per l’occasione ben lavato, pettinato ben bene l’irto pelame pubico, e spande odore di nardo, di essenze esotiche e strapaesane, e il suo è un giubbino tempestato di lustrini che stellano alla luce rosata che per lui solo si accenderà a moltiplicarlo; con le maniche a sbuffo, e le sue spalle appaiono poderose, larghe quanto due omenoni appaiati; Ciarli pronto per apparire, befanìo, allo spettatore che paga, e salato, che beve, sniffa, si bea, applaude, invidia, suda, smania senza darlo a vedere, che vive per procura, lui che mai assurgerà a quella statura, lei che mai avrà tra le mani e altrove nulla di simile, occhi accesi, fissi concupiscenti (entrambi) al cospetto del lanternuto che possiede il dono degli dèi, gambe nodose, pelose, poderose, il ventre piatto, un groppo di tendinei rigonfiamenti simmetrici, un’intatta anatomia a rivelare l’indistinto, l’indefinibile, felicità per lui, unico, già compiuta, e davanti a loro drizzarsi il Possibile, il mistero essenziale ridotto alla sua forma semplificata, a un balocco però spropositato: in fin dei conti, l’Assoluto. Così dunque il proiettore si accendeva, Ciarli usciva, Ciarli saliva su un piedestallo, e attorno a lui si spandeva come una fosforescenza piena di visioni vorticanti, evocate dalle tenebre, e gli spettatori allora si metamorfosavano, come se cadessero in ginocchio pur restando rigidi, senza muovere palpebra, vinti, umiliati, pupille straordinariamente dilatate, astri resi immobili da un sole sopraffacente, barcaiolo dialettale divenuto immateriale, senza patria né tempo, gorgo roteante, e nessuno che ne pronunciasse il nome se non nella sommessa forma di un colpetto di tosse, subito represso dall’adorazione sacramentale, masochistica, torpida trance-formazione.

E a questo punto, cogliendo l’attimo, sapendoli immobilmente tarantolati, Ciarli allungava la mano, dava di piglio al manico del secchiello opportunamente collocato ai piedi del palchetto: che lentamente sollevava,e il secchiello conteneva il ghiaccio e due bottiglie di champagne; e, ieratico, Ciarli se lo appendeva al madornale, incrollabile arnese del suo futuro di proprietario di ristorante, rutilante, prorompente impudicizia, un masso invano assediato da un fiume, che meriterebbe una particolareggiata descrizione, ma non c’è già il faretto a descrivere, ma che cosa —il belino, forse? Desinenza in -ino? Scherziamo? Un proiettore non è che mero flusso inorganico, elettronico, non già autonoma vita com’era quel secondo Ciarli, e ci si immagini uno scuro nano applicato a un essere luminoso, e non certo di quelli acondroplasici con arti sproporzionalmente corti, stortignaccoli, repellenti: macché, piuttosto un efebo grandicefalo perché la sommità, presa in pieno dal raggio del riflettore, era un grosso fiore purpureo, di quelli che incontri solo nelle foreste primigenie, tra tuffi e scrosci di jacaré in torbide acque e subdolo strisciare di anaconde stritolatrici; quasi fosse munito di un osso basale, come il peniano che sorregge l’empito dei cani in calore: in calore qui l’intera platea, diciamolo, tutti dediti a una ancor nascosta masturbazione. Al cospetto di un faraone intento a compiere l’offerta di luce al divino Min, e dunque a se stesso, che fare, se non tacere sgomenti? Ciarli, solenne, si degnava allora di calare dal piedestallo e fare il giro della sala, invitando col gesto, senza parlare (siamo giusti: si potrebbe rivolgere un simile invito in dialetto ligure, in pratica unica lingua parlata da Ciarli?), a servirsi dello champagne versandone nelle rispettive flûtes.

Una notte, accadde. Accadde che a un metro da lui sedesse una giovane donna squisita, di chioma ramata, coperta appena —era estate piena, trionfante— da un’impalpabile tunichetta, e costei scambiò un’occhiata d’intesa con i suoi due accompagnatori, e insieme con la sedia fece un passo avanti, spostò lentamente un lembo della tunichetta, e —non portava mutande! E il pelo era un fumetto che ornava, non copriva, esaltava, il sito appropriato, ed era forse rasato ai margini, sta di fatto che appariva cuoriforme, un segno imperdonabile; e non contenta ancora, aprì le cosce a rivelare un nicchio rosato, un bivalve che doveva essere un boccon di mare, da premere con la lingua contro il palato a occhi socchiusi, come s’usa con l’ostrica; e non contenta ancora, l’eterea, l’eterna, allungò un piede nudo come l’alba, e lo puntò come la testa d’un serpente, lo mosse in avanti, sfiorò il portento, e ne ricavò una goccia, una perla che le restò sull’alluce luccicando subacquea, poiché è la notte il vero luogo del sortilegio. Poi chiese (forse era straniera, o tale si fingeva, e senza sorridere, e senza distogliere occhi dilatati forse per via di ciò che fino a quel momento era andata aspirando con una aggraziata narice armata di una banconota di grosso taglio debitamente arrotolata a farne una cannuccia), costei chiese dunque: «Posso io dare un bacino a esso?». Venne a lei l’irresistibilmente attratto Ciarli, anzi l’altro Ciarli si mosse sua sponte alla calamita di quelle labbra, trascinando con sé l’umano corpo che lo reggeva ma che era incapace di volontà propria, in palese stato di coscienza alterata, e fu salacemente baciato, golosamente leccato, deliziatamente odorato, delicatamente sfiorato da mano bianchissima per contrasto. Fu allora che Ciarli venne meno alla sua purezza, lui al quale tante dame e damigelle avevano in segreto infilato nel pugno un biglietto, telefono e indirizzo, sussurrando «vediamoci», e aveva bensì ceduto ma restando fedele milite del dovere ostentatorio, passatempi che sono il tà me ónta. Se venne meno, fu perché si levò un coro di anch’io, anch’io, bacino anch’io, io, io, io, bacino bacetto, e chi glielo slinguò, quel mastodontico balano, e chi se lo ficcò in bocca col rischio di procurarsi una slogatura alla mandibola, e chi impavidamente palpò e strizzò i due testimoni che insieme equivalevano, per dimensioni e peso, a un intatto uovo di struzzo e altrettanto pieni erano di buono, fertile albume, e Ciarli sguardo vuoto se ne distolse con un lemme scatto sonnambolico e tornò alla bella sporcacciona, e le stette davanti, parletico.

Da lui, non lui, non più nessuno, proruppe una pioggia rifratta dal proiettore in un balenio di minuziosi arcobaleni, cascata che avanzò verso dove capitava capitava, e parve metterci un’eternità a percorrere il breve intervallo, e scese, solenne torrente composto da miriadi di potenziali pupetti, tanti da ingravidare la Liguria tutta, e Ciarli si piegò sulle ginocchia, piombò e giacque, occhi stravolti come di pia vergine che scorga la luce in fondo al tunnel, bocca aperta con bavetta e bollicine, respiro interciso, Ciarli trasceso, sublimato, essendo che la piccola morte vince ogni cosa che non sia se stessa, e nulla risparmia, niente la infrena. Crollato il secchiello, rotte le bottiglie di champagne, sparso ovunque ghiaccio e acqua da scivolare e rompersi qualcosa.

Vollero rianimarlo, pietosi, con buoni sorsi e ottime sostanze risuscitatrici, alchemici miscugli senza meno giudiziosamente combinati da un esperto di afrodisiaci (medico? Erotomane? Sessuologo?), di cui un due-tre per cento di efedrina che sensibilizza le gonadi agli ormoni dell’ipofisi, altrettanto di erigio che è impiegato nella cura dell’eiaculazione precoce, persino mandragora per non oltre qualche milligrammo, e una goccia, una sola, di cantaridina detratta da un coleottero disseccato e ridotto in polvere, ma soprattutto l’infallibile corteccia della yohimbé che gli indios chiamano legno della potenza. Tutto invano. Mentre attorno a lui si scatenava una confusa orgia condita di gemiti, rantoli, urla scomposte, succhi e risucchi e popismata che i greci volevano essere prodotti da un corpo che penetra con forza in una cavità piena d’aria e liquami, Ciarli continuò a giacere insensibile. E da quella notte fu un altro.

Ciarli. Propri un altro, scì. Ben, i dixen (questo in italiano, classica lingua delle pene d’amor perdute) che non c’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nell’imputensa. Escì, ma ci si fa il callo, e il mio callo erano le palanche che avevo saggiamente depositate in un conto svizzero. Come fài o becco all’oca.

Astrofili

Giunsero a breve intervallo l’uno dall’altro. Per primo Geppino testa di passero, appesa al collo la sua itinerante bottega, grande vassoio di legno suddiviso in comparti, noccioline, pistacchi, torroncini, copaïbe che sarebbe il balsamo del coppan, una gomma resina giallognola, odorosa, amaricante che cola dal brasiletto de o-Brasî; e bilancetta; e un rotolo di disegni legato da un nastrino appartenuto a una confezione di formaggini: la sua metafisica, anzi certezza. Vediamola da vicino. Da quarant’anni circa Geppino aveva fronte sfuggente che si aquilinava nel naso a lametta, esiguo il cranio con uno sporadico ciuffetto di peluzzi, occhi caimaneschi in quanto quasi congiunti sulla radice e sovrastati da un unico, fitto sopracciglio-fronte. Un vero idiot savant, in una parola. Chiese se gli offrivo gamberoni fritti. E ûna pastasciuccia de fide’ da penna. Ma certo. Si sedette, sciolse il nastrino, espose.

Note le premesse. Essendo egli nato di 22 gennaio, le conseguenze erano palesi. Appena appoggiata la zampetta in Acquario, Sole e Venere cominciano a litigare con la Luna in Toro, ma ecco intervenire Mercurio, Nettuno e Urano che attaccano a rattellâ tutti: un trio di pizzica questioni. Conseguenza: una plateale caduta d’umore, e lui dentro la pancia nutrizia se la prende con le pareti che lo carcerano nella fetità, scalcia, sbatte la testina che gli resta offesa. Nasce che è un grumetto. Orfano per definizione. Ma sù con la vita, non hai niente da temere, Geppino. E testa di passero, seguace del grande sacerdote Nyankhpepy detto il Nero, si fa adoratore di Iside. Grintoso e incazzoso, si scioglie a mano a mano in dolcezza. Accade infatti che la Stella del Mare venga a visitarlo più volte, anche da sveglio, e gli si conceda e gli riveli i suoi misteri. Lei è la Plutodotai, la dispensatrice di ricchezze. Lo vediamo così farsi bottegaio ambulante. Iside-Fortuna lo fa prosperare, lui vende fino a tre etti al giorno delle sue leccornie, quanto gli basta per dedicarsi alla progettazione del carro a forma di fuoco. Che sarà, mentre è ancora a terra, una struttura di cassette di frutta, semplice e  fragile in apparenza. Ma si dipartirà dal quaggiù, e nel lassù si trasformerà come un uccello che fa a-reciûmmâ (noi diciamo muda): arderà, nuova stella diretta alla sua meta.

Eccone infatti il progetto. Funziona? Diascoa, se o funsiona! Con una scia neigra de fumme come un féugo artifiziae, che si vedrà fino in America, ma siccome o fumme ö non impe a pansa, le componenti più importanti del vascello celeste saranno: a despensa con Geppino (raffigurato, nella funzionale e dunque schematica rappresentazione, su per giù quale un uccellino spiumato) in funzione de despensê; e a cuxinn-a, ma grande, due terzi della volante struttura, con un cuxinutto da arruolare appositivamente. E per piggiâ l’asbrïo, non occorrono né razzi né catapulte. Basta l’attrasiön, e il carro a forma di fiamma si leverà a perpendicolo diretto alla sua razzëa che sarebbe il nido o covo proprio della sua natûa, mossovi da quella forza irresistibile che tende a spingere le une verso le altre le cose create per stare assieme, come u colassu alla cömbea. È appunto questo il sommo mistero di Iside, l’onnidea: il buco rosa.

Il ragionamento di Geppino è una lama immune da ruggini. Ci sono o no i buchi neri? Ora, è noto che e-costellasiun sono aggregati di più stelle che compongono una figura suppositivamente immaginaria, mentre invece sono il riflesso di concrete realtà sovraterrene e di terrestri equivalenti. Prendiamo per esempio l’Acquario.

Rapido e preciso, Geppino con una penna qualunque, ma sapienziale, ne traccia l’immagine. Le sue stelle, vediamole infatti qui, sotto il quadrato di Pegaso, tutte a sud dell’equatore celeste. Come risulta chiaro, l’Acquario è composto da una parte a cinque lati intervallati da stelle, e questa è la brocca e la testa dell’uomo dell’acqua, e una coda, che è poi Api, cioè il dio del Nilo, dispensatore di acque vitali in cielo e in terra, e dunque ondeggiante. Tra la brocca e la coda sta infatti un astro che fa da perno. Perché, lo si sappia o meno (lo sanno anzi solo i veri fedeli di Iside), le due parti oscillano ammiccanti, ma bisogna saperle guardare. La stella perno è però doppia, composta com’è da due astri, una stella grande di colore azzurro e un astro più piccolo di colore rosa. Il quale in realtà è un buco appunto rosa. Ma inoffensivo, anzi buono come nient’altro, a differenza dei buchi neri che, se li si lasciasse fare, inghiottirebbero anche Cristo, il papa e il Vaticano. Tra stella e buco rosa, la distanza è minima, ciò che provoca un risucchio di materia ed esplosioni cicliche e la presenza, tutt’attorno, di una nebulosa gassosa. Insomma, la replica della situazione terrena: coniugi maschio e femmina, marito e moglie, che a volte litigano e si insultano, si picchiano perfino. Il buco rosa, poi, è insoddisfatto, e non è mica tanto fedele, ma anzi cerca di sedurre tutte le cose terrestri o celesti che siano in foggia di fuso, come appunto il vascello interstellare, futuro carro a forma di fiamma. Sul quale ci imbarcheremo. Chi? Noi, assicura Geppino. Anch’io farò dunque parte de a-spedisiûn? Perché no.

Ora, il bello è questo: che basta puntare il vascello verso il buco rosa, ma proprio esatto esatto. Come giocare con le freccette. Il buco rosa è il centro del bersaglio, e tira, tira, e chi gli resiste è bravo. Se si sbaglia, però, si finisce, con vascello e tutto, nell’abisso neìru, perché allora interviene la dea Inanna, che ce l’ha con Osiride che si è invaghito di Ganimede e lo ha rapito mentre lui pascolava gli uri, che sono buoi primigeni, per portarlo in cielo e farne il coppiere degli dèi. Ma che, ma che, il fatto è che Osiride era un bulicio che voleva buttarglielo in corpo al ragasso, un scandalesso che stava sulle balle agli dèi più moralisti, e allora Inanna, che è una brutale selvaggia, prende Ganimede per il coppino e via, lo butta giù dal monte Nebo sede degli dèi, e il povero figgiêu, che poi ö l’è tantu bun, finirebbe in cattive compagnie, e si sa che in compagnia persino ö preve ö piggia moggé, per fortuna che Osiride se ne accorge e lo tira su per non dico dove, lo riporta in cielo e ne fa una stelletta, ma intanto Ganimede per ö spaventâ aveva avuto una striggia tale che il buco caro a Osiride gli si era ristretto e contratto, ed era diventato una pássoa, sicché Ganimede è un trans con una bella brodosa, ed è il buco rosa verso il quale ci lanseremo pe scuggiâ dinta o bubù rosa, e là faí una vitta d’àngei, un bello taggio de vitta, una vitta dö beato Ciullo sensa doveì guägnâse a vitta perché o-bubù rosa te mantegni in vitta, e mangià a giabba, a sciattapansa, e beive e nö pensà a ninte perché o-bubù rosa è come una mamà con grandi tette.

Mentre Geppino esponeva la sua cosmologia, era entrato un signore vestito di scuro, con una bella cravatta. Sedutosi al tavolo vicino, allungava attento orecchio, non dimentico di far cenno a Nicola piedi valghi che gli portasse il menu secondo che lui voleva cenare bene, e chiese infatti «Cos’è un saràgo?», proprio così, e rispose Nicola cameriere diplomato in cortesia, «a-l’è un sàragu nurmale». «Ben venga», disse il signore vestito di scuro con la bella cravatta e poi fece cenno a noi perché badassimo a lui, e sostenne: «Egli ha ragione. Millanta e più volte ragionissima».

Alzò una mano vescovilmente inanellata. Si poteva non prestargli attenzione? Didascalizzò, autorevole:

«Funzioni secondarie in quanto espressioni di pulsioni non organizzate dal Logos, dallo Spirito, ecco dove ci conduce una visione delle cose che non metta al bando la natura corporeo-istintuale, e per ciò stesso inferiore. Qui, qui» (e si toccò la fronte) «sta il verum dell’uomo terreno. Si dia, orsù dunque, un’occhiata agli sbandamenti di un lignaggio che, nonché parlato, si presume parlante. Com’esso è povero! L’uomo ha da volgere lo sguardo all’insù, alle stelle nostra suprema guida e meta. Dite, dite ordunque, volete voi davvero accingervi alla somma impresa?».

Rispose Geppino, che aveva tuttavia colto il senso di quelle sagge parole, pur sfuggendogli l’ascoso significato di alcuni elevati termini, e lo disse in nome di entrambi: «De segûo! Ne sön segûo ciù che de mi».

«Ordunque», riprese il signore vestito di scuro, eccetera, annuendo compiaciuto del capo che aveva ornato di una chioma argentea e ben pettinata, definita da una breve, elegante coda d’anatra, «sapreste voi dirmi come ha da appellarsi la somma impresa? No, no? Orbene, essa sarà nomata Melissiade. Né ciò desti sorpresa in voi. Immantinentemente ve lo svelerò a vostro schiarimento. Prima, però, mi sia concesso di completare l’eletta visione cosmolografica del dotto e savio signor Geppino, così ho traudito che suona il suo riverito nome. Buchi rosa? Certamente, ma ecco intervenire, incongruo, un linguaggio al quale non inerisca il ferreo controllo della ratione, che è la fedele ancella della trinità che andrò esponendovi. A ben vedere, infatti, buche rosa, andrebbero appellate. Circa a dieci anni fa scopersi, con mia grande ammirazione, la Verità esser tricorporea, cioè un aggregato di tre componenti disposti, ancorché invisibilmente all’occhio del profano, ai vertici di un Triangolo d’Oro, qual mai preterisce di accompagnarsi all’Aurea Sezione» (chiaramente noi avvertimmo le maiuscole), «né mai varrebbero ad accertarlo poveri istrumenti, anzi stormenti, con gran travaglio tormentosamente infatti aggeggiati, quasi a supporto e maggior segno di perfetto giudizio e più nobil effetto di profonda dottrina, quasi che essa consistesse nel difendere il falso, anziché restar persuasa del vero, nella sua palese immediatezza allorché è assai men difficile l’investigar conclusioni vere e formar di loro nuove e concludenti dimostrazioni offerteci ipso facto dalla natura e direi anzi dalla divina Benignità del Logos che in noi dimora, microsomica ipostasi della macrosomia dell’Universo tutto. Ma per non m’allontanar più dal mio principal intento, dico per ora l’aver io scoperto i tre astri essere materie consistenti di ineffabil vita, la qual verità io credo che debba essere il sigillo di tutti i nuovi discoprimenti che si faranno nel cielo, e per l’avvenire essendomi per restar ozio libero di poter partecipare alla vostra valorosissima impresa, tanto propinquo essendo con ciò stesso concessoci l’agio di schiavar tutte l’opposizioni pericolose e l’investigar al postutto conclusioni vere e il formare di loro nuove e concludenti dimostrazioni, e cioè che siano i buchi rosa di sesso aggraziatamente femmineo, come cosa risaputa fin dai primordi umani». (E tracciò a concreta riprova nell’aria un cerchio prolungato in basso da una linea verticale e una secante orizzontale.) «Non era questo dunque il segno dell’ankh degli egizi sapienti, e non figuravano essi tal segno assai spesso impugnato da Iside —ben nota presenza, veggo, al saggio signor Geppino— a servirsene per dar forza vitale agli esseri tutti?».

Approvò Geppino, pronto com’era a cogliere sensi segreti ancorché coperti da esoterici veli. «Se u-parla ben!» commentò anzi.

Riprese il signore, eccetera: «Verità elementare che urtica qual fiamma non mai estinta. Le proposizioni son queste: bando ai grammatici che le ascondono sin presso ad altre oscurantistiche brume. Le comete, essi cianciano! Ah, ah, mi sia lecito sorriderne. Non probabili conietture, bensì cose che succedono così per appunto e non in altro modo, non già astre cornicolate e caudate, mi sia lecito metterla giù così, sibbene masculi al cui palesamento universo veggonsi propizii venti indirizzarci con tante lucide scorte, che ormai poco ci resta da temere tenebre o traversie. Imperocché io, ingegnere, e, oso dirmi, di illustre mente, sarò appo voi nell’impresa che avrà ad accompagnatura la Istoria stessa, onde sia eloquentemente esplicito che niun possa dissentirsi dalla mia e anzi nostra opinione essere la Cometa, ognuna di esse Comete, un maschiaccio appellato a fecondar la Buca Rosa, medietà di quella Trinità onde blateravo —così blatererebbero i dissidenti— or ora. E la nube gassosa di cui diceva il buon Geppino altro non essere se non la turba dei celesti spermii che s’addensano a proporne ed eleggerne uno solo, quale il più meritevole, in loro rappresentanza a riunirsi alla soave Buca Rosa e a essa concedere il compimento del suo supremo desiderio, ed esser questo di venire ingravidata con il consenso, mi si conceda la bella imago, del suo sposo putativo, quel Giuseppe di buona volontà, ciò è a dire la Stella azzurra di cui poc’anzi il nostro convincente signor Geppino che, al venire in cognizione del vero, sa egli essere il valido custode e guardiano e difensore del Grande Evento. Noi tutti rampolli della Buca Rosa semprevergine ed egli, il paziente Giuseppe, alla sua motrice intelligenza fedele, la quale impartisce l’impulso alla bellissima Rosa Mistica in guisa d’un sole attorno al quale ella si giri e avvolga, rendiamo ordunque noi la riconoscente grazia che terrà obbligo particolare di palesargli chi sa per certo, come so io e sa il signor Geppino, che siam figli degli astri come qualunque sappia compenetrar la forza delle veritiere ragioni e delle inutilmente contrarie e false opinioni. E ciò detto, io invito le S.V. illustrissime ad accedere al mio segreto e incantato giardino da cui potremo spiccare il volo e gettare il cuore al di là dell’ostacolo costituito dai pavidi orizzonti di quanti restan prigioni delle comuni e sempre medesime configurazioni miserevolmente terrene, quasi ignoranti dell’aspirazion del homo universalis nel cui animo pulsa di cellule sapientemente aggregantisi e felicemente irrorate di vitale sangue quel che vien detto Cerebro, sommo gradino della nostra ascesa, l’impulso intendo a disancorarsi dalla penuria delle conversioni ciascheduna equabile a se medesima, non convenendo alle lor sia pur motrici ma infruttuose intelligenze se non l’idea carceraria del guardar verso il basso del terreno gravame, che saria troppo repugnante alla nobiltà e alla inalterabilità delle splendenti sfere di lassù.

Giardino, Dimora, Gabinetto Segreto

È noto che perfino i Dogon, popolazione non molto progredita dell’Africa occidentale, sostengono che gli astri tutti sono doppi. Ma guarda un po’. Da dove l’avran tirata fuori? Varie le ipotesi avanzate. Che possiedano segreti telescopi. Che se lo siano inventato di sana pianta. Che ci vedano meglio di noi civilizzati con i nostri poveri occhietti logorati da registri contabili, tomi di varia scienza e letteratura, schermi grandi e piccoli. E il signore vestito di scuro, che dice, che dice?

Dice che anche i Dogon sono in contatto segreto ma diretto con la Rosa Mistica. Ovvio, no? Intanto, diamo un’occhiata al suo hortus conclusus, anzi di arduo accesso. Due, ogni cosa è Due, sostiene egli infatti: Due i suoi cani corsi, Napoleone e Giuseppina, e guai se fai il carino con lui o lei da solo/a o anche soltanto lo/la guardi. Duplice gelosia. Denti e ringhi. E due sono i rottweiler, Lutero e Geltrude, identica gelosia e suscettibilità. Due recinti separati per due coppie di belve. Scarcerate di notte, e nessuno oserebbe…  A nutrirli sono il signore, eccetera, e i suoi fedeli domestici, Giovan Battista e Maria Maddalena. Ai quali è lecito avvicinarli, interpellarli, persino sgridarli bonariamente, e chiamarli, per scherzosa e comoda abbreviazione, Napo e Peppa. Non altrettanto è lecito a Nicanore e a Maria d’Amran, rispettivamente giardiniere e orticultrice, che furono entrambi un tantino ribelli in una precedente incarnazione, perché il signore, eccetera, la sa assai lunga anche in questo campo. Lui, Nicanore, fu uno che vendette la pelle dell’orso (schiavi, per l’esattezza), prima di averlo catturato; lei, nel deserto, mormorò contro il potere di Mosè, pure suo fratello, e fu colpita da lebbra; il fratello però la perdonò, e fu risanata. Di conseguenza, è loro lecito accostare i fieri custodi soltanto a patto di esplicitare i dovuti scongiuri. Che sono: Nicanore dovrà dire: «Cani grossi belli grossi mica fanno i saltafossi»; e Maria di Amran invece: «Il buon cagnino, tiè tiè, tanto carino, lui non fa male, tiè tiè, neppure a un moscerino». Sul che i due più due feroci si ammansiscono e accorrono scodinzolando come Cerbero trino e tricipite allorché Ercole andò loro incontro offrendo pagnottelle ripiene.

Nel cielo del Nord con sinuose curve scorre il Dragone quale un fiume tra le Orse, le quali temono di immergersi nell’acqua dell’Oceano. Ben lo sa il padron di casa, che infatti ha voluto che nel suo giardino sorgessero, a reiterare i celesti Segni, terrene immagini, sì che porgessero all’occhio gran dilettazione, certo, ma in ugual tempo, in perfetta unione di arte e techne, il soave liquore della Sapienza, per modo che sappia , il visitatore, quanto esatta e perspicua sia l’equivalenza tra basso e alto, e risulti incontrovertibile l’ombelical cordone che unisce l’anima inferiore all’eterea, celestiale, astrale, Idea superna onde a noi viene la Vera Luce: e consistono le immagini in due ratas, ciò è a dire carri consacrati al dio vedico del Sole, anzitutto perché in questo luogo fuor d’ogni luogo vige un assoluto e paritario sincretismo, ed essi ratas raffigurano le due Orse ovverosia celesti Carri, e sono due piattaforme con gradinata d’accesso, aventi lungo le fiancate ruote a otto raggi (né staremo a dirne l’ovvia valenza simbolica); e non sono l’unica indianata del ben figurato giardino delle delizie —non solo e non tanto carnali, e non certo di bassa terrenità al di là di  pur esplicite apparenze, ma tutte di sublime ascesa all’insù, siccome l’encefalo sta al di sopra di frattaglie e piedi sporchi.

Essendo ben noto, infatti, che il Grande Zio del padron di casa fu grande Ambasciatore, grandissimo conoscitore e sommo interprete nel e del subcontinente indiano, che tutto amò e conobbe; e, tornato in tarda età fra noi, qui volle erigere ricordi e celebrazioni delle austere Verità indù. Ed ecco dunque il perché della presenza del terzo avatar di Vishnu in foggia di enorme statua monolitica di porfido rappresentante, appunto, un cinghiale, coperto di figurette umane che sono dèi e dee. E gli fa da spalla, oserei dire gli tien terzo, la Vahana ovverosia cavalcatura di Shiva, oltre due metri d’altezza, ed è il Toro Nan monolitico, liscio e tondeggiante, piegato in atto di adorazione sulle quattro zampe tornite, a levare il capo saggio e feroce insieme.

Ma nulla è tutto ciò a confronto della dimora, edificio composto da un portico, da una maha-mandapa, che è una grande sala a transetto, da un’ardha-mandapa, che è come dire cella, più propriamente «utero», circondata da un corridoio di deambulazione, a rigor di termini un pradakshina patha (e mi limiterò a far notare che qui ci sono, a ben vedere, un bel po’ di ghiotti etimi, basti dire che in inglese pat viene a dire «sentiero»). Ora, questo maestoso edificio si drizza su una piattaforma sovrastata da un basamento ornato da ricchi rilievi a più registri. E sulla struttura si leva la jangha sottostante il tetto, insieme di pieni e vuoti ritmati da pilastri. Veniamo poi alla copertura piramidale, che è a vero dire una torre a costoloni curvilinei, la shikhara, la cui modanatura è completata da torricelle simili di diversa altezza. Che sia falliforme, non v’ha dubbio. E qui bisogna intendersi, e aprire una bella parentesi.

Agli incauti verrà infatti subito alla mente Khajuraho, complesso templare fin troppo noto per le sue ghiotte (e chi lo nega?) decorazioni erotiche. Gli è che i brahmani che, nel X secolo dell’era convenzionalmente nostra, tradussero in immagini la letteratura Smrti vedevano, in quella che a certuni potrà apparire iti-e-vulvoforica pornografia, una legittima sfera dell’antropica attività, parte integrante essendone l’umano coire. L’erotismo, coloro lo consideravano sacra funzione rivelatrice dell’aldilà, dell’altro-da-sé, tramite la fusione dei corpi e dei cuori con l’abbandono della mera dimensione egoica. E qui mi fermo, per considerare piuttosto le immagini che il Grande Zio volle collocate sulle pareti dell’edificio: una profusione di plastiche che più esplicite non si può, divinità, voglio dire, intente a molteplici congiungimenti, a plurime masturbazioni, alle orge solo in apparenza più sfrenate, in effetti sottomesse al controllo di Dharma, Artha e Kama, combinantisi nel Samadhi, estasi e culmine del distacco. Il quale comporta anche l’allegra fornicazione di un eroico chiavatore, invero di rispettabili proporzioni, con un equino, né viene esplicitato se maschio o femmina, e ad assistere e coadiuvare sono graziosissime figure femminili, le apsara che le son ninfe danzatrici, e una sura-sundari che si toglie una spina dal piedino, ma anche le Saptamatrika, le Sette Madri danzanti con Ganesha, Parvati e Virabhadra. Alle andropofilie e zoofilie si accompagnano scene di guerra e simulacri di giovani mamme con i bimbi al collo, e ovunque nanetti con membri spropositati, e insomma la celebrazione della potenza sessuale, ipostasi della fertilità della natura e del rinnovamento del mondo.

Sta di fatto, bisogna ammetterlo, che non di vere sculture si tratta, bensì di ricalchi o contraffazioni in gesso degli originali, tutti coloratissimi, talché si ha l’impressione, certo fallace, di trovarsi nella Lourdes dell’India meridionale, intendiamo dire l’antichissima Madurai, dove bambini legano offerte di placente e pezzuole da mestruo a un albero popolato di serpenti come quell’Ananda sul quale riposò Vishnu; e dove Minakshi, la dea pesce che è attratta da tutto ciò che svaria come l’acqua, sta a giocare a tingolo tangolo nel tanka del loto d’oro, piscina ove nessuno osa scendere a natare, non sapendovi che cosa possa esserci sott’acqua (l’eterna Minakshi mica avrà denti da squalo?); ed eternamente aspetta, lei che è umida, vogliosa fertilità fatta carne-parola, l’arrivo del suo sposo Shiva che apparirà in foggia di scimmiotto pronto allo scrupoloso lavoro della germinazione, e uscirà, dio della giustizia allegra e della suprema ingiustizia pulsionale, lui che danzando crea e manda in perdizione i molteplici mondi che popolano l’onnidimensionale infinità: uscirà, dicevo, dal portico delle otto dee, Otteade al femminile poiché basta una goccia di sperma a riavviare la ricircolazione poliproliferante; e, assunta forma di rosso chili,  Shiva-scimmiotto andrà a piantarsi con demonica e demenziale accuratezza nel ricettacolo della semprevergine ittidea (non è chiaro se nel liquido elemento o all’asciutto, il mitema non precisandolo), e qui tutto è policromia, e non c’è pollice quadrato che non sia kitschescamente rivestito di volute e convolvoli nell’indistinzione che è la stessa della linfa e della rugiada, la tenebrosa moltiplicazione alla luce dell’incalcolabile trasmutazione di dèi in semi e semi in dèi, e molte le vulvari fanciulle in posa tribhangana, che sarebbe aggraziata e arrapante flessione del corpo, tutte obbedienti all’assurda assunzione del destino nella vita o forse viceversa.

Ordunque, il signore del luogo, non più vestito di scuro, ci accolse di sull’uscio della sua straordinaria dimora, e appariva nella sua seconda ipostasi, lui metamorfico. Dismessa infatti la cravatta, dismesso il tono elevato della parlata in solennese, aveva adesso il capo avvolto di un turbante con lunga piuma a coronarlo, a dimostrazione che disponeva di un se stesso ben tangibile e giudicabile (molto positivamente) e indossava una lunga kamisa candida e ampi pantaloni rosso vivo, e i piedi aveva infilati in babush con la punta a prua di gondoletta, e sulla fronte gli splendeva, a mo’ di gioiello, il tilak racchiuso nella fortezza dei segni di Shiva, origine che non è l’origine, nome che non è il nome.

Notammo inoltre che un balteo gli traversava petto e fianco, e ne pendeva una spada in un fodero aurato, e d’oro tempestata di pietre preziose era l’elsa. L’arma del difensore della Verità, ci si figuri un San Giorgio kitschinduista pronto ad affrontare gli innumerevoli draghi che minacciano il cielo e la terra.

Portando le mani giunte al petto in segno di benvenuto, il paladino ci invitò a entrare, disse, in questa dimora che ha un cuore di fiamma viva, e parve lui stesso cambiare colore, diventando azzurro e poi giallo oro, e ancora verde e violacciocca, o forse era uno svariare di faretti che enigmaticamente si alternavano nel compito enlightement che è ben più che illuminazione, poiché sussiste anche qualora la luce si spenge o provvisoriamente si eclissi o addirittura manchi del tutto come in certe comunità tribali del subcontinente.

E ci condusse, per sale sontuosamente arredate in cui stordente era la profusione nebbiosa degli incensi fumiganti da cento dorati candelabri, al suo Gabinetto Segreto.

Ci colpì qui, subito, la sovrabbondanza di immagini rappresentanti pubi femminili, coperti di mutandine, mutandelle, slippini, fils dentals, mascherine, gabbiette, salvacondotti, passe-partout, culottes, underwears evanescenti, trasparenze a cucù, impalpabili gacice, perfino allegre svegliette, leprotti di panno lenci, uccelletti piumati e impagliati, minuscole pendolettes, undies, poiché non si trattava di piatte dipinture, bensì di figurazioni a sapiente rilievo, e dai coprivergogne spuntavano infatti ciuffi di peli di vario colore, dal nero notte al biondo celestiale, e il nostro anfitrione si accostò a quelle belle parvenze, e gli bastò scostare un margine, due, tre, dieci margini, per rivelare le tenere dolcezze di svariati e svarianti cons, bel termine francese, commentò, assai meno volgarmente ovvio di asole, pispole, patate, chicu, uccellesse, filippe, fioche e chi più ne ha più ne metta, e ve n’erano di rasate pilo per pilo, sicché apparivano infantilmente pure, e altrove sovrabbondavano invece foschi e intricati pelami, e non è vero che vista una viste tutte. Sopra di una elegante scrivanietta a forma di pube donnesco, fatta di prezioso legno venuto da luoghi lontani, spiccava poi il Ritratto, tale lo definì l’anfitrione, e a esso si accostò deferente, si inchinò, si risollevò, baciò l’indumento intimo, lo scostò, mordicchiò la soffice carnalità che celava e celebrava, poi sospirò, si sedette, rimase in silenzio fissando l’immagine, la decretò «Divina», e a questo punto subì una subitanea trasformazione. Il volto infatti gli si contrasse in un ghigno, gioia travolgente o sofferenza mnemonica che fosse, i capelli gli si drizzarono sollevando, quasi fossero una molla, il bel turbante che si sciolse, snodò, cadde, e l’argentea chioma gli formò tutt’attorno al cranio quasi una balenante aureola fatta di luminose escandescenze, e allora parlò e disse:

«Amici, vi offro il mio segreto. Terribile. Dolcissimo. Mi erano note le virtù salvifiche delle erbe, ma in primo tempo ne ebbi una provvisoria visione ciecamente scientistica. Che concordava con l’attività della quale allora mi beavo, stolto che ero. Né scorgevo altra più serena luce, ed era ben remunerata. (Quasi urlando). Guadagnavo un casino di grana! Poi compresi che l’insalata, l’umile, la spontanea insalata dei campi, o quella scrupolosamente coltivata apporta al nostro sangue dosi eccellenti di salicilati. Presenti del resto in piante e cortecce di vario genere. Non è forse comprovato che la corteccia del salice era nota dalla più remota antichità quale potente febbrifugo? Donde l’aspirina. Sua riduzione, insigne certo ed eminentemente civile, per via artificiosa a curare le flussioni catarrali e capace di tenere alla larga, ancorché in piccole dosi, l’infarto, il cancro specie del colon, fors’anche del polmone e del seno.

«Ma non è un atlante delle erbe medicinali che è mio intento esporvi, bensì soffermarmi sulle virtù salvifiche della melissa. Stavo per perdermi senza saperlo, rischiavo di degradarmi. Dieci, dodici, sedici ore al giorno a ruscare, sgroppare, stuinér, e i profitti crescevano, e io diminuivo. Magro, sparuto, occhi lucidi di oscene brame finanziarie, produttive, aggressive, spietate! Sadico, masochista, turpe ruffiano! (urlando ancora, capelli irti come serpi medusee). Svenni. Non avevo il tempo di nutrirmi. Mi ritrovai in una clinica. Costosa, lussuosa. Maledico il lusso! Il lusso delle pillole e iniezioni che mi somministravano. Uno scheletro che dormiva e nel sonno gemeva. Una forma eclissò la lampada. Un volto. Donna di nobilissimo aspetto. La Signora Luna, Iside divina quando ci si mostra altera, eppure semplice, remota ma da toccare con mano.

 

Un silenzio, e poi:

Lei, subito lo compresi, lo intuii dal profumo celestiale che ne emanava: era l’incarnazione della dolce melissa, erba perfetta; ed era ancora in parte erbacea, ne emanava un verde lucore. E giustamente mi investì di male parole. «Stronzo», mi disse, «monager», soggiunse grosso modo in veneto, «monager da strapazzo, scommetto che non ti tira più il cazzo. Chi lavora non chiava, cretinotto». E infilata una mano sotto le coperte, palpò, spregiò, disse: «Visto?».

Piangevo, mi rannicchiavo sotto l’impietosa valanga. «Vendi tutto», mi impose la mia dolcissima Melissa. «Coccolami, mantienimi, fammi divertire, stronzone! Portami a spasso, in viaggio, e non ciangottare, brutto cretino, se me la faccio chiavicare, chiormare e sleccazzare da altri più giovani di te. Orsù», concluse, «esci da questo scagnardo, da questa sepoltura, tira fuori i cardinài, la pecogna, i sacchi, e danne tanti a me, che sarò la tua troia sorcosa, la tua bardascia che te lo menerà e ciuccerà e ti farà sballare un casino, ti fornirà lo schizzo che ti ci vuole, e se cerchi di butèm ’n cundisiùn (questo in milanese, suppongo, poliglotta com’era) e non lo tiri fuori quando te lo dico, te la taglio via con una limetta da unghie, quella tua lumaca fredda, da quanto tempo non lo usi, quel moccolo da sagrestano del dio lavoro, eh?».

Come vedete, la mia dolcissima Melissa era di modi un tantino spicci e, se vogliamo, sfrappolati. Uscii dalla sontuosa clinica, ed ebbe inizio il mio squisito tormento.

(Notammo che, così dicendo, il nostro anfitrione, forse regredito a forme adolescenziali o addirittura primordiali come tanto spesso accade a chi sia vittima dello spietato Amore che tutti trafigge, che a nessuno perdona: badava, dicevo, a manipolarsi il pene attraverso il calzoni, la sua civiltà non permettendogli, almeno per il momento, di estrarlo ed esibirsi in un estatico cinque a uno: e lo faceva con evidenti finalità autoconsolatorie, memoriale atteggiamento, del resto già descritto da H.G. Turner e B.R. Wise a proposito dei giovinetti Arunta australiani iniziandi ai quali, loro essendone preventivamente informati, saranno inflitte la crudele subincisione e la dura prova del fuoco. Non ci scandalizzammo. E di che, del resto? Comprendemmo).

E così, riprese l’anfitrione, tutto vendetti e con la grana, “un sacco di grana da sballo”, constatò la dolce Melissa, mi ritirai in questa dimora, avendo per breve feudo questo giardino che si conclude a est con un aggetto sospeso sulle rupi e l’onda fragorosa, mia consolazione e mio pianto, poiché il suo suono è la voce di Melissa, terrena ipostasi della Mistica Rosa.

E a questo punto, sguainò la spada, la baciò, fendette l’aria, minacciò il destino. «La porterò», disse, «con me nel santo viaggio. E chi rilutterà a seguirmi», proclamò, «gli taglierò le palle, porcaccia miseria!». E, calmatosi, riprese il racconto che, devo dire, assai mi commosse.

«Melissa mi prese tra le braccia, mi cullò neanche fossi un pargolo, tirò fuori quello che definì il picio —e tale era, devo convenirne— e lo rese adulto o almeno adolescente con esperte carezze. Poi disse:

“Tradire è amare, caro il mio vecchio cagone. Chi ha mai detto, che la femmina dev’essere troia con un uomo solo? Ma quando mai. Le sue fantasie poliscoperecce sono un retaggio culturale della porcaggine animale. Mai vista la colomba accontentarsi di un maschio solo. Lei vuole cacare uova a strafottere, e monogama non è e non può essere. E la lupa? E la gatta? La fedeltà è la stupida virtù di chi si sente più debole nella coppia e ha la falsa impressione che, facendo le corna a un tale, tu nel caso specifico, non ha altre occasioni di darla via. Ma quando mai. Sappi dunque, pistolino mio, che la virtù mi fa vomitare il reciticcio, veh, la dotta parolina. In nessuna virtù ho visto alcunché di nobile, come parla bene la tua troietta, no? Eh, il noi! Ma va a dar via l’organo! Il noi è una grande stronzata. Il noi, cara la mia belva —tale diventerai, altro che seghe!— è solo un mezzo per tener ferma, morta, mummificata la relazione. Tradirò regolarmente il noi, o mio pisquano. E tu fai le scene che vuoi, batti la testa contro il muro, piangi, bestemmia, latra come un coyone alla luna, e non perdonarmi, non avrò un cazzo da farmi perdonare, pisdrulino!”. E fu così che cominciò la mia estasi e il mio tormento. Estasi, perché immaginarla in letti altrui mi spossava ed eccitava. La masturbazione eccessiva fa diventare sordi, e il sordo parla da solo, e lo facevo tra queste mura, o Melissa isidiaca, signora del fuoco e della luce, portatrice dello scettro, e bastava che implorassi “vieni nella mia casa, grande Iside, i tuoi sacri oggetti sono  pronti, e qui ti attendono”, ed erano le mie molte ricchezze che ormai da solo più non sapevo godermi, e dicevo anche, “Attendo la tua presenza in questo che è il tuo reliquiario”, e il 30 luglio, compleanno di Melissa isidiaca, suo quinto giorno epagomenale, lei riappariva, carne insozzata dai suoi molteplici congiungimenti, e accanto a me, nella sua divina dimora, d’un subito si purificava e tornava a essere la sovrana del mondo, sposa del signore dell’abisso e trono che assegna il trono, Melissa cobra, witherkan, colei cioè che è ricca di magici incantesimi. Compresi che è vano abbarbicarsi all’indifferenza dell’altro/altra, quando non alla sua ostilità inesorabilmente generata da quell’avarizia di cui consiste la gelosia, frutto a sua volta del desiderio di rassicurare la propria intrinseca insicurezza, e capivo che l’isidiaca non poteva annullarsi in me e che pertanto doveva tradirmi. Ah, il Noi, il fatale noi che non si emancipa, non arricchisce, non è che parole da scambiare, che non siano già dette o risapute prima che siano pronunciate. L’amore non poteva, mi convinsi, essere possesso, e che dovevo concederle la sua perenne ricerca, senza convincerla a rinunciarvi in cambio della mera sicurezza. Che cambiasse, come cambia la luna, e che io smettessi di essere fanciullo incapace di vivere delle mie forze, anziché persuadermi che non farlo equivaleva a svalutarmi, a credere che la mia vita fosse solo un dono dell’altra, dell’isidiaca.

Poi, lei sparì, come vedrete, cari signori. Assunta in cielo. Ora è lassù, è lei quello che il sapiente ma ingenuo Geppino definisce buco rosa. Nossignori! Buca rosa è!

E sguainò la spada, a minacciare chi osasse definirla altrimenti. Poi ancora pianse e così recitò, vistosamente, apertamente, perdutamente: «Forse è vero, ogni bene ha di contro/un male. E io ho perso la mia pace./Un cuore ho udito battere, due labbruzzi/come il beccuccio di un’uccellina, loro/me l’hanno fatta perdere. Ma di pace/ne avrò presto ancora tanta tanta/e nessuno più me la porterà via./Adesso sono contento di non averti qui subito./So che sei lassù, e ti raggiungerò». Ormai sul punto di dar fuori: «Guardo la casa del mio tormento,/la casa della mia estasi/e penso che l’avrò vista mille volte,/e non mi pare di averla vista mai./Gli arredi, il giardino, i miei cani//. Come la nostra vita, sì: vissuta,/che presto finirà, e mai ben conosciuta». E ancora, come traveggolato, esortò: «Cedete alle tentazioni, fratelli!», e fece quello che ormai da lui potevamo aspettarci. Fece cioè passare i bottoni per le asole. Con agile mano ne tirò indietro la pelle. In parole povere, si fece un raspone. Una misera goliardata? Altroché! Restammo infatti allibiti alla vista dell’organo che gli ballava, oserei dire ghignando, tra le dita.

Solo nell’opera del consigliere reale Pierre de Lancre, erudito e mecenate, autore del celebre L’inconstance des mauvais anges et démons si legge di eventi affini. Era costui un inquisitore mosso da curiosità oscillante tra il canonico e lo scientifico, che tra il 1609 e il 1610 compilò un dotto trattato in cui riferiva sinteticamente i racconti delle prevenute di cui rigurgitavano le carceri, donne e fanciulle arrestate su suo ordine. Fioriva infatti la stregoneria nel Labourd, dove le femmine erano di temperamento assai lussurioso. Prodotto fondamentale della regione, le mele. «Non è dunque evidente», commentava il sagace inquisitore, «che queste donne hanno il carattere di Eva e che sono più facili alla tentazione di quanto non siano altrove?». I Sabba si svolgevano per lo più in Aquelarre, che significa Landa del Becco. E questi era Satana che, stando ad alcune delle interrogate, appariva quale un grosso caprone munito di quattro corna, due davanti e due dietro, le prime protendentisi all’insù come la parrucca di una donna. E Satana metteva in mostra un poderoso membro lungo un cubito, ma come fatto di corno o, a detta di altre sottoposte a tortura, metà di ferro metà di carne per tutta la sua lunghezza, e lo stesso era dei testicoli. Ed era questa la ragione per cui faceva tanto male alle donne. E secondo altre ancora, Satana aveva il membro fatto a scaglie, e causava grandi sofferenze. E il suo sperma era estremamente freddo, per cui risultava sterile.

Ebbene, il membro del nostro anfitrione era appunto fatto a scaglie!

In risposta ai nostri sguardi stupiti, disse allora l’anfitrione:

Permettemi di rivelarvi la natura recondita di Melissa, e capirete allora come si sia verificato questo che non esito a definire miracolo.

Sappiate dunque che nacque figlia di Melisseo re di Creta e sorella di Amaltea, e insieme nutrirono il fanciullo Giove con miele e latte. Ape, la dissero i greci. Supposero che le api avessero nutrito Giove bambino. Suo padre la fece sacerdotessa di Cerere, e a Melissa fu attribuita l’invenzione dell’uso del miele. Sì, la mia mielata Melissa! Ebbe altre reincarnazioni, e in una fu ninfa e figlia dell’Oceano. Apollo la rapì e suo padre, il re di Creta, mandò a cercarla suo figlio. Ma questi non riuscì a ritrovarla, e per dispetto diede fuoco al bosco sacro ad Apollo Ismeneo. Dal nume fu ucciso a frecciate. In una terza reincarnazione, Melissa fu moglie di Imaco suo fratello, uno sporcaccione incestuoso.  Ingravidata, partorì Foroneo. Ma Apollo la riconobbe sotto quelle vesti carnali, e segretamente la possedette, e ne ebbe per figli Ismenio e Tenero. Tuttavia, rimase vergine.

Avrei io potuto imporre la mia volontà a una creatura tanto poliedrica? Avrei potuto farlo, ma una suprema volontà mi trattenne. Divenne infatti Citronella. Mi si chiederà: vuoi tu farci credere che ebbe anche forma di pianta? E perché no? Eccola infatti una labiacea delle regioni mediterranee. Offriva il proprio nettare a qualsivoglia ape che venisse a visitarla. Un’erba fiorita ricca d’un olio essenziale di straordinarie virtù stomatiche, sudorifere e antispasmodiche e sedative. Ma, come tutte le più dolci droghe, capace di effetti paradossi. Ad alte dosi, suscettibile di indurre estreme irrequietezze e perseveranti deliri. Come a me appunto accadde. Pensate solo che, ritenuta orfana, fu accolta dal capo giardiniere del sultano, e lì crebbe restando sempre vergine. Sublime essere, di cui si invaghì il sultano stesso che ne perdette il senno, tant’è che comandò di assediare Costantinopoli dove prosperava il ceppo natio della dolce, implacabile, fatale Melissa.

Ne uscì sconfitto, e per la vergogna si uccise. E lei riapparve allora, vergine, in sembianze moderne, a sedurre chiunque, me per primo, a ogni eccesso.

Che cos’è dunque l’eccesso? Lasciatemi, vi prego, filosofeggiare un istante. L’eccesso è ossessione, ripetitività senza scampo di sogni ricorrenti. È il lutto pieno, poiché l’eternità non ha vie di fuga. L’eccesso è un percorso straordinario, un vicolo stretto in quello che chiamano inconscio, ed è la poesia che sbaraglia tutto il senso onde si pretenda di caricare le parole che si vogliono sottomettere a un codice, ma subito l’eccesso toglie alle parole il peso del significato assegnato loro dal codice diurno. Tutto diventa solo ciò che è e non è, mandando in fumo l’equivalenza della cosa con se stessa. Cessano allora di esserci sensi nascosti nel fondiglio del presunto inconscio, cari signori: il non-luogo, il non-valore, la fuga dalla precaria, minuscola isola della ragione. Non c’è altro da dire. Come spiegare, infatti, la mia subitanea trasformazione?

Sì, signori, —perdonatemi se ricorro a questa spudorata definizione del cazzo—, ebbi un secondo pene. Mi destai nel cuore della notte, e vidi quella miserabile appendice che mi ballonzolava tra le gambe, e sulla quale la mia dolce Melissa aveva sputato ridendo, toccare la vetta di una stupefacente reincarnazione.

Nuova trance-formazione

Un’altra pausa, e poi:

Non fu mera desquamazione. Non ebbe luogo un rinnovamento continuo degli elementi epidermici. Il mio organo si liberò di tutto lo strato corneo dell’epidermide, la cosiddetta camicia. Se ne staccò un velo carnicino. Lo raccolsi. Lo annusai. Sapeva di me stesso, vivo e morto insieme. Intanto una cuticola ne prendeva il posto, rapidamente dilatandosi a investire testicoli, verga, glande. Ah, miseri termini snervati! Mi ritrovai con un cazzo vestito a nuovo, festoso, trionfante. Squamoso. Da incutere terrore. Risi, clamoroso. Dominatore.

Non fu una neogenesi subitanea. No. Comparve dapprima un gemmuccello, permettetemi di chiamarlo così. Una piccola pigna, la testa scagliosa di un serpentello. Una poppina, la gemma, dico, delle piante in primavera. E potrà apparire contraddittorio che tale la si definisca, visto che era un’escrescenza con ogni evidenza di sesso maschile. Compresi subito trattarsi di un miracolo. Una transustanziazione. Melissa, la santa, lo aveva compiuto. Ma non tutti i miracoli riescono, come le ciambelle, interi e perfetti.

E sapete cosa feci? Come la risolsi?

Qui l’anfitrione ebbe una breve pausa. Seguì un singulto, forse un singhiozzo.

Riprese: Attesi l’arrivo di Melissa da una delle sue deliziate scorribande. Mi denudai. Sorrise, dolcissimamente. Accettò il mio decreto. Non potevo certo produrle lesioni o emorragie. Non l’avrei posseduta nei modi consueti. Mi sarei accontentato di starle tra le gambe, il membro accostato ai suoi orifizi mentre le praticavo i massaggi che tanto la deliziavano. E così me ne venivo. Continuammo a viaggiare, e lei a nutrirsi di caffè, nicotina, alcool e cocaina. Altri dei, di ambrosia o idromele. Dea particolarissima.

Anche Melissa descritta da testimoni attendibili

Urbana, non potrebbe concepire una città, per lei essenza del vivere, senza bar. Una lunga strada serrata tra un aguzzo muro giallo e una lugubre teoria di magazzini tutti ombre e traslucidi odori di metalli morti. Un passante smarrito, non più in possesso del suo libero arbitrio. Un’auto che ulula: paura dei ladri, ma più ancora della solitudine. Non un rifugio, e sia estate —e il solleone meni mazzate— e sia inverno —e nonno gelo infili mani scheletriche in ogni distrazione degli indumenti. Non il confortino di un caffè, che è un caffè, non il glugolio di una gluglu-qualcosa: una strada così rischia di farci perdere, pensa la nostra Melissa, il rispetto di noi stessi. Irrimediabile deserto.

Ve l’ha trascinata il suo adoratore e custode-vittima. Wadi Hamamet, l’antico itinerario dei faraoni da Qena-Luxor ai porti sul Mar Rosso. Passa per le loro cave di porfido vigilate, da dentro un calligrafico cartiglio, da Min, l’itifallico, occhiuto patrono delle vie e dei riti di passaggio, guardiano degli squarci nella roccia, accessi agli uteri degli sterili monti, pure produttori, ormai esausti, dell’oro insegna della regalità e fonte dell’ureo che orna la doppia corona e si rinnova nei cobra alitanti minacce in mille anfratti.

Nella coclea del pozzo tolemaico ancora resta l’eco zoccolante di scomparsi asini acquaioli. Il fuoristrada bolle: ho sete! ho sete!Un mucchio di sassi, due tavolini di latta blu; Ahmed, grillo secco secco, palandronato di ruvido marrone, inturbantato di verde, lo prepara masbut, poco zuccherato, cioè; riempie il fornello del narghilé di tabacco, erba arida e potente, scerpata dalle piantine sotto la tettoia a difesa dall’astro implacato, e braci; zampine di mosche fastidiose su ogni micromillimetro scoperto; in azzurrata semioscurità, terra promessa, e l’effetto della finestra esalta il deserto di fuori a esecrabile divinità dell’aridità pietrosa. Ma questo è bene un bar, un caffè, un posto di tappa! Qualcuno, un camionista assetato, solo, affamato, portò fin qui, all’orlo del mondo, un frammento di città. In cui Melissa si riconosce. Non è più dunque un deserto tale per cui soltanto Satana vi inceda ciottolando brecciami, e a ogni suo passo un pezzo di mondo bruci. Una presenza umana ha reso habitat il vuoto. Deserto edificato, pur sempre deserto ma non più null’altro che assenza.

Consola lei —che, dice, è in perenne guerra con il mondo— il bar all’angolo, uno scappa-e-fuggi, luogo di tappa anch’esso. Preferisce quelli tra case austere, casseforti con dentro di tutto, tappeti, combinazioni segrete, domestici. Questi, mai che vadano al bar. Lasciatelo fare agli azzimati portinai locali, a un impiegato di banca in momentanea, peritosa evasione (e se mentre lui alza la tazza con il caratteristico, impiegatizio mignolo alzato, il rapinatore assaltasse proprio il suo sportello?). Sono i quartieri a imporre, con la loro, la fisionomia dei bar. Dimmi il tuo 740, e ti dirò che bar frequenti.

Città, unica dimensione in cui Melissa si riconosca. In ogni altro luogo è come cieca. Si lascia trascinare dall’uomo che ama, detesta, tradisce, riama. Le riesce impossibile definirli, quei luoghi. Neppure ci si prova. Accetta. La città, eh, la città, la persona fisica e giuridica città, parla i suoi bar/caffè. Città pragmatica. E dunque, caffè oziosi, riservati quasi solo alle oziose delle classi oziose, e bar invece per lo più all’in piedi, come certe sveltine nell’ombra di un androne. Il bar allora è solo immediato utilitarismo. Pure, un gestore ce l’ha sempre, un vivente, uomo o donna addetto/a alla locomotiva sibilante della macchina che sforna caffè, cappuccini, latti macchiati; è la mano non descritta che ti mette davanti il tuo tossico prediletto.

Rituali diversi. Melissa è arrivata —non ricorda molto bene come: un viaggio all’acido lisergico— a Gerusalemme. Il Muro è onnipresente, anche a distanza diffonde santimoniosa compunzione. Melissa chiude gli occhi, non vuole vedere —del resto, è una nebbia— il triste cappellaccio, gli occhi mesti, tirati in giù dal dolore del mondo. E pensare che davanti ai vecchi zeloti dai lunghi, marezzati riccioli rituali bambineschi, splende una bottiglia di vino forte e vivo, rosso del Carmelo. Oh, beviamo, e su di noi scenda la Shekinà. Ah, meditiamo, e su di noi cali il misericordioso fuoco pentecostale, sì che noi si parli, almeno interiormente, in dodici lingue sconosciute, segretissime. Un fondaco di pensieri strazianti, tenebrosi come il locale, un sotterraneo tutto pietra, grotto in cui consumare l’estremo delirio. In segreto —per rispetto a luoghi in qualche modo sacri (un’impersonazione)— Melissa inghiotte un’altra pilloletta.

Il suo psicopompo l’ha portata finanche a Bamako, città solare di fogne spalancate lungo i marciapiedi, guai a caderci dentro. Alloggiano al Majestic, e il ragazzo Ali Baba, guida, factotum, mendicante, trafficone, ladro, casualmente portiere, risponde, a lei che gli chiede, infantilmente fedele alle favole, dove sono gli altri quaranta, risponde, serissimo, «di sopra». Ma forse è una gag per turisti. Immutabile come lo storpio marciante su due spatole (le gambe gliele ha mangiate la filaria) che alle diciassette in punto offre ogni giorno in vendita, al Berry, coltellini d’osso. Non li vuoi? Devi dargli il bakshish o almeno pagargli la birra. Lui non può certo lavorare gratis. Il Berry è un centro sociale. Nel senso che mezza Africa nera e bianca vi compravende coperte di petits moutons, collane di Mopti, orologi rubati, gri-gri tuareg, maschere dogon. Si potrebbe fare senza il Berry? Sì, a patto di alloggiare nei due alberghi per turisti e maggiorenti, ma Melissa ha preteso di vedere il mondo, non ha paura, lei, dell’Africa senza carta d’identità. Ha un suo stile, il Berry. Lo stesso del ristorante della Gare. È noto, le spiega il suo fastidioso spasimante, che l’Africa ignora la prospettiva. Nell’affresco della grande sala un treno avanza lungo binari che si accavallano. Sono quelli della linea Ocean-Niger, un nome che è da solo il viaggio. C’è un cameriere che vuol fare il liberto. La TV è arrivata anche nelle savane, e questa è una città vera, mercati, moschee, chiese, un vastissimo immondezzaio-residenza, strade asfaltate (qualcuna), mediconi (sciamani?), varie baraccopoli. Prepara le crêpes col liquore da incendiare. Se lo sparge nella manica del giubbino verde, che prende fuoco, lo spegne con una bottiglietta di Perrier. È stata o no colonia francese?

Melissa mastica noci di cola. Non sente la fatica, non ha mai fame. L’Africa è una sonorità. Alpha Blondy dichiara, cantando, che lavorare è troppo duro, rubare non è bene. L’unica cosa che gli va di fare è chiedere la carità. Melissa è una mendicante. Mendicante ricca, con tanto di generoso benefattore che non le impedisce di sentirsi sorella dei più poveri.

Eccola di ritorno. E sempre il bar come essenza dell’essere ovunque e altrove. È la gente, è sentirsi di questo mondo dove tutti hanno il loro punto di fuga. Melissa è a suo agio tra i fuggiaschi. Questo è sceso a prendere le sigarette, dalla mogliettina ciabattona non tornerà, eh, no. Intanto però fa una sosta al bar, che è un confessionale. Barista e padrone, che fanno tinnire cassa e bicchieri, sono interpreti, afferrano al volo l’aldilà delle parole verbali. Danno anodini consigli: perché non prova con Timbuctù? Già, averci il valsente. Bar, da barra che separa e congiunge perditempo chiacchieroni, banco di mescita, solerti avvelenatori. Melissa è un po’ pallida, la cocaina non le fa un gran bene.

È tornata con tante belle piattoline attaccate, come micropatelle, al tenero pube. Il suo benefattore gliele toglie una a una con l’unghia dell’indice. Bacia, una a una, le minuscole escare rosse, sparge coscienzioso il Mom. Dice: «Devi averle prese in un cesso». È di manica larga. Del resto, per ovvie ragioni non può possederla e quindi averne ragione, domarla.

Melissa sorbe ispirazione da bevande esotiche, birra rossa, vino verde, grappa viola, caffè piceo, tè arancione, rari liquori lenti a colare, arcobaleni ipercromici.

Il bar è a volte una fetta d’anguria alle due di notte. Mezz’estate, marciapiede alberato naufrago tra due corsie di automobili furiosamente nottambule. Bar e zanzare, e com’è bello passeggiar di notte, nell’ora in cui si chiudono i caffè. Coro a due, voce ebbra e voce baritonale dell’ex grande monager, lo spregiato portafoglio bipede. Fraternamente allacciati, procedono sgambettando. Forse gli vuol bene.

Se a Melissa scappa la pipì, il primo bar che capita. La distende, si dimentica. Preferisce però il buon aperitivo, più alcol che ghiaccio, il tavolino giusto, il cameriere ciarliero. Gli racconta la sua vita. Uno spasimo. Potrebbe andarci a letto. Così. Anche questa è essenza della sua barità. Le passioni umane infatti si confondono, il tempo nulla aggiunge, nulla toglie al tedio, ai desideri improbabili, alla malinconia di essere radicati al suolo e pertanto all’indifferenza. Un tale continua a sussurrare all’orecchio di una lei che ridacchia. E lui mi ha detto… e allora io gli ho detto… Melissa ascolta, non depreca, non approva. Il suo terzo Negroni. Qui, la chiarezza —lavoro (ma perché lavorano?), famiglia (ma che bisogno ce n’è?), guadagno (a che fine? Alpha Blondy ha ragione)— sfuma, la luce arretra e precipita, la città si sparge, liquido oleoso che si riversa in alcuni luoghi anziché in altri, a caso, e in quelli si abbruna, si perde, gramaglia che mostra l’inesorabilità di ogni umano vivere.

Ma la città, tale è, tale rimane. Inutile ogni tentativo. Ormai vano scongiuro da quando Caino ha ucciso Abele e ha fondato Caina, patria di Tubal, primo artefice, primo inventore dell’idea che l’uomo abbia a fondamento ed esaltante meta il lavoro. Ma forse il bar è il punto dove le parole, le definitive, vanno e vengono, forse è soglia, porta e terra di mezzo fra trincee dove si spara e si crepa. Forse qui si scopre l’inesistente origine, la giustificazione. Bar di altrove e ovunque.

Là fuori, le case si assiepano, esibiscono facciate e balconi d’uso di una banalità che, trasformata dal velo che fa agli occhi il buon Negroni, il compagnone, si colora di una sorta di probità, di una certa sopportabilità. Là fuori, una puttana si atteggia a semaforo.

Il bello delle puttane è che non servono a niente. Stanno lì, e basta. Ah, la sbronza mi canta dentro. Non servo a niente. Però potrei diventare le due rapide zampette che scuotono lo shaker, potrei, come il bambino che si sogna ferroviere o droghiere, dare il pacchetto —morbide, per favore—, la schedina, lo scontrino, il resto. Vita esalata tra scaffale delle sigarette e cassa, sü la cler, giò la cler, esistenza sempre uguale, come quella di tutti, i fortunati. Legati al rituale del bevi-mangia-vattene. Il bar è luogo di asilo. Dev’essere il moderno erede delle chiese, altare abbracciato dall’assassino divenuto per questo intoccabile.

Il bar è figlio della necessità, figlio della taverna. No, quello è il caffè. Se siano diversi. Melissa ha consultato l’enciclopedia. Ogni tanto legge. Già, l’arredamento, e pertanto scomoda brevità della sosta che gli avventori sono soliti farvi. American bar, caffè concerto, caffè letterario, tavola fredda, paninoteca… Persino, orrore, gli autogrill. Indispensabili, d’altra parte, con tutti quei chilometri —Melissa fa, sommessamente, che non la vedano, l’atto di sterzare, di cambiare, fa (sottovoce) brum brum, pee pee—, l’autostrada, e che cos’è?, solo uno stiracchiamento della città. Ce n’è uno alle porte di Modena, una caverna di sentori porcini. La mortadella entra al gabinetto con te, ti accompagna, manca poco che ti si sieda accanto sull’auto, chiaccherando e fumando. Sono bar le porziterie triestine? Diciamo di sì. Porziteri belli, grassi e biondi, agili moli. Freschi, affogati nell’aceto, aggiustati con l’alluzzante sapore dei granelli di pepe e degli anici cricchianti, caratelli di sauerkräute da barricata, birra amabilmente amara, vale a cacciar giù il rigurgito di vomito alla semplice idea del cibo. Tristezza al ricordo dei caffè/bar dove sfogli il tuo libro, il tuo giornale tolto dalla rastrelliera. Conversi, anche, racconti la tua vita. Uno spasimo. Magari giochi all’intuitiva dama o ai pensosi scacchi. Giornate eterne (il provveditor cortese sarà andato a vedersi un museo) al riparo dalla bora che invetria città e coraggiosi passanti. Che ne è della letteratura di confine? Boh.

Ma anche a Roma: e il Rosati? Dov’è di casa la poesia? Boh. Luoghi dove il bancone è remoto, laggiù, e pare che anche i camerieri siano —e forse sono— gente, pubblico a cui raccontare la propria vita. Uno spasimo. Ma la barra c’è comunque, ed è anzi essa a dominare: impossibile dunque che il bar non sia luogo di fertili convegni? Macché. Melissa si ribella. Mica è un confessatoio. Si consola con i bar da poveracci (il finanziatore è andato ai Musei Vaticani). Luoghi di luce fioca, rancori malinconici, come sempre. Amicizie attorno al mazzo del tresette e della scopa d’assi, e a portata di mano i calici di rosso e di bianco. E le mille e una strade del vino e del tasso alcolico, eh, che ne dite? Bar che si dilatano a regioni, quelli. Il bar è sempre un ridosso dagli spasimi della vita.

Sostituiscono la casa che non c’è. Può mai esserlo la fastosa dimora del suo cavalier servente? Quella che vorrebbe, la vera (ma dove trovarla?), quella avuta dalla solita fata travestita da barbona, porcodio, che noia! Meglio il mestiere della homeless. E se non siano meglio le gocce un tantino fanées dei lampadari del Florian. Aperitivi dai teneri colori infantili, recitandosi composta, intimidita da tanta tradizione, dai velluti un po’ stinti che fanno alto antiquariato in svendita. Come lei.

Cenzanò, ordina la donna (prosciugata, strettissima, forse evasa dalla Valle delle Regine, Tebe). Il francofono cameriere non si meraviglia. Ogni accento va bene. Qui, nella città del dottor Calvino, abbruciatore di streghe (tu sei una strega, le ha detto il suo patrono, tanto garbato eppure soverchiatore dei suoi diritti), anche i camerieri consultano lessici e dizionari dei sinonimi e degli slang. Né si meraviglia il cameriere (galante, come sempre i francesi: inchinevole, una riga di baffetti ironici) del Marais, se a Parigi Melissa chiede un Camparì (vous êtes italienne? Chissà come lo ha capito). È un quartiere di bar, quello, ma non è tutta Lutezia un bar? Chi potrebbe concepire di consumare le sue sette paia di scarpe lungo le vetrine del Musée de l’Homme in cui giacciono, in attesa della resurrezione, i reperti di tutti gli ormai deplorevoli tropici?

Melissa è sempre più debole. Non ha più voglia di insolentire il buon signore che la lascia tanto spesso ai suoi intricati pensieri. Anche Parigi ha perso la bussola, anche Parigi ha una gran brutta ciucca. Meglio la stazione centrale di Milano, piattaforma dei va e vieni tra Nord e Sud, con uno splendido bar di luci da notti bianche e imminenti suicidi. Chissà se fanno poi tanto male le ruote degli eurostar?

Il cielo ruota lemme sul capo dei giocatori di “tavli” nei caffè all’aperto di Cipro. Una sedia ribaltata, con le gambe oscenamente al cielo, funge da scacchiera. Funereo caffè che è greco, non turco, ne scampi.

Assai più lento di quello degli orologi, il tempo archimedeo di questa bettola. Vini, liquori, arancini caldi, pronuncia l’insegna a Siracusa. Matematico solo il gesto calibrato con cui ci si porta alle labbra, al riparo delle palpebre prudentemente abbassate, il bicchierotto dell’effervescente, il tentatore della controra. Nient’affatto matematico, invece, lo sguardo, faro rotante, a occhi spalancati, se transita insolente un paio di gambebelle. Impazza la cicala a tutta forza dagli eucalipti senza ombre, a rendere eterno il tremolio dell’estate.

Ecco Melissa che viene portata a nord. Più austero, più regolamentare, più compìto, a mano a mano che si sale verso aurore boreali, diviene il bar/caffè. La terrasse dei nordici caffè/bar è un luogo cartesiano, pascaliano, gotico e barocco insieme se a far vibrare il tuo Pernod piomba dall’alto, smoccolato dalle torri di Notre-Dame, il rombo di campane tronituanti.

Che bar sia, in fin dei conti, anche la discoteca? Il bar non è tale se un cordone ombelicale non lo lega alla città inumata nella notte. Ben poco bar, anzi per niente, i clowneschi McDonald. Non potrebbero mai essere luoghi di convegno. Può infatti darsi convegno senza la lametta che spezzetta la candida roccia, la coca quella buona, arrecata da piccioni che hanno nome rebo, cavallo, pusher, colombotto gentile pronto a ascoltare il racconto della tua vita. Uno spasimo.

Un juke-box, qualche festone, un cartello augurale, per un fine anno particolare a Gibuti. Ma va benissimo. Basta non muoversi di qui, e farsi. Soltanto il whisky, però, tiene lontane le zanzare che sono peggio degli espatriati francesi attaccabottoni. Prolifica di germi d’altra sorta l’osteria dei cavatori di tartufi delle Langhe, sbevazzanti indicatori biologici della residua salute del mondo quasi ancora contadino. Uva, grano, maiale, bagna cauda. Bella vita. Con obbligatorio coro domenicale, gonfiando le vene del collo, atteggiando la bocca a cul di faraona dietro il candido antemurale dei baffoni arrubinati di vino di quello spesso, anche Melissa ci si prova. «Noi andremo sull’alte montagne/a sentire cantare gli uccelli,/rondinelle, cornacchie, fringuelli/cantan tutti canzoni d’amor».

Melissa non ha più voce. Forse farebbe bene a rifugiarsi in montagna, tra nevi salutari. Ma non sono i bar l’ancora di salvezza? Bar è persino il furgone notturno che spaccia panini (non per lei) e birrette (per lei). È quasi l’alba dei netturbini, delle puttane sull’orlo della resa ma ancora pronte a rialzare la testa sui tacchi stanchi. Che delusione, che tradimento, il bar che chiude all’una. E adesso, che si fa. La notte è comunque insonne. Ma qualcosa è ancora aperto, merito del padrone, se il bar è vivo: dipende dalla sua “zata”, come dicono i veneziani, dal suo pollice verde.

Melissa si tiene accuratamente alla larga da teierìe, infuserìe, nonnesche torte tutt’altro che tossiche. E allora, che gusto c’è? Detesta l’oltreoceanico bar proibizionista, roba da Trump Towers con minacciosi schieramenti di cheese-pies, tutti colesterolo e neanche traccia di quei buoni sapori che deliziano il gargarozzo. Fuggi, Melissa, fuggi dal bar/stazione di servizio in piena Arizona, partorito là, nella strada di bitume, da un motel-bordello, neanche fosse una smutandata madre terzomondista. Vento che assilla solo cactus giganti, scaglia sassolini contro lamiere abbandonate da viaggiatori forse defunti. Qui è tutto morto, ma Melissa non è ancora mummia.

Melissa però non sta molto bene. Il Gin Tonic non è granché come medicina. Forse è vero che, a quindici anni, in un bar di periferia un uomo la guardò insistentemente, e lei si sentì smarrita, ma lui la strinse tra le braccia follemente, e le disse, come nella canzonetta, che conosceva un bar (ma guarda che caso), posto alla periferia, dove si può stare in allegria (che è roba da adolescenti), e dove tutto dimenticar, soli in quel nascosto bar, perché tra un liquore ed una sigaretta ogni pena se ne va. Fosse così semplice.

Il bar ha cessato di parlare all’orecchio di Melissa. Alla clinica, poi, niente alcol. Ma si può? Melissa muore di bar, senza conforto alcuno.

Elaborazione del lutto

«Sì, signori. Ho alzato gli occhi al cielo. L’ho visto aprirsi, quasi fosse due natiche, e al centro brillava il buco rosa dove è ascesa l’anima pura della mia Melissa. Orsù, costruiamo il vascello per raggiungerla».

La ciurma

Non parlatemi di santità, estasi, avventura. Non sapete ancora niente!

Morta la lucidissima Melissa, che aveva esaurito le possibilità offerte dalla vanità e dall’amarezza: forse di proposito, o forse solo per guadagnare tempo; e, se è vero che è da cretini faciloni ridurre ogni evento a racconto, sempreché l’evento già di per sé racconto non sia, potevo ancora sopportare le semplificazioni del signore che, da vestito di scuro, si era trasformato in un atletico fustigatore di se stesso?

Aiutami, Fortuna, a ricordare le ultime gesta alle quali mi ero obbligato ad assistere. Gesta di eroi antichi transitanti in un dormiveglia da ubriaconi strafatti, da cui riluttavo a uscire.

Sappi dunque, Fortuna, che l’anfitrione li ospitò nella foresteria che era posta in una valletta ai limiti del giardino. E sappi anche che il giardino, ogni giardino, si presta a una duplice interpretazione. È paradeisos, nevvero? Luogo serrato, zeribà, zoo, pomerio, dove vegetino piante, animali e antropomorfi, comunque addomesticati. E c’è chi lo vuole frammento di nostalgia d’un tempo di possibilità illimitate, ormai un lassù fuori dal mondo: microsilva strappata alla macrosilva, da contemplare con rimpianto. Contemplare ciò che fummo. O non piuttosto orgoglio? Ti ho domato, silva, ecco qua la riprova.

A dividere la foresteria dal resto, una robusta cancellata. Teneva lontani i cani, ma anche evitava incursioni. E ce n’era di che. Come li avesse raccattati, non saprei dirlo. Spesati di tutto, comunque. I loro mangiari, cui elargiva con prodiga mano l’esperto cuoco con tenacia e forza voluto, anzi preteso, dal raffinato Geppino, ed erano frisciêu (noi diremmo frittelle) di bianchetti e frittelle di baccalà e stoccafisso, né poteva mancare la torta pasqualina che è un trionfo di sfoglie sovrapposte, sino al numero di 10, tirate a sottigliezza quasi di un velo e unte con un mazzolino di prezzemolo intinto d’olio, 9 delle quali messe nella tegghia coprendovela fino all’orlo, e sulla decima le bietole leggermente asperse d’olio con la stagnata (stagnoea), e a distanza eguale vi praticherete 12 fossettine nelle quali metterete un pezzettino di burro, e dentro ogni fossettina porrete un uovo fresco, e sovr’esso un po’ d’olio, del formaggio grattugiato, poco sale e poca maggiorana tritata, né dimenticherete la quagliata che avrete già preparata asciuttissima di siero legandola strettissima dentro una salvietta e tenendola per qualche poco sotto un peso. E che, rinunciavano forse alla cima ripiena? La parte del vitello a tal uopo procuratasi dal beccaio, sia nelle costole che nella pancetta, e la riempirete di poppa, animella, una posta di schienali, due o tre granelli che poi li son testicoli, un cervello, alquanto strigolo e un poco d’orecchio, né manchino tartufi, carciofi affettati sottilmente, aglio, aglio e ancora aglio, sei o dodici uova sbattute, e cacio grattugiato, e mollica di pane inzuppata in brodo di cappone; e, riempito il carneo recipiente, lasciandolo cucinare per due ore e mezza (certuni dicono tre), pungendolo a quando a quando con uno stecco affinché rigonfiando non scoppi. Troppo lungo, me ne avvedo, sarebbe l’elenco degli ottimi piattini non proprio di casa loro, quelli sopraffini prima sentiti solo nominare, ai quali andavano prestamente abituandosi, non più quelli cui ci si accostuma insieme con la lingua della nutrice, ma pur sempre liguri sicché mai dimenticassero, andando lassù, la carezza —diretta o mediata— della cara mamma, che tanto può nel riportare ogni vagante eroe alle dolcezze del quaggiù. Devo dire delle quaglie arrosto, delle pernici allo spiedo, dei piccioni all’inferno (nulla di satanico, semplicemente e opportunamente fatti bollire, pian piano, ciuff ciuff, nell’apposito recipiente adattato alla bocca d’una pentola, e in esso recipiente poco sale e alquanto burro), e dei filetti di manzo in umido, e delle costolette di montone in tegame, e delle lumache col guscio sulla graticola ovvero a zinnino ma ancor sempre col guscio? E gli uovoli di fungo a stufato? E l’arrosto forte? Ma no, non la finirei mai, come senza fine erano i golosi banchetti degli esploratori dell’ignoto, conclusi vuoi con le sciarlotte di mele, vuoi con budini dolci di patate, con risiny e sfogliatine. Tutte cibarie delicate, adatte ad avventurosi nobilitati che poveristico sarebbe stato saziare con zuppe di navoni e rape, con lasagne, tagliatelle o troffie condite, sia pure senza risparmio, con il classicissimo pesto di spicchi d’aglio, baxeicö, formaggio sardo e parmigiano, e pinoli, e olio, e burro. Né adeguati sarebbero apparsi i cinciorli. Ignorate cosa sono? Ma suvvia, ciascun popolano ligure ve lo direbbe. E’ son budellini di agnello svuotati, sia chiaro, del loro contenuto (cacca di angeli, come si suol dirla), ma sotto sotto celebrazione della funzione rigeneratrice degli escrementi (il popolo ama lo sporco, assai meno il pulito, non è così?)

Suvvia, non sarebbero bastati piatti un pochino rustici a placare gli appetiti dei valorosi!

No, l’anfitrione non badava a spese, e altre era pronto a stanziarne perché i fortissimi costruissero il vascello. Il quale, a vero dire, non richiedeva particolari ercolismi. Aveva egli infatti garantito che ci avrebbe pensato una semplice linea retta, fatta come sa lo scolaretto di punti insostanziali, come tutte le formule. Linea retta con il Segno che roseo splendeva nello splendido crescendo del transito di Giove, quando si sarebbe potuto contare sul rivoluzionario e assai dinamico trigono di Urano. Allora l’attrazione mareale del Segno sarebbe stata irresistibile, e la nave celestiale e la sua ciurma valorosa sarebbero ascesi, cometa, fuoco propedeutico ma innocuo, salvifico anzi, visibile a maraviglia del mondo tutto.

Non si creda però che il nostro provvido e razionale signore non avesse preso modernistiche precauzioni. Vaste le sue cognizioni: aveva sulle punte delle dita il sistema copernicano, era versato in molteplici scienze, era appassionato di astrologia astronomica —come sarà risultato all’attento lettore— e le sue certezze avevano a sostegno una struttura fatta erigere, su suo progetto, alla base di quella prominenza a perpendicolo sull’abisso che concludeva a est il vastissimo giardino e dal quale sarebbe salpato verso l’empireo, in festoso tripudio, il suo superbo vascello. Superbo? Sì, certo, piuttosto audace, unico e inimitabile, ma all’apparenza modesta, come più avanti diremo.

Nulla dunque aveva lasciato al caso. Un gioiello, ecco cos’era il suo osservatorio astrolognomico: un reticolo quadrato obbediente ai più comprovati dettami del sapere astrale d’ogni tempo e luogo, un insieme di strumenti in pietra e cemento non congeniali forse all’architettura, sì però alla simmetria metafisica che è cosa ben più esaltata. Un abile compromesso tra l’immagine del cielo senza macchia e le umili necessità della polverosa terrestrità. Solidi edifici di marmo bianco alternato a bande nere: e case celesti erano, di linee sghembe che si sottraevano alla prospettiva o la rovesciavano, ed esili ma incrollabili passerelle vertiginosamente (sotto, l’insondabile verdazzurro) sospese, e ombre che scivolavano ruotando in esatta omocronia con gli astri superni, e a coronamento una scalea che si perdeva nel vuoto e che il nostro ascendeva quando la nostalgia non gli dava tregua e da quell’alto podio contemplava, meditava, spandeva salse lacrime che spiovevano nel sonante in cui si rifletteva, notturna come un sogno, la sua vera patria.

Né si creda che la volontà che lo aveva guidato nella edilizia fatica progettuale fosse di carattere ludico, la voglia, dico, di dotarsi di un giocattolo prestigioso ma egoistico di cui non sarebbe restata traccia negli annuali della scienza, ramo morto consistente di vacue murature: e solo voglia di stupire con la precisione di luci e ombre di splendido impatto visivo. A vero dire, invece, opere d’arte, innegabilmente tali, rispondenti a ben altra architettura, quella siderale, traduzione in pietra della musica delle sfere, e lui il maestro direttore e concertatore: svettava una meridiana alta dieci metri la cui ombra percorreva i quadranti che erano liscissime semisfere gemelle, aperta una al nord, l’altra al sud. Come dubitare, dunque, di fronte a tanto apparecchio, che l’impresa non fosse predestinata al successo? Immancabile esito, agli occhi suoi e a quelli del fedel Geppino e di quanti avevano risposto al suo appello, che aveva voluto però ribattezzare, impartendo loro nomi tali da elevarli al punto di renderli pari alla somma impresa.

Senza darsi pensiero di Dio, della casta sposa in vigile attesa nel domestico focolare, dei pargoli figlioletti, apprestandosi all’arduo viaggio e alle gesta che avrebbe compiuto nel lungo errare, primo dei cinque intrepidi si era aggiunto all’anfitrione l’impavido Titaresio, esperto nella scienza dei presagi. Era quel prode il figlio, umilmente pilota di vaporetto per turisti, di Antianira, la maga buttacarte del rione di Bocca d’Asse, dove con il mare si sposa il Bisagno, fiumara femmineamente mite di suo, ma belva vorticosa quando il cielo aprisse le sue devastanti cateratte. E prima di ricevere il battesimo di Pigato, che è vino a denominazione di origine controllata, giallo paglierino più o meno carico, asciutto, pieno, lievemente amarognolo, mandorlato, indicato con preparazioni a base di pesce, spruzzatogli sulla testa, che aveva altera e ricciuta, dalla mano del suo capitano, si era chiamato Olimpio Rocco, nome fatidico poiché come di duro sasso pareva membrato, e conosceva per divinazione le vie del cielo e le stellari correnti, e a occhi chiusi, ciecamente, avrebbe saputo tracciare la rotta scansando infidi asteroidi vaganti nei cicli infiniti.

Veniva poi Ificlo, fortissimo camallo rudemente scontroso verso i molli abitanti del ricco quartiere di Albaro fatto di agghindate case affacciate su un mare per costoro solo da guardare divertiti quando non sgomenti, dov’era nato da madre portinaia e padre manovale, e da cui era fuggito per facchineggiare sui moli della Superba, indomito portarecchia, abitante prima nel fosco reticolo dei vicoli retroportuali. Era costui quel Camillo Lasagna detto Bebi poiché era biondo, bello, di fanciullesco volto e gentile aspetto che smentivano spropositati bicipiti, nodosissime spalle e petto profondo, torace che due uomini a stento avrebbero abbracciato, e da solo aveva malmenato due pulotti che volevano contestare il suo legittimo diritto di sovrintendere a due giovanissime quanto redditizie bagasce, che adesso convocava di frequente nei dormitoi della foresteria, e volentieri condivideva, e gratuitamente, con i suoi lussurriosi compagni. Ed era stato battezzato con il Rossese che è morbido, aromatico, caldo e con ricordo di rosa e di viola.

Terzo veniva Sirio, progenie di Eliseo Pastorino sceso al mare dai monti dove viveva remoto tra capre e pecore, suo unico figlio diletto, e non ne aveva altri che gli portassero aiuto nella vecchiaia, pure lo mandò a imparare il mestiere di carpentiere navale. E impetuosamente Sirio crebbe, abilissimo nel sapere le tempeste di vento, e in quale momento affidare i vascelli al mare invincibile, e soddisfece al solo vederlo le speranze dell’ardito capitano, poiché era un cristianone di statura marcomanna e con il solo mignolo alzava una trave degli scivoli onde si varano le grandi navi di ferro, e quale un toro selvaggio dagli enormi coglioni era mite che un fanciullo lo avrebbe condotto al pascolo traendovelo per l’anello al naso. Ed era infatti un buontempone che a Carnevale, nei festini di lor portuali, amava travestirsi da donna con un parruccone boccoloso e scarpe a tacchetto bastanti a far da culla a un grasso infante, e per questo era detto Ecchione, e lo tollerava, non però con l’aggiunta di Or perché allora esplodeva la sua ira in quegli improvvisi, silenti ma orribili cazzottoni con cui aveva accoppato, per scommessa, un bue di quelli che pascolano, bradi e maestosi, nelle fertili vallate preappenniniche. E a mutarne il nome e a consolidarne la fama era stato un intero bottiglione di Russu du Pepu, rubino chiaro, vinoso, gradevole, fruttato, suggerito come vino da tutto pasto, degno viatico di chi è buono ma suscettibile di tanniniche furie. Fu dunque detto Fissilide perché una coltellata casualmente menata nella concitazione di una rissa gli aveva diviso un ciglio.

Subito era accorso il lunghicrinito Augusto Repetto, bagnino di amplissime proporzioni, che cento e un imprudente aveva salvato tra quanti si fossero tuffati con lo stomaco gonfio di ghiotto cibo e ingannevoli bevande. Gli aveva dato vita Menezio, panettiere nella bella Recco, patria della focaccia col formaggio; e di quattro figli, dei quali due femmine che lo adoravano ed erano dedite alle pie opere, era quello che maggiormente si era distinto per la violenta religiosità, tale che, se qualcuno in sua presenza bestemmiava, gli si accendevano gli occhi di fosca ira, e i lunghi capelli gli si attortigliavano alla fronte corrusca e alla bocca muggente, e nessuno osava spingersi al di là di porco diavolo, merdoso Satana, Belzebù bulicio e altre ingenue intemperanze verbali. Lo si era sempre visto alle solenni processioni, segnatamente quelle della Madonna d’agosto, a incedere, altissimo, e lo si sarebbe detto biondamente luminoso, reggente da solo, su spalle-impalcature, la bella icona della Vergine. Scelse il capitano, a battezzarlo con il nome di Gesù, e il giovanottone assai se ne compiacque, il mite Sciacchetrà Dolce delle Cinque Terre, giallo ambrato gradevolmente profumato, indicato a fine pasto con il dessert.

E venne Maometto, che la fama diceva fortuito figlio della felice Arabia. Cosa che però non era, il nerobarbuto e capelluto Nerino di carnagione scura e occhi azzurri come laghetti lapponi, orgoglioso di essere sospeso tra due apparenze —ma quanti non lo sono (almeno due)? Giunse, lui degno figlio di un Poseidone, su un minuscolo battello a vela, velocissimo nella tempesta che imperversava, e dalla scogliera sotto lo sperone roccioso, immune ai frangenti, lui che correva anche sopra le onde azzurre del mare bagnando appena la punta dei rapidi piedi, il più veloce di tutti, pescatore esperto a trarre alla luce dai negri abissi le amate prede, uomo-cetaceo trovato sui gradini di una chiesa, probabilmente figlio di una qualche madre e di numerosi padri, di cui si gloriava pur non conoscendoli, ma che diceva tutti degni di altissima lode, ed era stato battezzato, dal buon sacerdote don Canessa che lo aveva accolto e allevato, con il fatidico nome di Nerino perché, infante ancora, rampollo di saraceni gli era apparso, e a nutricarlo era stato un altro Canessa, fratello dell’interprete dei divini misteri, e costui si era fatto un nome con le focacce alla cipolla che abbondantemente sfornava in quel di Camogli; e Nerino, espertissimo conoscitore qual era delle profondità marine, in esse calava mimetizzato da nero abitante dei pelaghi con tondi occhi artificiali e lunghe pinne, respirando itticamente sott’acqua e bolle emettendo da un impermeabile boccaglio, e subito intravedeva e riconosceva, all’istante, quei teleostei che hanno azzurro il dorso, argentei i fianchi, una macchia rossastra alla base dei pettorali e una semiluna dorata tra gli occhi, e ne mormorava bolleggiando il nome, orsù, diceva, sparus aurata, e quelli accorrevano al richiamo, pronti al sacrificio come alla voce di un marino Abramo, e delicatamente egli li afferrava e li portava in superficie dove assistere, pietoso e partecipe, alla loro asfittica agonia. Ed egli era ancora colui che rimestava il padellone della Sagra del Pesce in cui creature di minor pregio —le orate egli infatti destinandole agli iniziatici fedeli dell’ecclesia ittivora— friggevano a giubilo di indigeni e stranieri da lungi venuti, come tanti attratti da ogni festoso e gratuito convivio alla bella città rivierasca, lui in apparenza anonimo, con il cappello da cuoco a coprire la chioma color carbone, in verità celeberrimo e da tutti salutato. Con agilità da arboricolo primate ascese su per le precipite rupi, e tosto fu accolto, tosto plaudito, tosto battezzato Maometto con Moneglia Vermentino S, asciutto, morbido, con fine punta salata addicentesi a un ittuomo di tal fatta, particolarmente indicato infatti com’è per piatti di pesce.

Completata così la cinquina degli audaci in sottordine, si radunarono questi nella addobbata sala della foresteria, e allegramente cioncarono, levando i bicchieri alla fortunosa e tanto agognata e celebranda azione.

Innario

Ottimi cibi e buoni vini mettono musica nei cuori.

Spesso i componenti la ciurma intonavano canti a lode di se stessi e alla cara patriamamma, che mai si celebra abbastanza per il latte di cui ti è prodiga. Erano sostanzialmente cattolici, tant’è che uno dei loro cori rispondeva a noti stilemi parrocchiali.

Diceva infatti:

Chi u-piggia cua buttigia

E chi cu u-buttigiùn (due volte)

Pe dà da beve ai previ

Pe dà de quelu bun (da tre a quattro volte)

Che parafrasato in italiano suonerebbe:

[C’è] chi dà mano alla bottiglia/e chi invece al bottiglione/Per dar da bere ai preti/Per dar [loro] di quello buono (serafico-birichino).

Un altro inno celebrava la loro virilità, dicendo:

Se ben che su piccin

Ghe l’ho cume me pué (due volte)

U pa’ ûn palu telegraficu (da due a sei volte)

Con tûtti i fii ataché (tuonando)

Che viene a dire: Ancorché [io] sia [ancora] piccino/ce l’ho [già] come il mio pa’/[al punto che] pare un palo telegrafico/con tutti i fili attaccati.

Non mancava neppure una celebrante deprecazione della leggerezza delle donne, dedite troppo spesso ad amori facili, con le inevitabili conseguenze quanto a dimensioni perineali. La si slabbra, in altre parole, laddove le caste ce l’hanno strettissima a tutto vantaggio dell’amante che se la gode intatta. Concetti, questi, esemplarmente riassunti nel breve spazio di un’unica strofa, ricca di sottintesi, accompagnata come doveva essere da gesti eloquenti, quali allusivi accostamenti di pollici e indici, a indicare, denunciandole, le dimensioni eccessive frutto dei suddetti riprovevoli abusi. Eccola dunque:

Se ben che sun piccinna

Ghe l’ho cumme me mué (due volte)

A pa’ na barca a veja (da sei a otto volte)

Con tutti i se mainé (strombazzante)

Si noti la precocità della scuola del vizio alla quale opportunamente allude il testo. Piccina ancora, e già… I puristi noteranno, non c’è da dubitarne, puntigliosi qual sono, che certi sostantivo sono usati impropriamente: exempli gratia, quel mué, per mamà o mooe, mamma, madre, con l’avvertenza che mamma designa più specificamente la balia, donna che, salariata, allatta i figliuoli altrui, e dà a mamma vale appunto dare a balia, dare ad allattare i bambini a estranee che non di rado suscitano accaniti affetti nei pargoli sedotti dalle appendici lattifere. Ma noi scuseremo le improprietà inevitabili in uomini di spontanea improvvisazione (ancorché sia convinzione diffusa che il dialetto non lo si sbaglia mai. Sarà); e parafrasiamo, complici: Ancorché [io] sia piccina/ce l’ho [già] come [la] mia mammina/Essa (e ben comprendiamo il riferimento) la mi pare una barca a vela con tutti i suoi marinai. Se ne deduce che, slabbrata dal troppo uso, la si paragona a un veliero da diporto, probabilmente un maxiyacht da regata oceanica, con un equipaggio plurimo [la dizione esatta sarebbe mainâ, ma scadrebbe la rima che è palesemente importantissima e comunque bastante a designare la mainaja, l’insieme di tutti i marinari che si accontentano della vasta sibbla, cioè bersaglio al quale è attratto, da viaggio cristiano reduce, il favoloso marinaio, il quale aspira, è chiaro, alla rinascita definitiva, il giorno del Giudizio salvifico. Ma, che è che non è, alato un porto provvisoriamente paradisiaco lo accoglie, da lui pur visto come attraverso gli occhi di vendicativi, tentatori albatri, e il mondo terrestre gli appare allora tutto quanto a forma di triangolo con il vertice secato. E lui, che tanto brama di ricongiungersi con la cara sposa, la casta möggê, magari è assillato da una piccola spina nel cuore perché chi ha bella möggê, a no è tûtta a sé, con il timore cioè che, nell’attesa, costei abbia pensato bene di levàse a muffa da-o cheu, e dunque ben le sta se lui, il marinaro, cede al peccato della carne, facendo muggiu con la prima che capita, ostia!

Ma la canorità toccava l’apice nel celeberrimo:

O Ninina, Ninina, Ninera (due volte)

Sabu a Camugi dumenega a Zena (due-quattro volte),

O Ninina, Ninina, Ninà (due volte)

Sabu a Camugi dumenega a Prà (una decina di volte)

Palese, qui, l’accenno ad amabili località costiere o a rioni, non sempre immacolati, della Superba dove darsi bel tempo allo sbarco. Il bel gabbiere, l’audace baleniere, ama la taverna, il vino, il rum, il punch, la grappa, il centerbe, le belle figliuole, nottole da vicoli. Eccone una versione il più fedele possibile, con l’avvertenza che il traduttore è di necessità un pochino traditore: O Ninina, Ninina, Ninera [in certe versioni anche Nineja, e le son pur sempre donne di agevoli costumi]/Sabato [sarò] a Camogli, domenica a Genova./O Ninina, Ninina, Ninà/Sabato [sarò] a Camogli [e] domenica a Prà.

Codeste gare canore avevano ovvi risvolti, come indici puntati contro il dirimpettaio (vediamoli infatti seduti a un tavolone, a berciare a perdifiato, e il dito a sottintendere che la mamma di costui è discutibile, alla luce della nota argomentazione «tutte troie salvo mia mamma». Cosa che, come vedremo, poteva rovesciarsi in spiacevoli equivoci.)

Ogni guerra è di religione.

Se ne uscì infatti Maometto (ormai converrà chiamare i destinati dell’equipaggio con i loro nomi di ribattesimo) a dire che le mamme dei cattolici sono tutte —beh, ehm, lasciemmu perde.

Come sarebbe a dire? insorse Gesù a quelle profanazioni.

Ovvio, ribatté Maometto. La Vergine Maria, è noto, l’aveva data all’angelo e chissà a quanti altri.

Come sarebbe a dire? insorse Gesù.

Porcamadonna sciattellô Maometto (in uno slancio di impersonazione: era o non era musulmano?) lo sanno tutti che i cristiani hanno tante divinità. Altro che monoteisti, insomma.

Come sarebbe a dire? insorse Gesù.

Porcamadonna, ribatté Maometto. Hanno la porcamadonna, i santi, gli angeli variamente accasermati, e arcangeli, e cherubini, e serafini, e il padre putativo, becco contento, sì o no? E le Maddalene, e questo e quello.

Alsati in pè, buliciu!, lo sfidò prontamente Gesù.

Buliciu a mi, oëggiôn, merdaieu, rincarò Maometto.

Un attimo, ed eccoli uno di fronte all’altro, impegnati in una badaluffa, una sciarrata di patascioni, peamaose da ciuccöni, una ciassata cui diedero inizio con la prepotensa dei ciantamalanni e cassottoni, adesso te lo meno mi, adesso tocca a mi, beccati questo, loffön, telegrafava l’uno, e tu codesto, meza cascetta, telefonava imbözzonôn l’altro, e giù scigilli che era un mäpru, e gli altri 3, facendo ballettante rionda che finiva per costituire esatto ring, ad arbitrare la fosca contesa, col costatare che erano subito cavallerescamente passati a coadjuvâsse con calci e caviggetti, e plaudendo a ogni colpo segùo, e c’era chi si preoccupava di raccattare denti come souvenir. Da manuale la gommiâ sferrata da Gesù al naso dell’eretico seguace del demonico Macometto, e allàh, battuso, öchin, ribatté questi, e con cacciâ di ûrli e nobile sangue a profusione, slausô una sleppa da tramortire l’eroe neotestamentario se qualche santo ö n’aggiûttiä. Madornale fu la pennellà, un colpo di boma da sbattere un uomo in mare, aggiustato prontamente dal miracolato dopo essersi spûà in te moeu. Dovette, è vero, registrare una manganâ de meistru, un spropoxitu al quale tuttavia reagì dichiarandolo un piggiamösche ed eseguendo uno swing di zucchetti da spaccare l’ostile mascella posto che fosse de veddro, ciò che non era, ma anzi de ferroû. Un’erûziön quella che rimediò in risposta, e rossa lava sgorgò dalla bocca sfasciata del mite figliol di dio, e restò egli a traballà una frazione di secondo ma, subito ripresosi con l’accenno a un segno di croce, si accinse a lavâ a testa all’aze beccandola con una ciattönâ da farlo inveggià di dieci anni e vedde nero. Ma non per questo andò in rovina il coranista, non fu la sua un’égira, anzi replicò con un ferruggià da fare invidia a un magnano, e restò il santo quasi crocifisso, ma a questo punto i due campioni potevano dirsi knokoutati a vicenda, e infatti restarono come a zuvo, entrambi stringendo fermamente l’uno le palle dell’altro, in stato di coggionatûa, sussurrandosi a vicenda sprezzature come lûganeghin, tartarûga, pin (di lividi), gösciön da rie, goffo, lenguetta (che sta per buono solo a parlare), leitûga (insalata cioè di poco pregio), controbattuto da un leitûghetta ä françeize (come a dire: costole grosse e foglie che san di niente), e si scambiarono ancora qualche stanco mönâ, che sarebbero colpi di mattoni, più che altro però motti pungenti, per poi crollare entrambi con spento barböggio: «T’è raxön, duveiva ammassâ-te».

 

Di legni leggeri

Non più morula, né più gastrula, e già accennate la testa e la notocorda, ed è risaputo che l’embrione in questa fase è come avvolto su se stesso, a forma di una “C” ed è visibile una coda. E il proencefalo si ingrossa, già sono visibili gli occhi e si formano la bocca, il naso e gli orecchi. Gli arti si sviluppano, partendo da minuscoli abbozzi iniziali. Ecco, la testa ha lineamenti più umani, è più eretta e la coda è scomparsa. Appaiono le articolazioni.

Come l’embrione, così, obbedendo internamente ai geni della genialità, esternamente a fattori quali la buona alimentazione senza che fosse necessario l’ausilio di terapeuti o farmaci, andò delineandosi su bella carta bianca la forma del vascello spaziale. Ed era un’immagine di perfezione, vedere come l’uno elemento si svolgesse dall’altro. Dapprima uno sgorbietto, poco più di una peretta, a un’estremità della quale si delineò un rigonfiamento, un accenno, ma si capiva che sarebbe stato il capo. Lì avrebbero avuto sede gli organi della vista, dell’udito, dell’odorato e del gusto, come dire che la materia pensante e decidente lì avrebbe avuto agio di manifestarsi. Due sedi vi erano previste, due posti destinati a Geppino («lobo» di sinistra, intuizione, immediata comprensione della parola, linguaggio e numerazione) e l’anfitrione («lobo» destro, rapporti spaziali, razionalità di grado elevato, risposte emotive, riconoscimento dei colori, soprattutto il rosa). Andavano intanto delineandosi, subito dietro il proencefalo (che encefalo sarebbe diventato con l’insediamento dei due «lobi» e l’addio alle terrene bassure) due espansioni, abbozzo degli arti anteriori, destinati ad accogliere Gesù a destra e Maometto a sinistra (o viceversa: inutile infatti dire che entrambi contestarono codesta collocazione, entrambi presumendosi legittimi rappresentanti del divino, alla destra del quale avrebbero dovuto dunque sedere). A tagliare il nodo gordiano fu il «lobo» destro, razionalità e rapporti spaziali, cioè l’anfitrione-capitano, col decidere che si sarebbero dati il cambio, quali lunari satelliti, nel corso delle 12 settimane, ché tanto sarebbe durato il gran volo verso la Meta.

Tra i due, leggermente arretrato, l’abbozzo del cordone ombelicale —chiamiamolo così per ragioni di semplice topografia anatomica— e qui si sarebbe insediato l’impavido Titaresio, l’esperto conoscitore delle vie del cielo, e sarebbe stato bendato perché, privato della vista che troppo facilmente si lascia sedurre da fenomeni contingenti, avrebbe indicato con parole e gesti la rotta, scegliendola con la vista interiore che è propria dei ciechi veggenti. Cera gli avrebbe tappato le orecchie, corde lo avrebbero avvinto impedendogli di obbedire, suo malgrado, alle istanze delle mille sirene che sfrecciano, cantando e sibilando, qua e là per i cieli.

Due altre escrescenze, futuri membri posteriori, alludevano ai posti riservati ai prodi Ificlo e Fissilide, pronti alle gravose fatiche come calarsi per la botola posta sul pavimento del vascello, diciamo nello stomaco e nelle anse intestinali di esso, dove prelevare i viveri precotti e variamente inscatolati e le bevande, tutte in recipienti a sicura tenuta, destinati al sostentamento dell’equipaggio. I posti loro riservati sarebbero stati nei due segmenti terminali dell’ancora embrione, che Geppino prevedeva formanti i due lobi di una coda, poiché il vascello avrebbe avuto insieme dell’uccello e del pesce, essendo che lo spazio interstellare, come gli aveva insegnato il sacerdote Nyankhpepy detto il Nero, dal quale tanto aveva appreso, è composto di strati liquidi alternati a gassosi. Ma niente paura: per attraversare i primi, data l’enorme velocità del vascello, imparagonabile con quella della luce —non dandosi possibile confronto tra cose materiali e immaterialità della Conoscenza Vera— sarebbe bastato trattenere per pochi istanti il fiato.

Due particolari sarà ancora opportuno aggiungere. Il vascello, come risulta dagli allegati schizzi (fig. 1), sarebbe rimasto impruato sul promontorio del giardino, la parte anteriore sospesa sul vuoto; a sorreggerlo, robusti pilastri lignei. In attesa dell’ora suprema. In secondo luogo, nessun chiodo o vite nella struttura: la Buca Rosa, precisò l’anfitrione, avrebbe ripugnato vili metalli. E dunque, come negli antichi navigli, quelli delle origini buone per definizione, solo innesti a coda di rondine: mortase e tenoni, in altre parole. Ci fu, è vero, chi sollevò obiezioni: avrebbe retto, la leggera struttura di balsa e di legno ricavato da cassette di frutta (umile doveva essere, e facile ad accendersi una volta lassù —ma di fiamme non urticanti, sia chiaro): insomma, avrebbe retto, chiedevano i dubbiosi (ed erano, diciamolo, i fedeli ma pavidi domestici dell’anfitrione) alla spinta iniziale, anzi al tiraggio della Buca Rosa? Rise Geppino, sorrise il capitano, e l’incidente fu liquidato.

Io sto bene, e voi?

Sto tracciando un frego su quanto sono andato fin qui esponendo, so benissimo che a nulla servirà, sto bocciando me stesso, facile operazione dal momento che un me stesso non c’è, ho calpestato a lungo le strade di vecchi tedi, selciati di città natali o asilari, tutte demenziali, il mio nome non importa, potrebbe essere questo o quello, arrivano notizie, tutte credibili nel senso che credere vuol dire prestare fede, mettersi in mano a un usuraio, il cravattaro sta in via del Torchio, al numero 7, cifra come tutti sanno fatidica, lui ha un nome, Passaparola, mi sembra, è un vecchietto, peserà 32 chili, Bourema Ogbara è suo figlio, Castagnaro è suo padre, stava al Cairo, così dice, il suo codice fiscale è PBOC 908 SER 00 NT777E, non so se sia esatto, ricordo male, parlo troppe lingue, tutte con accenti imprecisi, a lungo ho dormito con EL, lo chiamo (o forse la chiamo) così per intenderci, è pieno (o forse piena) di energia, ha un colore variabile dal violaciocca al rossotramonto, imita il fischio del merlo e il grido della civetta, questo di notte, quassù dove sto adesso si sentono bene, dormo poco, anche perché arrivano notizie nei momenti più impensati, bisogna stare sempre in ascolto, la cosa migliore sarebbe non bisticciare, ma questo è impossibile, pare che Gesù volesse portare con sé una bambola gonfiabile, ma gli dicevano guarda che scoppia, lassù non c’è aria, e lui ma che balle, sta di fatto che volevano non dico linciarlo ma insomma poco meno, ha una valvola, protestava, a tenuta stagna, la sgonfio e la rigonfio a volontà come fanno i zeppelinisti, per partire occorre compiere una serie di riti, questa me l’ha raccontata Johannes, ha cambiato nome, non vuole più farsi chiamare Giovanni, dopo quello che ho passato, dice, anche lui è amico di Shock, ci dorme assieme, tutti viviamo in compagnia della morte, sostiene adesso, pare che uno dei rituali consistesse nel restare sospeso a mezz’aria, cosa facilissima del resto, ho camminato sulle acque, sosteneva Gesù, io dico che a me EL mi ha riconosciuto subito, è stata lei (o forse lui) a propormelo, ci conosciamo da tanto tempo, ha sostenuto, gli/le credo, non so se è una lei o un lui, ma poco importa, l’importante è non farsi del male, non uccidere né uccidersi, è lei/lui che parla, è molto saggia/o quando prende il colore rossotramonto, ma forse è aurora, ti chiami per caso Aurora, le/gli ho chiesto, Aurelio o Aurelia, non so, ha risposto lui/lei, sono cose che succedono, ma non di colpo, ci vuole tempo, si trascolora a poco a poco, gran bel fenomeno; insomma adesso sto in questa torre e arrivano le notizie, pare che Maometto abbia detto che anche lui, anzi che è già salito in cielo una volta, in groppa a una cavalla, uscendo da una grotta dove stava a Betlemme, se ho ben capito, e uscendo dalla grotta ha sfondato il cielo, dev’essere il soffitto della grotta, se ho ben capito, ha aperto un buco con una testata e si è portato dietro un pezzo di roccia rotonda che gli è rimasto in cima alla zucca, così ha inventato il turbante, ma non l’ha brevettato, è stato un errore da parte sua, perché ha voluto fare tutto da solo, ma avrebbe dovuto aspettare l’ordine del signor Capitano, dove stava lui c’era un deserto, adesso non c’è più, pieno di serpenti tutti cristiani, sapevano mordere, eccome, ma lui se ne fotteva, e la cavalla, gli hanno chiesto, l’ha venduta ai tuareg per tirare la slitta, sta di fatto che Gesù si è messo a camminare nell’aria, e pare che abbiano trovato il cadavere negli scogli, i granchi gli avevano mangiato gli occhi, ne sono ghiotti, e Maometto ha voluto fare il furbo, e giù anche lui, però non l’hanno trovato, pare che adesso viva in Cappadocia dove scrive la seconda edizione del suo libro di memorie, mi piacerebbe leggerla, ho letto la prima edizione ma non ci ho capito molto, l’ho prestata a Johannes che è più sveglio di me, lui sta in basso, dove si vedono meglio le cose, ha imparato a pregare, dice per esempio, non stupirti, anche se facessi balenare dei segni a coloro che hanno ricevuto la scrittura, e io rispondo, non gireranno il volto da quella parte, adesso è inverno, i serpenti sono andati in letargo e se si piscia all’aperto il getto si gela a mezz’aria e assume le tinte fredde dell’alba, questo lo si fa al mattino presto, e la gente magari ride ma si fregano le mani per riscaldarle, non è un momento felice, EL cerca di riscaldarmi dandomi piccole scosse, EL partecipa ogni tanto alle riunioni tra gli animali che stanno raccolti in cerchio e tentano di creare il mondo, per questo stanno in circolo che è rotondo, sto barrando le ultime pagine, anzi no, ci faccio delle grandi strisce con diversi evidenziatori, in modo che se qualcuno le ritrova sappia rimetterle in ordine, un po’ come vuole lui/lei, ormai quest’anno compio gli anni, quei due erano due scemi, ve lo immaginate, finire in Cappadocia o mangiati dai granchi, solo gli occhi, è vero, e può darsi che tutto il resto gli sia rimasto, certo che la Cappadocia è forse peggio, pare che vivano dentro pinnacoli di roccia in cui bisogna scavarsi un alloggio, i più benestanti anche cinque, sei locali doppi servizi, Johannes dice, oh, non avranno l’ascensore, e io dico il giorno in cui il cielo sarà metallo fuso, e lui quando, quando?, perché è curioso, ma io non gli do corda, perché so che posso sempre sostituirle con altre battute, basta che imbocchi un altro sentiero del tedio, e piegherò la testa piena di presunzione, perché non so quale debba essere il mio nome, e poi non capisco perché dovrei averne uno, insomma. Non resta che la fuga.

 

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