Eau d’emphatie – di Mariangela Venezia

La prima volta che lo vidi indossava una fragranza al gelsomino, con una punta di zafferano e due pistilli di giglio striato. Fu lui che me lo disse, quando mi strinse la mano.

«I tuoi occhi profumano di ciliegia», aggiunse, «me ne ricorderò la prossima volta che ci vediamo».

Milano- Il lusso

I suoi capelli, di un rosso irlandese, odoravano di mandarino.

«In autunno sanno di mandarino», mi spiegò gentilmente lui, «di albicocca d’estate, di fragola selvatica in primavera, e di neve appena caduta in inverno. Eh, quella è un’essenza difficilissima da trovare in giro, devo farmela arrivare da un ghiacciaio dell’Islanda, ma non posso assolutamente avere i capelli che profumano di qualcos’altro, in inverno, sarei assolutamente fuori tema con il Natale e con la settimana bianca».

Lo osservai con attenzione. Indossava una maglietta di strass rossi e blu, un paio di jeans all’ultima moda, vari anelli luccicanti alle dita e un borsalino nero in testa. Ma c’era qualcosa di strano, in lui, nella penombra del locale affollato non riuscivo a capire cosa, quando si girò verso il bancone, per chiedere un altro mohito che profumasse tremendamente di menta, capii. Era bidimensionale. Non aveva la profondità, era una specie di cartonato pubblicitario, un essere umano in ogni parte del corpo, con una bella voce profonda, ma sagomato. Come se un rullo compressore gli avesse piallato tutto, dalla pancia, al naso, alle orecchie. Eppure si muoveva, camminava, come qualsiasi altro nella sala, solo che, quando era di profilo la terza dimensione era del tutto assente.

«Come fai a trovare i vestiti?»Gli chiesi.  E lui, «non è cosi difficile, li compro in qualsiasi negozio e poi li passo sotto una schiacciasassi, infine me li attacco addosso con una colla speciale, di quelle che usano i bambini per fare le forme con la carta. Ogni giorno me li stacco e me li riattacco a mio piacimento, e quando li lavo, e tornano ad avere spessore, li ripasso sotto lo schiacciasassi e cosi via. Aspetta, avvicinati, ecco, adesso le tue unghie profumano di nuvole cariche di pioggia», disse, e se l’annotò su un taccuino.

Pensai di aver incontrato un tipo davvero strano quella sera, mi aveva raccontato di essere un duca, di vivere in un maniero e di essere parente di facoltosi banchieri. Si regalava da solo i costosi anelli che indossava, perché era fidanzato con se stesso, mi aveva detto, anzi, con il disegno di se stesso, e quel disegno, come una delle cartine bianche che si trovano in profumeria, doveva essere sempre profumato, ma non di un profumo qualsiasi. L’uomo-sagoma assorbiva i profumi degli altri, li sentiva, a volte come un pugno nello stomaco, altre volte come un leggero venticello, altre ancora come un aroma appena percettibile.

«Non tutte le persone sanno di qualcosa», mi aveva detto la seconda volta che ci eravamo visti, e profumava leggermente di ciliegia. «Ci sono persone che profumano di poco, altre che coprono con essenze costosissime un odore di se stessi che non gli piace, altre ancora che sanno di buono senza essersi spruzzate nulla addosso. Ci sono persone che odorano di nostalgia di posti lontani, altre che cambiano profumo continuamente e mi devo adeguare di volta in volta. Tu, per esempio, oggi profumi di legna appena tagliata e di mora, e io che pensavo di farti un bel regalo con la mia fragranza alla ciliegia. Tu sei una che cambia continuamente odore, eh, un caso interessante».

Sempre quella sera mi aveva raccontato di essere un fervente cattolico, di umili origini e che faceva il magazziniere in un negozio di elettrodomestici.

Passai i giorni seguenti ad annusarmi e a cercare di distinguere le singole fragranze ma non riuscivo a capire niente delle parole di quell’uomo, secondo lui l’odore non dipendeva né dallo shampoo che usavi né da quello che avevi mangiato né dal fatto che ti fossi lavato.

«Non esiste la puzza», mi aveva detto. «Tutte le cose del mondo odorano. E’ per questo che i mastri profumieri compongono le essenze più pregiata mescolando i profumi delle piante, della gente, delle terre, dell’aria».

L’ultima volta che lo vidi mi portò in un campo di papaveri.

Mi disse «vieni, donna che profuma di sale marino e di coccinelle, oggi sono una drag queen, lavoro nei locali più alla moda della città, di notte, e di giorno faccio il barbiere. Mi sono messo il profumo dell’acqua di colonia e del phon caldissimo e una goccia di profumo di smalto rosso e di reggicalze coi merletti. Mi fidanzo ogni volta con un personaggio diverso, varco tutte le soglie dell’odore, fino ad arrivare alla soglia di fuga. Quando la metafisica del mio profumo diventa così insopportabile che nessun altro odore riesce a affievolirlo, cosi intenso da essere doloroso, nauseabondo, fuggo dalla soglia di fuga, per cominciare daccapo, altrove».

«Spiegami, per favore», gli chiesi piena di curiosità, «perché sei bidimensionale?»

«Perché mi sono spremuto, come un’arancia, per estrarre da me stesso il mio odore, per eliminarlo del tutto. Altrimenti interferisce con quello degli altri, altrimenti inizio a sentire troppo, altrimenti non riesco a capire la nota di fondo, l’elemento persistente che emana la vita, mi fermo alla nota di testa, che è passeggera, o al massimo alla nota di cuore, più autentica, ma che scompare comunque dopo poche ore».

«Perché siamo qui, in questo campo di papaveri?»

«Perché non sapere di niente è triste.

Perché sono la maschera del mio smascheramento.

Perché quest’oggi il cielo odora di vento e non c’è nulla a cui possa aggrapparmi in un campo di papaveri. Perché il rosso riflette la mia assenza.

Sono troppo vuoto senza l’ingombro del mio sentire.

Il profumo è un lusso mia cara.»

E volò via.