Do i numeri del lusso – di Olga Orlandi

Ozmo

Demonio di un lusso dammi pace! Tarlo lussuoso finisci di trapanarmi. Intrico lussureggiante smetti d’infestarmi.

Da quando penso al lusso, le mie meningi sono surriscaldate, non c’è più ordine nel mio pensiero.

Mi addormento annaspando tra i dobloni e mi sveglio scacciando grosse falene con ali di dollari.

Mentre corro, con i gomiti stretti al corpo, sbuffando nel passamontagna, il passo monotono, molleggiato, diventa il sottofondo dell’anti-mantra: lus-so-lus-so-lus-so-lus…

L’analista mi accompagna indietro nell’infanzia, ma io non sono mai stata bambina, voglio solo chiedergli: dottore, cos’è il lusso?

La domanda sul lusso prende il posto del grasso sulle cosce: diventa il chiodo fisso del pensiero-femmina. Il desiderio si spegne inibito dalla domanda “cosa è il lusso?”.

Trovare esempi pratici è facile, ma dopo aver fatto l’elenco delle ostentazioni più comuni, dei privilegi regali, de gli sfarzi sceicchi, la ricerca diventa un brancicare disperato: l’elenco delle cose possedibili si allunga all’infinito, smisurato si fa il numero delle superdotazioni.

Quando ci sono quasi, quando posso immaginare il nababbo archetipo… un’inezia comica lo immiserisce: un neo, una storta alla caviglia, una tazza sbeccata. Quindi mi si presenta un nuovo collezionista che si è appena comprato un Damien Hirst, anzi che si è comprato Damien Hirst, e il primato si polverizza. E ricomincia a friggermi il cervello.

Sono matta. Sono disperata. Studio sette anni. Non voglio il lusso, voglio solo definirlo. Devo tradurlo. Ho bisogno di trovare una formula.

E succede una cosa minima. Uno schiocco conferma l’udito, la pupilla è bucata da un led, un pixel da profondità ad una visione abbacinante. Una curva dolcissima gonfia la linea dello schermo piatto: rivive la mia intelligenza. Ho di nuovo coscienza di me.

Sono in cima a una montagna di roba, roba di ogni genere. Sono in cima a tutti gli oggetti del mondo. E comincio a levarmi di sotto il culo un cuscino. Un paio di occhiali rotti, un ananasso. Scaccio un levriero, libero due cocorite. Mi tolgo duemila vestiti.

Prendo una pala e scavo tra la roba, prendo a spallate porte e infissi.

Svuoto scatole, rovescio bauli, svito barattoli.

Tolgo, sgombro, sposto, butto tutto di sotto.

Soffio tutte le polveri.

Scaccio tutti gli insetti volanti e i gli scarabei portafortuna.

Smonto tutte le costruzioni, svito le viti, sbriglio le corde e slego le briglie. Tutti i fabbricati crollano e i pony si mettono in fuga.

Comincio a scendere: posso di nuovo utilizzare il sistema metrico, sono sempre più prossima al livello del mare.

Metto un piede a terra. Sono in un posto qualunque. Mi do una ravviata ai capelli, li sbroglio dall’ultimo nastro. E non ho più roba da smistare.

La collezione più grande di sempre è distribuita con giustezza. Ogni oggetto torna nello spazio originale.

Tutto è pronto per una nuova corsa all’oro. Ma io sono a posto. Non mi posiziono, non riscaldo i muscoli, non schiarisco la voce,  non conto gli spiccioli, non accarezzo la rivoltella.

Da oggi m’impegnerò per non sprecare il tempo.

Il tempo.

Il tempo.

Il tempo.

E se il lusso fosse il tempo? Se fosse la matematica delle ore? L’economia dei minuti? La sintesi de gli attimi?

Lo è! Il tempo è il lusso.

Allora sono finita. Di nuovo.

E ora devo contare.

 
 

 
 
 
Olga Orlandi è nata a Milano nel 1982; oggi pedala fino in città dall’hinterland-est, via Martesana. Se non ha da fare a Milano, scarpina per le prealpi con l’Alfred e il cane Ciubecca. Quando si può, anche più in là.
Dopo il lavoro, ma anche prima, pratica la corsa e la radio.
Il giornalismo è la sua occupazione free lance. L’argomento alimentare è la sua specialità e la sua dannazione professionale.
Per questo, nutrizione esclusa, in ULTRAFILOSOFIA vuole mettere quello che è, che le sembra di sapere, che le va di fare.
©Olga Orlandi