Petros Efstathiadis / Survival kit. The Greek Swan is black – di Fabio Carnaghi

 
 
Ordigni semiotici homemade pronti ad innescare reazioni in epoca di default hanno la forza iconica della visionarietà. Autarchia e autonomia, non più solo trascorse aspirazioni della polis degli Ateniesi, tornano ad essere prerogative attuali contro il mitologico Black Swan.
Petros Efstathiadis crea una nuova poetica bucolica in cui entra in gioco ogni forma di estetica, dal retaggio classico che non dispensa più miti per costruire epopee, alla continuità iconografica di un passato eretto a monumento in quanto memoria. La tabula rasa diventa il punto di partenza per un’estetica in opponendo che procede da un grado zero preletterario fino ad uno sdoppiamento del reale, ripensato attraverso tutto ciò che la cultura contemporanea considera desueto e inutilizzabile. Le scorie dell’immaginario collettivo sono protagoniste dello straniamento dalla realtà, riciclandosi in survival kit nell’atmosfera instabile di una rivoluzione copernicana. Ed ecco spalancarsi nuovi varchi, buchi neri nella percezione consueta.
La marginalità di spazi provinciali diventa il set di un’improvvisazione strutturata che determina un nuovo modo di intendere ed elaborare. La composizione, l’incastro, la giustapposizione creano rocaille col fascino di objets trouvés, di architetture low-cost, di design sostenibile, di scenografie eclettiche. La sostenibilità e la raggiungibilità svelano microcosmi, espressione di autonomia e autarchia, risposta sagace e sarcastica ad un sistema ipertecnologico globale. Palinsesti si compongono come acroliti attraverso un processo di rappresentazione di una dimensione parallela, riscritta con lo stesso estro creativo di una cultura arcaica che dà forma ed immagine a una mitologia nell’oralità di un repertorio prescrittorio, come accadde per la resa in immagine di sfingi, centauri e sirene, composti antropozoologici. La creatività di una riscrittura immaginata genera l’arte empirica dell’ibrido che cita un ready-made alla greca, in cui tutto si contamina con la contemporaneità di piani di austerità, di incontrollabili tassi di disoccupazione, di tagli alla spesa pubblica, di incremento delle tasse e di capacità di risparmio tendente allo zero.
Figure tratte dall’habitat provinciale, non più secondario nella geografia della sussistenza rispetto ad un’aspirazione urbana naufragata, posano davanti a un sipario di fortuna, rievocando iconografie del lifestyle suburbano: operai performer del surrealismo, l’immaginazione spaziale dell’infanzia, l’uniforme militare come possibilità appetibile di un riscatto, l’economia rurale di una buona raccolta e il disincanto dance di un sospirato sabato sera. Infrangere le convenzioni culturali attraverso un intervento artistico fuori regime significa abbattere l’omologazione di una virtualità inconsistente a favore di un’altra creatività, che si appella all’icasticità di significanti di prima mano.
Una sorta di neocinismo si associa a una pratica confutatoria nel rifiuto di ogni tabù estetico e di ogni conformità. L’invenzione selvaggia è approdo alla libertà di evadere e di riscrivere un idillio pressoché teocriteo in cui una creatività bizzarra ed anomala è necessaria prerogativa pastorale per far fronte al mutamento imprevisto servendosi dell’immediatamente disponibile.
In questo senso autenticamente elegiaco, sono rivisitazioni immaginifiche le costruzioni con materiale di risulta che alludono a case, ad improbabili macchine della fantasia, a luoghi della quotidianità rieditati nella divertita tecnologia del rinvenimento. Un mercato in cui sembra consuetudine il baratto, un abitacolo precario per telefonare, un bar per bere e dimenticare, spazi per la lettura illuminati e sale per conferenze per pochi uditori divengono topofili in un fantomatico villaggio non globale, in cui ogni coordinata temporale risulta non pervenuta. Un’auto da corsa e un’imbarcazione antidiluviana sono prototipi della tecnica compositiva di oggetti defunzionalizzati, mentre il Partenone è dissacrato nella sua aura monumentale e assunto a sarcastica rovina culturale in pieno campo.
L’atteggiamento giambico con i suoi inevitabili risvolti socio-politici e culturali sembra innato nel carattere invettivo e nell’estro pungente del mondo concettuale di Petros Efstathiadis: un cannone, residuato bellico da campagna napoleonica, trionfa minaccioso nella sua enfasi eroica, pronto a lanciare strali.
Allo stesso modo guerriglieri con armi creative mantengono l’anonimato per minare il sistema. Nasce così il quarto Ieros Lohos (Battaglione Sacro), dopo l’antica formazione di soldati scelti e valorosi a Tebe, il secondo nella guerra d’indipendenza greca contro i Turchi e il terzo durante la seconda guerra mondiale per contrastare il Terzo Reich in area egea. I tessuti coprono ogni fisionomia del volto con colori, pattern e fantasie a creare acroliti statuari in pose stanti, secondo la tradizione scultorea classica, garantendo l’assoluto anonimato. Una figura olimpica regge una fiaccola incendiaria, divenendo un’allegoria epocale. Le Bombe dell’omonima serie trovano la loro destinazione, con sagace disincanto, insieme ad armi più o meno improprie nell’organizzazione collettiva di una resistenza, in cui una falce, una spugna, una teiera possono diventare minacciose.
Il nuovo Lohos è pronto a superare l’ennesima fatica lasciata in sospeso da Eracle, per sfidare il terribile e subdolo Black Swan nella macchia di lande bucoliche, ormai sovrappopolate e così poco rassicuranti.

 
 
© Fabio Carnaghi