L’Altrove. Prolegomeni all’Economia, alla Finanza e al Cappellaio Matto- di Gabriella Landini

 
 

 
 


Itineranza, la libertà di fare altro, libertà del viaggio, di andare verso l’Altrove in cui mi trovo mentre parlo, quando la morte, a un passo dal destino in cui cammino, indica l’ignoto imperscrutabile a ogni pretesa immaginaria di definirne il locus di consolatoria appartenenza, che diviene vanità, l’illusoria vacuità dell’immagine, per definire il punto da cui parto e inizio il movimento verso una destinazione che è qui e simultaneamente altrove.

L’itinerante non ha luogo di appartenenza, l’errante non è uno stanziale possessore di luoghi, di lingue, di culture, di terre, di scongiuri contro la morte, di credenze che gli assicurino un’immortalità, sia questa raffigurata nell’idea del Paradiso o del definitivo Nirvana. Indefinibile l’Altrove è pretesto contingente di ciascuna vicenda, peripezia, dell’andare e del venire di ogni impresa, sia essa di caccia, di pesca o di raccolta, di viaggio, di veglia, di onirico sonno, per l’incognita imperscrutabile epica odissea.  Nel racconto di Alice nel Paese delle Meraviglie viene narrato il fantastico Altrove a noi concesso per  immaginario oblio nel cuneo del sogno, dal quale, tranne essere dediti all’oppiomania occorre prima o poi destarsi congedando il Cappellaio Matto.  Ventura dell’arte nella nostra cultura trovare il suo repentaglio oneiromorfo a latere del realismo economico finanziario che pretende di decretarne il valore, per imporre una misura di giudizio all’imponderabile della vita e al suo manifestarsi in forme sorprendenti.  Quel meraviglioso, peculiarità della poiesis che dell’Altro e dell’Altrove mostra la sua originaria imprescindibile, intollerabile e scandalosa intoglibilità, quel residuo che resta in noi dimentico, malgrado le guerre, la violenza e le peggiori nefandezze di umano storicistico, ragionevolissimo raziocinio.

L’Altrove si situa in  medias res, nel ritmo che non richiede rappresentazioni, luoghi olimpici ultraterreni: ctoniche discese, celesti ascese: al caos, al nulla, agli inferi, all’empireo, e niente deve a credenze mitologiche autoreferenziali di metafisica logica congruenza, obbedienti a un rituale di artificioso equilibrio che invoca temporalità soggiacenti al determinismo, il quale decreta reale la rottura del tempo, la frattura, la caducità, come se il ritmo fosse elemento estracorporeo, a-parola e iperdeterminato  epistemologicamente  oppure ontologicamente.

Nella cultura occidentale l’Altrove è diventato un luogo fantomatico, ma comunque  sempre fissabile e raggiungibile con dispiegamento di potenti forze di dominio, una meta identificabile, seppure talvolta ancora sconosciuta. La Morte che è Altra per eccellenza è stata declinata in un Altrove raggiungibile tramite il cogente–decesso-dipartita- dalla condizione terrena. Lasciato il corpo, il viaggio prosegue per luoghi e tempi altri a noi comunque decifrabili, definibili con cerimoniali aruspici e visionariamente descrivibili sotto dettatura, tanto che Altro non permanga enigmaticamente tale.  Genio fabulistico della nostra paura per l’estraneo e l’ignoto, rendere conoscibile per nessi causali di spazio-tempo l’invenzione narrativa, ritenuta verità realizzata con prove probanti sul vivere. Tutte le imprese degli esploratori sono state sorrette dal fantasma dell’Altrove come locus preciso, e questo vale anche per l’attuale e recente incursione globale dell’informatica che ha inaugurato la virtualità quale neo-ambito di un Altrove conquistabile e soggiogabile alle brame di acquisizioni meteo-geografiche.  Lo spiegamento trionfale di tecnologie telematiche ha semplicemente riattualizzato vecchie concezioni perfezionando i mezzi di potere e riducendo i costi delle scorrerie, ma non riducendo il numero dei morti per effetto  delle spoliazioni. L’Era Internet è una riedizione di concezioni che appartenevano anche a Sir Francis Drake. Così per confermare la tradizione e riprodurla, ogni nuova epoca inaugura luoghi extra territoriali, alieni, forestieri, stranieri, da combattere o piegare alla propria supremazia culturale, imprescindibilmente razzista, promuovendo saccheggi e stragi palesi, oppure celate, di ogni genere.  Ideologia idonea a favorire il riaffermarsi dell’idea della Terra Promessa, in cui l’apertura, l’alterità, si converte in fuga dal presente contingente, ritenuto luogo di sventura o dannazione. Fatalità necessaria, dunque, recarsi da un’altra parte, ivi trovarvi prosperità e pace, estromettendo i nativi e i migranti dalle loro regioni di transito.  Propaganda ideologica, questa, che condusse negli anni Quaranta del XX secolo gli ebrei, figli dell’erranza e della diaspora (l’altro proveniente da un perenne altrove per eccellenza non avendo patria), e gli zingari ai forni crematori.  L’Oltretomba è sempre stato il migliore dei mondi di salvazione. Un vero e proprio affare, ahinoi!, anziché di vita, di morte.

All’inizio tutte le esplorazioni geografiche o galattiche che siano, assecondano le ambizioni di compiere imprese notevoli e nobilitanti, di interesse e di natura economica rilevante e non da ultimo la curiosità rivelatoria del nuovo mai visto, elementi che si intrecciano  alle vicissitudini di quei personaggi che ne furono a vario titolo protagonisti principali e che promossero imprese prima impensabili e le compirono di persona, e questo vale  nel passato per  i navigatori come  Vasco de Gama, Cristoforo Colombo, Magellano, come pure vale oggi per gli artefici della navigazione internautica globalizzata, quali Bill Gates o Steve Jobs.

L’apertura verso orizzonti altri, è sempre stata fonte di ampliamento di cultura e opportunità di scambio, sia nell’ambito delle esperienze delle costumanze, come in quello della botanica e dell’etologia; ma nello scambio occorre vi sia una disposizione affinché qualcosa permanga ed altro venga perduto, e in passato le scoperte geografiche sconvolsero  solo parzialmente le nostre convenzioni culturali e le concezioni a lungo radicate. L’incontro- scontro con terre e paesi, uomini e società, climi e vegetazione, tutti in gran parte nuovi, mise in crisi molti presupposti teorici tipici degli occidentali, tranne poi, in seguito, operare una riduzione al modello unico: infatti, gli occidentali essenzialmente imposero il proprio modello come ideale di perfezione. L’altrove diviene quindi il locus dell’andare e del venire del viaggio per togliere la differenza. Sradicarla con l’eliminazione di massa di coloro che erano, e sono  tuttora, ritenuti diversi.

Ogni conflitto racconta questa storia, predica la parabola dell’esilio per l’altrove, della cacciata dall’Eden, affermando la funzionalità del principio di morte per sancire la miserabile sopravvivenza, e non certo la vita nella sua magnificenza. In ogni frangente di belligeranza, gran parte delle popolazioni profughe non andranno altrove, stazioneranno in accampamenti in attesa del ritorno, perché l’Altrove rappresentato cessa di essere un Altrove, diviene entità “conquistata”. La terribile parola che ha fatto dell’Altrove la meta di ogni avida predazione di territori abitati da altre culture.

Con l’uscita dai propri limiti geografico-culturali, gli occidentali, nella loro espansione mondiale, si trovano sempre di fronte allo stesso dilemma di dominio, più esattamente come accogliere la differenza culturale dovendone trarre un profitto non di scambio, ma di asservimento.  Per secoli avventurarsi nell’Altrove divenne una rappresentazione dello spazio-tempo, con tanto di calendarizzazione imposta e pertanto creando squilibri, diffondendo malattie, inculcando la concezione del bene e del male, fino al punto da sostituire le culture dei nativi con quella dei colonialisti. Così, come facevano i clerici vagantes, con ogni mezzo a loro disposizione senza alcun ritegno etico e passando da una rivolta all’altra.

È recente, la scoperta, di una nuova terra abitabile nelle nostre galassie. Un pianeta che secondo gli astrofisici sarebbe occupabile perché compatibile con il nostro clima. È un’idea del Nuovo Mondo come Altrove, la medesima convinzione che alla fine del Quattrocento determinò la scoperta dell’America e produsse la feroce colonizzazione di nuovi continenti, indifferente alla crudeltà dei massacri. Quanta gloriosa vittoria nel mare di sangue sparso!  Quanta elevazione ha ottenuto il nostro orgoglio per la conquista! E la nostra civiltà sempre è stata sostenuta da mano santa, e da santissime icone, quelle che per divino decreto reclamavano le vittime sacrificali maciullate in loro onore.  Non diversamente accade nell’ attualità: le  devastazioni  prodotte dei giochi di borsa quanti morti lasceranno sul campo?

La vicenda dell’Altrove è ricca di episodi e traversie con fortune economiche messe a repentaglio scommettendo sul crimine necessario, sull’avventuriero corsaro del momento, il quale incappa in mostri marini quando è fortunato, e in pirati quando la sorte gli è particolarmente avversa. Economia e finanza sono le due facce dell’Altrove, anche quando si è trattato di mettere piede sul trasognante faccione della Luna.

Altrove significa nell’etimo alibi. La voce alibi in latino significa altrove (Alius e Ibi) la presenza altrove.  La pretesa di razionalizzare l’Altrove è sempre destinata al fallimento, tanto  che se ne mostra sempre la sua inesauribile ricerca: sia questa cosmica che temporale, si tratti dell’isola del tesoro o dell’età dell’oro. Non si può formalizzare l’Altrove. L’Altrove c’è ciascuna volta in cui qualcuno si trova a parlare, è il qui e non della parola e dell’atto di parola che combina il corpo e la scena, il va e vieni, l’andare e il venire, l’istante del concludere, il clinamen  di qualsiasi piega prendano le storie. Intesa diversamente diventa una rappresentazione spaziale di ciò che d’altro interviene nell’atto di parola. L’altrove è della parola, insituabile nella rappresentazione tranne produrre la necrofilia dell’oggettualità astratta ridotta a cosa.

L’alibi della parola, l’altrove: l’economia come istanza di scrittura della storia e la finanza come istanza di scrittura dell’affare, lungo il filo della piegatura, istanza di soddisfazione, di conclusione, di profitto, di riuscita.

Se l’economia costituisce l’alibi della ricerca, la finanza è l’alibi del pragma, e indica l’istanza di conclusione delle cose, istanza di riuscita e compimento. L’altrove indica anche che la struttura non può non scriversi. Per scriversi, per formalizzarsi, per trovare il compimento nella legge non codificata e nell’etica, ha bisogno dell’altra lingua, quella in cui ciascuno parla. Altrove.

È impossibile dare un nome al nome, quindi anche dare un nome alla perdita, dare un nome alla morte. Pertanto è altra l’economia che procede dalla vita come assoluto e non dall’assunto di morte. Un’economia che non obbedisca al principio di morte è da inventare.  Il va e vieni senza spreco di vita. Solo fornendo un nome alla perdita, un nome del nome, solo se le cose fossero interamente nominabili, la necrofilia avrebbe il suo tornaconto coincidente con il fallimento. L’economia indica che non c’è più codice, non c’è più dispregio.

Economia come modo in cui si strutturano le cose senza finalismo, e quindi senza la morte, o meglio senza che la morte ne sia fondamento primo e ultimo. Origine e meta.

La riuscita dipende dal calcolo dell’improbabile: del non ontologicamente necessario. Infatti, ciò che importa è l’errore di calcolo affinché vi sia erranza, vagabondaggio, itineranza, differenza.

Alibi significa altrove.  Quanti alibi ci sono nella parola? C’è l’altrove come economia, non c’è un luogo dell’economia, ma c’è l’altrove che è l’economia, e poi c’è l’altrove che è la finanza. Ed è questa la vicenda che ci coinvolge come cultura occidentale dominante. È una vicenda che mostra il volto dell’efferatezza e delle conquiste fin dagli esordi. Ma tanto dispendio di mezzi, di pensiero razionale merita un’attenzione del tutto particolare, perché il primo Altrove della ratio è una rappresentazione metafisica dell’immortalità che si colloca nientemeno che nell’oltretomba; l’Altrove del destino dell’uomo oltre la morte. L’incommensurabile ritenuto raggiungibile attraverso prove eroiche di ogni genere, è parte integrante della nostra tradizione e del suo fruttuoso insegnamento. L’economia è il primo altrove, il primo alibi, l’altrove comporta la ricerca. Ricerca che non si codifica, non si disciplina. L’economia è alibi. Se il dove implica la combinazione del corpo con la scena, quindi anche la condizione dell’itinerario, questo va e vieni non compone un cerchio né una quadratura del cerchio. I conti non quadrano e non tornano mai.

Il calcolo trae al ragionamento. In termini funzionali e in modo economico. Questo vitalismo è proprio del discorso occidentale. Quindi il valore della vita si stabilisce e si apprezza sulla base della sua fine. Questa è la vita semiologica, che si può dare, si può vendere, che ha un prezzo. Quanto vale? Qual è il prezzo? Qual è il costo? Quanto costa la vita su Marte? È chiaro che una tale concezione conduce all’inesorabile tracollo di intere società.

Ciascuno impara a morire o impara vivendo? E cosa impara? Imparare a morire è appunto il dispositivo di eutanasia conformista. Situarsi in qualche luogo o destinazione certa, significa imparare a morire, significa credere che il tempo finisca.  Implica credere che ci sia un luogo dell’Altrove, Finis finantia, altrove del fare, alla radice di ogni impresa. Situarsi rispetto a qualcosa, nel discorso occidentale, per esempio, situarsi rispetto alla genealogia, anch’essa diviene limite spazio temporale.  Situarsi è il fantasma di morte. Il valore superno della “Storia” sminuisce il valore di ciascuna vita, la quale da assoluto diviene valore relativo sacrificabile ai credo di ogni genere e perfino all’Olandese Volante, o ad altre fantasmagorie. Il narrato anziché affabulazione, astrazione, simbolico, si fa letteralismo della verità. Concretezza del mitico, da atto di parola, si tramutano in pensiero per l’azione: la materia della parola diviene oggetto–cosa osservabile, conoscibile e dunque sottoposta a essere asservita, eliminata secondo necessità. La morte diviene il luogo per antonomasia. Irrappresentabile la morte, se rappresentata diviene tomba e cadavere, e i cadaveri del massacro la prova che l’altrove da elemento strutturante l’economico si traduce in economica contabilità della morte.

 In tribunale si chiede ancora l’alibi come prova.  In non –dell’essere qui, ma altrove. Il io–non–io nell’atto letteralizzato a fatto. Tanto da giustificare l’irresponsabilità dell’agire. Uno scarto di tempo, un altrove temporale della coscienza, che determina un amletico non esserci per via di una qualche forma di impazzamento. Alibi dell’ordine costituito per definirsi tale, in quanto principio ordinatore causale governatore e promotore del Caos da esso stesso inventato. Anche la demenza ha la sua finalizzazione, la sua funzionalità servile e mortale.  Giammai non vi fosse una razionalissima spiegazione dei fatti, dove finirebbe la codificazione dell’alibi – altrove?  Saremmo travolti da un destino e una sorte da selvaggi (che non obbediscono al logos), condizione in cui l’altrove è sempre in atto, un hic et nunc, contingente e istantaneamente altro, simultaneo nel fare, nel vivere. Se l’altrove non ha luogo, la contingenza, l’istante che conclude al fare non ha dunque un punto di origine, uno stato di partenza eletto a sito localizzabile, ogni istante è contingenza che conclude all’affaire, e che resta senza rappresentazione crono-spazio-temporale, a noi, invece, tanto cara e che tante terribilità ha provocato individuando nell’altro e nell’altrove il male da eliminare e da redimere. Ogni descrizione del male è ottimista: lo presenta come il minimo male necessario che schiude le finestre dell’avvenire e delimita i cancelli della normativa. Così possiamo dire che ogni descrizione della morte è vitalistica. La presenta come un’opportunità, un’occasione imperdibile.

L’Altrove è rintracciabile in tutta la letteratura che narra il zigzagare della ricerca, sia questa storica, ultraterrena, religiosa o fantascientifica. Ciascuno di questi ambiti letterari o “generi” che dir si voglia, narrano secondo la tradizione o precorrono il mitologema chiamato  “storico” della nostra concezione spazio temporale dell’Altrove  e dei mezzi per raggiungerlo.  Ciascuno di questi generi diviene il leggendario ideologico in cui la nostra cultura razionalizza le proprie vicende economiche e finanziarie e le giustificazioni culturali delle azioni compiute per ottenere: l’Inferno, il Paradiso, il Vascello Fantasma, l’Eldorado…

L’altrove è permanente nella dimensione onirica, nel sogno. In sogno andiamo altrove annullando lo spazio tempo, “stiamo nella terra di nessuno” e dove si rinvenga l’Altrove lo si sa solo nel sogno. Il sogno va e viene da luoghi insituabili che non hanno tempo, e se questa condizione ha caratterizzato molte culture differenti dalla nostra, tempo è giunto che noi s’impari proprio da ciò che abbiamo preteso cancellare senza peraltro riuscirvi…così da potere giungere puntuali all’ appuntamento con il Cappellaio Matto.

 

 
©Gabriella Landini