Trasposizione oniriomorfa- di Günter Roth

Con un testo inedito di Francesco Saba Sardi
Per gentile concessione della Casa Editrice Spirali

ROTH- TRaSPOSIZIONE ONIROMORFA

ROTH- TRSPOSIZIONE ONIROMORFA

ROTH- TRaSPOSIZIONE ONIROMORFA

 
 

 
 

 

Milano ha residui austro-ungarici. Di ascendenza linguistica germanica. Ci sono delle Hinterhöfe, cortili dentro cortili. Retrocortili. In questo su cui affaccia lo studio privo di riscaldamento, resta un vecchio ciliegio artritico, tutto bozzi, un torsolo contorto, annodato, ai piedi di un alto muro giallo, da tentata evasione.
Perché di continuo si evade. Günter lo fa ricorrendo persino alla traduzione, che è un saltare da alcuni ad altri livelli semantici. Come si vede, continuo a servirmi di designazioni da linguisti, da semantici che vedono come il fumo negli occhi i giocosi. Da essi considerati eretici (da háireses, scelta, propensione). Ora, certo, poiein, fare opere, produrre cose poetiche, pertiene al gioco. Ma un gioco al di fuori di regole e pegni da pagare. Non corse, non gare. E si svolge in una sorta di cerchio magico. Uno dei giochi è appunto la traduzione, attività di tale estensione e coestensione che Günter e io, conversando, cioè traducendo (e mentre ci scambiamo parole, parabole, altre, queste non verbalizzate, corrono tra noi) tentiamo gergalità plurilingui, anacolutiche invenzioni.
Tradurre non è ripetizione, ricalco. Tende a essere scrittura, non letteratura. Invenzione. La donna è accucciata. Sta partorendo un pupo. Grande quasi quanto lei. Le terrecotte di Günter devono essere vuote. Si guarda con l’orecchio. Sonorità visive. Faccia, collo, spalle della partoriente sono nere. Il pupone è a occhi chiusi. Entfotzung, propongo. Svuotamento, de-vulvazione. Pupone cilindrico, estruso da una tubazione. Nessuna mater dolorosa, nessun personaggio?
Ma Günter non è d’accordo: ha voluto «dire» qualcosa, descrivere. Replico: l’arte non dice, non significa. È. Non è conoscenza. E non c’è scultura. C’è lo scolpire, il plasmare, il penetrare con la mano, con le dita, nell’involucro sonoro per estrarne pasta superflua. Mai una tecnica come preludio. La tecnica si inventa volta per volta, all’occorrenza. Non determina. Non istituisce una modalità, un genere. Günter non è il rappresentante di un modulo, di una categoria. Le due partorienti siano pure maya o peruviane, da lui viste da qualche parte: mostre, riproduzioni, che importa? Il suo non è esercizio di bella copia, bensì un ricavare spunti da spunti. Mitemi da mitemi. I quali poi sono parole che sgorgano spontanee, imprevedibili, imprevedute. Necessarie – e inutili: perché l’arte, le varie arti, a nulla servono. Fenici che attraversano, sfondandolo, un muro, e nel tragitto perdono le penne. Spetta all’inventore, al poeta, di ridargliele in simbolo. Senza l’intervento del terzo escluso a rendere tutto ordinatamente caotico, tediosamente accettabile. Tutto comprensibile, insomma. Quasi che il cosmo rispondesse a un senso, fosse frutto di un perché, nutasse oscillando alla volta di un finis. Come se il ciliegio, l’ancora robusto e a lungo moribondo fusto attorcigliato, potesse suggerire soluzioni. Giardini edenici o apocalissi.
Sta qui la differenza tra un Günter Roth e un Picasso. Lo spagnolo aveva dato un’occhiata ai «primitivi» e per un momento se ne era innamorato. Opere di «artisti» negri visti al Trocadéro, futuro Musée de l’Homme. Celebre la sua Tête de femme (1909), ricavando l’idea da un piccolo avorio dei Lega del Congo orientale. Non un ritratto, non un typ, nessuna descrizione o imitazione. Pezzo d’avorio appena abbozzato, minuscolo totem, memoriale dell’«antenato», dell’intero gruppo. (Non società, cioè gerarchia.) Picasso, invece, la sua testa l’ha socializzata, civilizzata, colonizzata. Rompendo la superficie della figura in angoli vivi, come a colpi di roncola. Inserendola in un valore anatomico, secondo una predilezione dettatagli dal suo logos, che pure avrebbe voluto negare, superare. E lo fa inserendo la testa in un reticolo geometrizzante, conferendole una dimensione, una visione spazio-temporale. Una struttura prospettica, generalizzante, obbediente a Platone e Aristotele. Di aspirazione al Bello iperuranico.
Günter non ri-tenta. Traduce, non però una forma. Traspone un oniromorfo, riconosce la Parola. Lasciandosi impregnare da uno sbieco, un alcunché di appena intravisto.
Poiché l’arte è dimenticanza. Oblio degli eventi, di cose che lo sguardo sa affrancare dal nostro considerarle cose. Non fantasmi ai quali chiedere consiglio. Impossibile dunque istituire paragoni. C’è stato chi ha accostato Günter Roth a Michelangelo. Supponendo il persistere di un «carattere» assoluto, ricalcato su quello del toscano, l’indocile pure al servizio dei potenti, e proprio per questo contraddittorio maestro dell’incompiuto (vedi i suoi prigioni). Narrazioni, dunque. Esposizioni di temi. Tentativi di convincere. Letteratura, insomma.
Sia chiaro. Intendo per letteratura qualcosa di assai preciso, i cui connotati sono reperibili in mille grammatiche, sintassi, testi di retorica. I prodotti del lungo, incessante Discorso occidentale, ipostasi del cogito, quello chiamato in causa da Cartesio con Aristotele et alii, in nome appunto del signor Terzo Escluso. Sempre lui. Che discorre, e lo si sente, autorevole, tra i righi degli spartiti, nelle tonalità della musica tonale, nei dipinti che sono dipinti. Cose misurabili, collocabili con esattezza in un tempo e in uno spazio. H tanto. L tanto. I cieli della pittura medievale, le miniature, i manti delle Madonne di Duccio, i blu della pittura nordica. Ma noi (chi?) sappiamo che il vedere è una declinazione dell’invisibile. E che la compiutezza è la seduzione dell’ovvio. Che vedere è immaginare il vedere. Una congerie di casualità alle quali attribuire sostanza concreta, letteralistica. Ma costituzionalizzato, il caso è ancora caso? La Scrittura è tutt’altro. È imprecisa. Vaga, ombrosa. Ambigua. È aspirazione all’Altro. Che non so definire. Posso, al più, dire che quando ti abbandoni al possibile, quell’Altro ti sta dietro, a sussurrare, da oltre le spalle, insensatezze – tutto ciò che non comprendiamo e sono le uniche cose che contano – ironista che è. Maestro appunto di anacoluti, di improprietà, addirittura di menzogne.
Vi siete mai trovati ad attribuire forme animalesche, di paesaggi, di volti, di edifici, di geografie – di quel che volete – alle nuvole? Facendo dei «filibranti delle nuvole», come li chiama la poetessa di cui dianzi, tanti presunti soggetti di un Wollen – e persino di un Kunstwollen – sì da riuscire ad avvertire la tattilità organica, non più solo simbolica, di tutte le cose? Conoscere. Sapere. Gnosi.
Günter non ricalca, prende spunto, non fornisce reinterpretazioni modernistiche di antiche parvenze. Propone ciò che sopravvive alla tentazione di sparire. Il guerriero di Capestrano è (ancora) recita, rappresentazione. Non era più, da migliaia di anni, l’impresenza degli oggetti, venuti da un cieco guardare. Non può più essere orma dell’assenza, pittura corporale sulle irregolarità – mammelle, natiche, membri aggettanti – delle rientranze e cavità, ripari sotto roccia, grotte. Che sono organi, introflessioni. Alcunché di vivente, luoghi dove tracciare immagini dettate dalle casualità proposte – non imposte – da un mondo popolato di liberi animali. Cibo, carnina buona. Non riproduzioni, non ritratti, neppure rimandi-a. Décor, al più. Voragini in cui calare, ma dalle quali era inutile risalire istruiti, redenti. E dunque, non nekya, discesa dell’artefice agli inferi, per meravigliarsi poi dei cieli. Il mondo era piatto, era rotondo, era sferico, a ruotare erano il sole e le stelle. Non ancora astrologia. Un caosmo non inserito in una successione temporale.
Il guerriero italico celebrava la guerra come gioco. Quella che era ancora di Paolo Uccello: battaglia irta di lance sterminate, quasi elastici alberi di navi che impattavano e abbattevano policromi damerini fra scalcianti cavalli rovesciati, su fondali di rapidi cacciatori indifferenti allo storico evento, e lanciati con cani all’inseguimento di bestiole in fuga. Ancora arte della guerra, prima delle armi da fuoco deprecate, vedi Orlando furioso, XI, 26, dall’Ariosto. Ma Günter non ha più nulla da dimostrare, nulla da illustrare. Non drizza stele, sa che la guerra ha cessato di essere gioco. L’ha provata sulla sua pelle, ne parlerò più avanti.
Sebbene supponga, e forse ne è convinto, di avere conferito, alle sue partorienti, smorfie – dice – che sono dolore o gioia, strazio o trionfo. Impersonazioni di vere maternità, insomma. Dolenti o felici. Dunque scultura come teatralità, come volontà di fare corpi che diano ombre: come in pittura, dove è l’ombra che ci restituisce un corpo. Una contemporaneità, in fin dei conti. Il cogliere un istante, un gesto, una posa. Ma contemporanea a che cosa, se non alla speranza che il mondo, gli oggetti, gli eventi, siano più «realtà» del nostro dubitare di poter afferrare, al di là delle membra rappresentate, oltre la carne caduca, l’Alterità, la Carne? Non Fleisch – ma in tedesco non c’è un equivalente della chair francese, quella che in illo tempore risorgerà, l’in-sé indigeribile contrapposto alla viande, l’alimento, il proteico.
Günter è nato in Renania. Non è Ghermania, sostiene. Riva sinistra del grande fiume. Su quella destra, comincia, sostiene, la Prussia. Renania magari celtica. Eh, no, Günter. La lingua tedesca non è marmorea classicità. Non è rigidezza opposta a duttilità. Non è solo i propilei berlinesi. Con la lingua ghermanica si possono compilare ludiche invenzioni, dotti sberleffi, e non soltanto quei sostantivi composti, quelle lunghe teorie di suoni – treni merci asfissianti, concatenazioni senza cesure – che tanto fanno ridere, e disperare, i fanciulli dei licei germanici in Italia e altrove. Forse non sempre compitabili di prim’acchito, anzi da svolgere con cura. Ma chi ha mai detto che la poiesis debba partecipare del «chiarese», dell’ascesa alla solarità, anziché avvoltolarsi nell’«oscurese»?
Quando quella che diciamo «arte» è sembrata imitazione, lo è stata di ciò che nessuno prima aveva visto. Che pure ci si ostinava, e ci si ostina, a vedere, inganno ordinatore, legalistico, garante del prevedibile.
Tant’è che Günter stesso ha disfatto le sue «sculture». Ne ha fatto lievità sospese su se stesse. Aeree. Ne ha fatto frammenti. Si è permesso persino di giocare con le trovate care alla polis greca. Però senza mai potersi dire appagato. Ha contemplato le proposte del buon tempo antico. Nei kouroi del periodo eginetico – vago sorriso, piede sinistro un po’ avanzato rispetto al destro – ha notato che se ne guardi l’immagine di sbieco, ecco che ti appare sospesa su un piede solo – oh, miracolo di equilibrio! Che abilità! Da entusiasmarsene! Caviglie sottili a sostenere il gravame del marmo, eppure, eppure… Ma anche i ponti, gli faccio notare, sono posati su eterei supporti. Stanno su che sembra un miracolo.
Già, ammette – non può non farlo – Günter. Perché, insisto, quegli efebi, quei reiterati capolavori, certo senza pari, ma quasi sempre uguali a se stessi, erano la letteralizzazione di un mitema. Consistente nel girare attorno, vedere da tutte le parti. Gli antropomorfi della stele-fallo. (L’arte, l’invenzione neolitica, è rimasta a lungo fallocentrica: almeno fino al Rinascimento.) Senza più l’oppidum del guerriero di Capestrano. La «libertà» della polis, dove la legge non era dettata dagli dei. Dove era discussa, e decisa, dai cittadini: solo alcuni, si sa – schiavi esclusi. Ed era comunque legge – era normalina, la suprema droga, passata dal greco all’avestico razan, il comandamento religioso. La feste Schrift ormai sostitutiva del tabù, che è il sentimento del non-si-può che ha avuto corso, quale recto del verso mito, ben prima di un Hammurabi che levi le braccia al cielo implorando che Marduk gli detti le norme; ben prima di un Mosé che scalpelli su pietra gli ordini del cespuglio ardente di fiamme non urticanti; ben prima di un Corano piombato dall’empireo sulla mente e la mano grafomane di Maometto.
Ma io ho imparato a non prendere in parola le interpretazioni delle loro opere date dagli artisti. Le loro poetiche. Logografie che non sono loro. È la solita storia. «A D.R.» Il critico domanda. E giudica. Lo scultore, o quel che sia, risponde. Come gli detta la domanda. E si giustifica: lo hanno persuaso della necessità di farlo.
E il critico traduce. Come fa lo psichiatra con le parole e i gesti del «matto». Li inserisce nei termini del logos proprio della sua disciplina sanitaria. Fatta di catene di cause ed effetti.
La poiesis è inconciliabile con il Discorso. A volte però capita che il critico traduca per via empatica. Senza storpiature. È accaduto così che nel 1974 organizzassero una mostra di opere di Günter Roth al Suermondt-Museum di Aquisgrana. E che Ernst Günter Gromme constatasse che «Günter Roth suddivide il proprio sviluppo artistico in varie fasi… [e che] attraverso numerosi processi giunga a un’espressione plastica in cui risuona l’affinità con quel grande modello» che sarebbe «i disegni di Roth sulla Pietà milanese di Michelangelo». (Günter, a rileggerlo, scuote il capo.)

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Ma «intorno al 1962», prosegue il critico, «Roth comincia a soffrire della “malattia storica”. Egli sente l’ombra dei grandi come peso insopportabile che si oppone alla sua libertà personale (il corsivo è mio)». Ed ecco che allora «nuove materie vengono sperimentate come medium per nuove forme… Eppure anche la vulnerabilità di un solido geometrico non risulta libera da emozioni e, per quanto l’artista si sforzi di eliminare ogni traccia di “umano” dalle sue sculture, alla fine risulta pur sempre una figura sensibile, i cui elementi mobili conducono una vita limitata in spazi predisposti».
Insoddisfatto, Roth sperimenta e introduce «strutture non collaudate. Il passaggio da forme levigate a forme abbozzate causa nuove tensioni in forma plastica… La consapevolezza di non poter lavorare senza forme organiche e allo stesso tempo di essere arrivato quasi a un girone più esteso della spirale della propria evoluzione» (è sempre il critico che parla) induce Roth a produrre «sculture senza luogo determinabile, eppure appartenenti a questo mondo tecnicizzato».

Günter è venuto a casa mia. Di uno che per decenni ha girato il mondo. E da occidentale che sono, ho raccolto. Ho saccheggiato. Ho frequentato continenti da ritradurre, isole e cannibali. Ne ho riportato cose. Ne ho accumulate. E Günter sa che l’oggetto-opera uscito dalle mani di un «selvaggio» ammutolisce di stupore l’intera arte delle civiltà che praticano lingue fatte di scadenze rispettabili, di strutture semantiche che ruotano attorno alla grammatica di Platone o alle pandette di Ulpiano e Modestino. E sa anche che lo «straniero su ogni spiaggia di questo mondo, senza uditorio né testimoni porta all’orecchio del Ponente una conchiglia senza memoria» (Saint-John Perse, Esilio). Gli ho mostrato uno scudo della Nuova Guinea (Günter: «Ecco, a questo non sono arrivato»). Poi, oggetti in forma di statue del Congo, una figura apotropaica dello Zimbabwe (teschio di scimmia, collare di anelli di rame, vesticciola di rafia, corpo contorto, zampe corte, rattratte). Tocca le tettine della lunga giovinetta con il corpo esaltato da scarnificazioni rituali. Farlo porta bene. Gesto raccomandato dallo «stregone» di Tambacounda.
Günter ha seguito, senza mai distaccarsene del tutto, l’andamento del divenire occidentale, compresa, essendo lui un moderno, la tecnoscienza che (si crede – ma lui lo crede? Forse sì. Vedremo) permette di consumare il distacco, di distruggere o squalificare il mondo «antico», il mondo (poveramente) mitico. Di sostituirlo e modernizzarlo. Ed è l’impositiva fase odierna, ancora ahimé odierna, della Weltanschauung postantica.

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E Günter si è lasciato alle spalle molte cose. Pure, l’artista quasi sempre si trova anche legato, suo malgrado, all’evento storico. Niente del suo mondo può essergli pertanto estraneo. «Ma soltanto l’inerzia è minacciosa. Poeta è colui che rompe per noi ha consuetudine.» (Saint-John Perse, Cronaca) La storia gli consiglia, all’artista, di «ascoltare il battito ritmico che la sua mano alzata imprime». Perché, dice l’artista, «non è vero che la vita possa rinnegare se stessa». Eppure, il poeta sa che «nulla serba forma né misura sotto l’incessante afflusso dell’essere», e «al poeta indiviso [spetta] l’attestare fra noi la doppia vocazione dell’uomo… È evocare nel secolo stesso una condizione umana più degna dell’uomo nella sua interezza originaria… Di fronte all’energia nucleare, la lampada di argilla del poeta basterà per quello che egli si propone? Sì, se c’è ricordo di argilla nell’uomo. E quanto al poeta, basta che egli sia la cattiva coscienza del suo tempo.» (ibid.)

Certo, questo implica (anzi, condanna alla) incomprensione, per esempio di galleristi e collezionisti. (È inevitabile soffrirne: esiste pur sempre un’umana solidarietà, no?) Perché (ancora Perse) «On m’appelait l’Oscur et j’abitais l’éclat». Si è soli in virtù del non essere mai stati. E l’arte – nessuna delle tante, l’unica – non è imitazione. Per quanto remota. Anche se ridotta a flebile nostalgia. E non c’è guida possibile, se non per finzione, alla poiesis, alla Scrittura – la si chiami come si preferisce. E una delle massime risorse dell’arte consiste nella sorpresa.

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Günter Roth/Trasposizione oniromorfa- di Francesco Saba Sardi